martedì 28 giugno 2016

LA NOVELLA DEL VECCHIO INNAMORATO DELLA NEBBIA

movesi il vecchierel canuto et bianco […]
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassù nel ciel vedere spera.
Francesco Petrarca, Canzoniere, 16

Era quasi l'alba: in inverno il sole sorge non appena gli studenti sentono la prima campanella che li invita nelle aule. Una mandria di giovani menti - la maggior parte delle quali, purtroppo, per nulla fresche! - si avvicinava alle scuole. Praticamente l'intera popolazione sotto i diciannove anni della città marciava tutta verso un'unica zona in cui s'erano via via accumulati gli istituti superiori. Lungo un viale in particolare la mandria si muoveva con maggior foga. Gli alberi gelati sorvegliavano il largo marciapiedi e per terra qualche pozzanghera era una superficie gelata scivolosissima. La prima campanella suonò e la giornata aveva inizio.  Trovarono quell'uomo come si trova un centesimo per terra: era una persona, ma non contava poi tanto. Proprio come una monetina, in molti se ne accorsero, ma solo un bambino fu travolto dalla curiosità, curiosità che riuscì a spingerlo a raccogliere quel tesoro. Sua madre, quando vide che il figlio aveva toccato il ginocchio dell'uomo e che quest'ultimo crollava di lato con la bocca spalancata, urlò. Gli studenti erano sfilati davanti a quel corpo, lo avevano di certo notato, però non se ne erano preoccupati. Quando la donna urlò, erano già da tempo rinchiusi nelle loro carceri, in attesa - un'attesa disperata! - che l'ultima campanella li liberasse dal supplizio quotidiano. Solo quel bambino e sua madre … oltre la fila di alberi sfrecciava di tanto in tanto una macchina, incurante di ciò che succedeva sul marciapiede. Il portinaio della caserma lì a fianco udì la donna e accorse. In poco tempo ci furono molte persone. Il bambino, ora in braccio alla madre sotto shock, continuava a fissare la sagoma ora coperta da un telo. Non sapevano chi fosse … qualcuno sembrava di riconoscerci una vecchia conoscenza, ma nessuno ne era certo. Accanto a lui trovarono un termos colmo a metà di tè. Addosso, oltre ai vestiti, non aveva altro che una penna, dei fogli scritti con una buona grafia, snella e brillante, e tre euro in monetine da venti o cinquanta centesimi. Una fotografia, forse una cartolina, in cui era ritratto un particolare di un affresco giottesco: Francesco sposa la sua amata, "madonna Povertà".
Qui di seguito viene riportato il testo scritto da quell'uomo (così si può supporre: certo sembra l'ipotesi più plausibile il fatto che quei fogli gli appartenessero e che fosse quella mano inerte ad averli vergati).

Fatemi riposare, signori. Sono stanco: non tirate più! L'uomo non è una pelle di tamburo da tirare e battere! Oh, queste suonano come le parole di qualcun altro. Ma da chi vengono? Boh, non è così importante: per oggi le faccio mie, per oggi sono mie.  Ebbene, mi devo fermare un attimo, ho bisogno di riprendere fiato prima di quest'ultima mia corsa. Sì, temo proprio che sia l'ultima; in verità non 'temo' affatto quest'ultima mia corsa, perché è già da molto che aspetto. Sono nato parecchi anni fa, ma non è importante ricordarsi quanti di preciso. Parecchi, davvero parecchi anni. L'unica cosa importante è ricordare che sono anziano. Anziano … anziano è una parola gentile, in effetti: io preferisco definirmi 'vecchio', perché in fondo è ciò che sono davvero, ed è ciò che sono sempre stato. Fin da giovane, infatti, ho camminato per la vita come cammina un povero vecchiettino curvo sul proprio bastone: piano, delicatamente, quasi impaurito, osservando i lavori per strada da lontano. Sì, non uno di quei vecchi che si mettono a criticare gli operai, ma uno di quelli che, seduti ad un bar, dimenticano per ore il bicchiere con l'acqua tonica che hanno davanti alla mano e fissano l'altro lato della strada.
Ero così, ma non rimbambito. Ero cauto ed educato, attento, troppo attento, e osservavo, osservavo ciò che mi stava attorno. Vorrei dire di averlo fatto per piacere, perché mi dava un'immensa gioia osservare qualsiasi cosa mi circondasse, ma mentire: la verità è che è l'unico modo che ho mai conosciuto di incontrare il mondo. Guardare. Toccare è qualcosa che non sono mai riuscito a fare. Guardare, ecco tutto quello in cui, invece, sono sempre stato bravissimo.
In questi miei anni ho anche pensato a lungo a cosa stessi facendo, e ho spesso pensato che guardare è un po' come pregare. Tu ti metti lì e cerchi di capire che cosa ti trovi davanti. Inizia così un dialogo silenzioso tra chi guarda e ciò (o chi) è guardato: io, lì, fermo con gli occhi fissi, cerco di comprendere, e la testa si riempie di domande, tante e tante domande, che, via via, se si è fortunati (come io non sono), trovano qualche risposta. A volte, poi, non solo non trovi una risposta: trovi una risposta che, miracolosamente, è una nuova domanda. Un'idra interminabile di quesiti e nuovi interrogativi: tagli una testa e ne nascono di nuove. Ecco. Guardare è un po' come pregare: alzi lo sguardo del tuo cuore, proprio mentre chini il capo, incapace di osare, e scopri in te un mondo che non può non stravolgerti. è una tempesta che incessantemente ti sbatte di qui e di là; mille pensieri, mille immagini che cantano nella tua anima e … e niente. Nella preghiera cerchi rifugio, speranza, un segno, salvezza, sostegno, amore, forza, certezze, una via, un po' di bellezza. Nella preghiera, quella profonda, quella che si fa con la vita tutta, si adora. Ebbene, questo è guardare! Io mi sono sempre messo lì, come inginocchiato al banco della basilica cittadina, e, scomodo all'inizio, per poi diventare assuefatto alla posizione disagevole, osservavo. No, non vedevo, io: nella mia vita forse ho visto qualcosa solo un paio di volte, perché vedere significa riconoscere un qualcosa nell'altro, riconoscere una briciola di luce, un frammento anche insignificante di bellezza. Ecco, a me questo non è capitato così spesso. Ma di quelle due o tre volte … sì, anche se di questi rari casi non conservo, è vero, un ricordo nitido e chiaro, so che quei lampi improvvisi hanno brillato a lungo nella mia vita. In quei pochi momenti … in quelle fortunatissime sbadataggini del caso (o forse non c'era nulla di sbadato allora …) io … io ho incontrato, no anzi, io ho incrociato Dio. Come uno sconosciuto in una piazza affollata il sabato pomeriggio di primavera, quando la città si anima per la fiera di maggio.
Guardavo il mondo, da lontano, protetto dal mio carattere e dalle mie abitudini: nei giorni passati dietro alla mia finestra fatta di meditazione avevo più volte scoperto che l'uomo, in fondo, a davvero una bellezza nascosta da qualche parte. Certo, ogni secondo scoprivo attorno a me dei motivi per cui odiare quella creatura così incostante e volubile, ogni secondo ero costretto ad ammettere che davvero era una creatura troppo fragile quella che avevo davanti. Ma poi, poi andavo oltre a quelle orribili azioni, andavo oltre a quella stragrande maggioranza di persone che, dopo essersi costruita una fortezza di finta conoscenza, spadroneggiava sugli altri con la propria ignoranza profonda, riuscivo a lanciare il mio sguardo al di là di quelli che, arroganti, sfruttavano le loro doti per una dote (non rinuncerò a questo gioco di parole, che, seppur mi paia anche un po' scemo, mi piace davvero in fondo: permettetelo a un vecchio che ormai è solo stanco e vuole sfogarsi). Era faticoso, lo ammetto, un'impresa che, con molta poca modestia, posso definire ardua, ma alla fine riuscivo e scorgevo qualcosa di quei cuori così deboli, così instabili, così insicuri. Quante volte ho visto il male venire da un male più intimo? Davvero è impossibile contarle; e sebbene possa sembrare una cosa ovvia, è così strano che ancora così pochi si accorgano di quanto dolore stia dietro al marcio che s'accumula nelle nostre vite! O meglio: quanti si accorgono di questa solitudine che sta alla base della viltà del mondo che ci circonda e che, nonostante tale consapevolezza, preferiscono ignorare la verità, godendo di crogiolarsi in una simile condizione!!
Le mie parole suonano sempre più come quelle di un predicatore moralista, di un Savonarola incallito che solo pensa di avere la verità in tasca. Mi scuso. Non è questo il mio scopo.
Guardavo il mondo da lontano e, ripeto, in fondo scoprii che amavo quella creatura che era l'uomo, la amavo proprio per le sue piccole imperfezioni a volte, quelle piccole imperfezioni in grado di plasmare le più grandiose tragedie. Sì, perché attorno a quell'incrinatura di fondo nella natura umana girava tutta la vita di tutti gli uomini: dalla nascita fino al momento ultimo l'uomo doveva scegliere, l'uomo doveva modellarsi da sé secondo la propria volontà, e non per imposizione altrui; l'uomo si trovava a doversi plasmare, in un certo senso, più o meno consapevole di quella possibilità di sbagliare che si portava dietro come un tesoro. Ecco, finalmente (forse) riesco a spiegarmi con parole un po' più semplici: amavo nell'uomo quel possibile errore che incombeva su di lui, quella strada sbagliata che, a seconda del suo stesso volere, poteva imboccare o tralasciare. Senza quella, infatti, che cosa sarebbe stato l'uomo se non un semplicissimo angelo? E nemmeno un angelo coraggioso (parole blasfeme!) come Lucifero, ma un normalissimo angelo, perfetto e conforme al volere di un altro.
Vidi passare molte persone, con semplicità, sotto la mia finestra. Io solo di rado mi azzardavo a scendere dalla mia posizione privilegiata (l'ho sempre considerata tale, anche a dispetto di chi sostiene che, se non entri davvero in relazione con gli altri allora non hai vissuto affatto!). Per lo più io vivevo attraverso gli altri, scoprendo le sensazioni e le emozioni non attraverso la mia pelle, ma attraverso la vita di qualcun altro.
Ho scoperto che cosa significa l'amore di una donna, non nelle carezze di una mano con le unghie tagliate corte, non nelle dolcissime parole di due labbra sottili, ma nel guardare millemila coppie di innamorati, nel tentare di penetrare lo sguardo ricambiato di due anime infuocate. Oh sì, quante volte ho provato a intromettermi! E sempre ho scoperto sensazioni diverse: qui riuscivo a sentire i pensieri di una lei troppo grata di aver ricevuto proprio quel lui, quel lui così tanto cercato, pur con i suoi mille difetti; là riuscivo a vivere nelle spalle di lui, quando, stretto alla sua amata, sentiva le manine stringersi in un abbraccio semplice, ma pieno di premura, di attenzione, di cura; qua, poi, riuscivo a comprendere che l'amore poteva anche far male, poteva anche diventare qualcosa di malato, e non per cattiveria, ma per incapacità, per debolezza … Ho vissuto mille amori senza mai aver amato una sola donna. Mi bastava guardare e vivere in ciò che guardavo.
Ho scoperto cosa significa la rabbia: la rabbia di una donna tradita, la rabbia di un amico abbandonato, la rabbia di una delusione, la rabbia di un proprio errore valso una possibilità irripetibile, la rabbia per la propria condizione d'inferiorità, la rabbia per la cattiveria. Ho vissuto anche la rabbia, sì, e mai, dico mai, ho urlato contro qualcuno. Da piccolo, quando ancora non vivevo tutto il mio giorno guardando, allora sì ho gridato un pochino, e mi dicevano che ero un isterico, ma mai, alla fine, ho urlato davvero. Cosa significa? Come puoi gridare ma non urlare? Non lo so di preciso, ma qualcosa mi ha spinto a scrivere così, a credere nell'esistenza di una differenza tra il gridare e l'urlare, quasi che l'uno esprimesse solo un tono di voce, mentre l'altro pretendesse di definire anche l'emozione che ha guidato quel tono.
Ho conosciuto tutto, tutto quello che Dio ha voluto mostrarmi io l'ho conosciuto e so cosa significa perdere un figlio pur non essendo mai stato padre, so cosa sia una tortura, pur avendo conservato il mio corpo sempre intatto, so cosa sia una malattia incurabile, pur essendo vivo dopo dieci di queste! No, non sono un pazzo (o forse un po' lo sono). Sì io non ho vissuto tutto ciò, ma queste cose io le ho conosciute, cioè le ho vissute con la pelle di altri. è una stupidaggine? Non credo, perché è il mio massimo tentativo di vivere: non avrei saputo fare altrimenti. Inetto a vivere io, mi sono ridotto, ma non la considero una svalutazione della mia esistenza, a vivere attraverso gli altri, a conoscere ogni persona, a incontrarla nel più intimo aspetto, ricevendo anche dal più rapido sguardo tutto il carico di peso che quella creatura poteva concedermi. è stato un modo di vivere strano, lo ammetto, e forse un po' assurdo, ma ho comunque vissuto questa vita: questa vita ha conosciuto altre vite che hanno vissuto e allora ho vissuto anche io.
Contorto! Ma che senso avrebbe una vita semplice? Non ne avrebbe, perché la semplicità della vita sta nel fatto che una vita non segue una logica nostra, una logica grammaticale lineare: è un occhio diverso che considera la nostra vita semplice, facile e bella …
Dicevo? Dicevo parole senza senso, come sempre, ma quali parole in particolare non avevano senso stavolta?
Sì: ho detto che ho amato, grazie alla mia insolita attività di acuto osservatore, l'uomo in ogni sua fragilità, proprio dove stava la debolezza più terribile, più pericolosa. Era bello. Tremendamente bello. Negli anni si plasmava l'immagine di una creatura dalle mille possibilità, costantemente in movimento, incapace di arrestarsi, animata in ogni singola particella che la componeva. Questa creatura mi appariva come un infinito crogiolo di meraviglie miste a nefandezze indicibili e lì stava il mistero imperscrutabile: cosa si celava dietro a quel mondo inarrestabile ch'era, ai miei occhi, l'uomo? Sì, quel graffio di fondo nella sua natura, quella minuscola imperfezione, che giustificava la possibilità di qualcosa di male, era ciò che rendeva tale creatura perfetta, perché a lei sola spettava scegliere se insistere su quella fatale frattura o se tentare, piuttosto, una via diversa, di costruzione e di nuova bellezza. Ma perché? Perché quella possibilità così pericolosa, l'azzardo di dover "scegliere tra il bene e il male"? Era una domanda che, man mano che la mia vita trascorreva alla mia finestra, si arricchiva di nuove sfumature, lasciando il mio animo scosso da una infinita serie di possibili risposte. Ricordo, con affetto, una di queste risposte, in assoluto (forse) la più pittoresca, la più sciocca anche: era stata una strega, un essere gobbo e dalla pelle grinzosa e grigiastra, con una mano paralizzata dalla vecchiaia, a maledirci tutti, a decidere, un giorno, che non ci sarebbe stato più l'uomo buono e l'uomo cattivo, ma che ogni uomo avrebbe dovuto portare dentro di sé luce e tenebra, in perenne conflitto, come il giorno scaccia a ogni nuova alba la notte e come la notte scaccia a ogni nuovo tramonto il giorno. Che idea folle! Un'idea completamente folle, ma così comoda: la colpa veniva finalmente data a qualcuno, a qualcuno che non c'entrava niente con noi …
Con il tempo quest'ipotesi si è ridotta a una mera fantasia di bambino, a un ricordo lontano di una riflessione acerba. Oggi so qual è la risposta a quella domanda, oggi so bene perché viviamo in una continua scelta, ma non dirò, no, non rivelerò adesso la fatica di una vita, non cederò perché ognuno potrà, poi, provare a trovare una risposta.
Ebbene. Come posso proseguire adesso questo mio anomalo "racconto"? Ah, sì … devo ancora perdermi un attimo per ricordarmi di quella volta in cui ho conosciuto Dio, in cui l'ho visto proprio io, in cui - caso strano - ho vissuto sulla mia pelle la mia vita (è qui che sorge il dubbio atroce di aver sprecato la mia vita 'lontano': non vivendola ho forse rinunciato a molti più momenti in cui avrei incontrato Dio?). Sarebbe strano ricordarsi di questo evento in una stagione diversa da questa: era inverno anche allora e anche allora la nebbia era l'unica compagna nel mio viaggio. Quando l'autunno si condensava nei più materici giorni dell'inverno sapevo che si avvicinava il nostro incontro, e la aspettavo come fosse la mia amante, in ansia, desideroso di sentire di nuovo il suo tocco sulla mia pelle, di concedermi di nuovo a lei, l'unico mio vero amore. Era un dolore vederla ripartire, quando arrivava la primavera, ma lei mi lasciava con un bacio soffice che mi avrebbe accompagnato fino all'anno successivo: ogni volta che sentivo dell'acqua fresca sulle mie labbra mi ricordavo di lei, di quella sensazione tutta strana, che sembra un abbraccio impalpabile … Quel giorno era come oggi: la nebbia avvolgeva ogni cosa, con il suo candore, con quella sua magia sovrannaturale, dove tutto sembra fatto di qualcosa di più duro del metallo, della pietra, del legno. è tutto ghiaccio, è tutto freddo e insensibile ghiaccio, impossibile, però, da scalfire. Non camminavo più, quella sera. Sera? Dovrei chiamarla notte quella, perché ormai tutti si erano ritirati e c'era da prepararsi per andare a dormire. Io non dovevo rintanarmi da nessuna parte. Avrei dormito lì, stavolta, e mi sarei goduto la notte d'amore con la mia fidanzata.
Una donna, distratta, camminava veloce. Perché rincasava così tardi? Sembrerà solo la preoccupazione di un vecchio, ma non è conveniente per una donna girare sola in una notte di nebbia. Era tutta imbacuccata e quasi correva sotto i portici del centro. Era passata davanti alle meraviglie di pietra, davanti alle mie chiese preferite senza nemmeno degnarle di uno sguardo, quasi che non meritassero nulla, quasi che fossero fortunate solo per il fatto di essere ancora in piedi e non rase al suolo per sfruttare meglio lo spazio. Sembrava assorta in quale complicata questione: mentre camminava potevo sentire il rumore del suo cervello, il lavorio incessante dei suoi neuroni, disperati, alla ricerca di un qualcosa di introvabile. Man mano che si avvicinava notavo in lei nuovi dettagli, nuovi minuscoli dettagli insignificanti. Io non la fissavo, e anzi, cercavo di non voltarmi verso di lei, per non farla spaventare, ma non smettevo di osservarla, di cercare in lei tutto ciò che potevo trovare.
Mi superò. Non si lasciò dietro alcun profumo.
La nebbia mi accarezzò e mi appisolai. Poi mi svegliai, qualcuno mi toccava e mi scoteva la spalla: due occhi normalissimi, un naso non grosso, non piccolo, un po' all'insù, due labbra coperte da una sciarpa tirata ben in alto. Era lei. Era tornata indietro? Sì, in una notte di nebbia, pericolosa e meravigliosa insieme, era tornata indietro. Mi lasciò un termos, pieno di qualcosa di caldo. Una tisana? Forse un tè particolare. Disse poche parole e si scusò di avermi disturbato.
Si rialzò in piedi e mi superò: ricordo ancora il profumo di quell'infuso caldo. Per quella notte tradii la mia amante e invece che danzare con la nebbia volli fare l'amore con quel profumo.
Ecco, io ho conosciuto così Dio. Non ero un senzatetto, un vagabondo (per dirla con quella bella canzone) perché anche quando ho dormito per strada è stata per incapacità, per inettitudine mia, ma Dio, in quelle scuse, in quella tisana mi si mostrò grande quanto una briciola di pane: così inconcepibilmente meraviglioso!
Quella sera, con il suono di quella voce che mi chiedeva scusa per il disturbo, scoprii che nella vita c'era un qualcosa che scintillava sempre, che brillava nell'opacità di tanta parte dell'esistenza. Quelle parole avevano riacceso vecchie impressioni che avevo già avuto e che s'erano assopite, stravolte da troppi altri suoni e rumori. Riconobbi quella notte, quella notte soltanto, che in ogni respiro c'era una corda che, dal collo, voleva issarmi verso l'alto, costringendomi ad allungarmi, a stiracchiarmi. Era così per tutti: tutti tirati su verso qualcosa e noi troppo spesso intenti ad accumulare zavorra per non staccare i piedi da questa terra, la nostra sicurezza. Quella sera, quando conobbi Dio e ne sentii la voce, quando sentii il suo profumo, compresi che c'era la possibilità, per noi, di lasciare andare un po' di quel peso. Scoprii che potevo abbandonare tanta fatica semplicemente permettendo a quella corda di tirare, di tirarmi verso l'alto.
Ora è il momento, ora devo ricordare di quello di cui ho scritto poco sopra: perché, dunque, la vita è una scelta incessante? Perché dobbiamo scegliere di lasciarsi issare in alto? Perché incessantemente dovremmo scegliere il "bene", una luce profumata che viene da dentro di noi, piuttosto che abbandonarci e rispondere una sola volta sì al "male", quell'abisso che non esiste se noi non proviamo a crearcelo da noi? Perché la vita sarà sempre sinonimo di mille scelte da fare? Perché qualcuno ha voluto questo? Perché ci ha amato, quel qualcuno, e lo ha fatto per dimostrare proprio a noi che eravamo, che siamo, creature fantastiche, capaci di scegliere il bene, di scegliere la vita e tutto ciò che non è solo e soltanto marciume, tristezza e infine morte. Perché ci ha amato e ci ha abbracciato, dicendoci ok, vai pure per la tua strada e cerca di vederti come io ti vedo, meraviglioso. Perché quando scopriamo chi siamo, quando ci vediamo scintillare, è allora che smettiamo di cercare dei pesi per tenerci ancorati quaggiù e iniziamo a salire, ad avvicinarci a quell'alto così pieno di luce e di profumo, di bellezza.
è giunta, alla fine, anche quell'ultima risposta, quella risposta che non è per nulla soddisfacente, perché ha bisogno di essere sempre ripetuta nel nostro animo, incessantemente, come un mantra che eternamente va accettato. Sentirsi dire che sta a noi scegliere di scegliere di vivere è forse la cosa più frustrante del mondo. è la fatica più difficile, certo, quella di dover ammettere di essere una meraviglia e non può essere altro se non il frutto di una vita. Non importa quanto lunga quella vita sarà, sarà la vita tutta a rendersene conto.
Io ho vissuto. Sì, una vita strana, una vita-non-vissuta lo ammetto, ma ho vissuto questa vita fino in fondo e ho scoperto questo: è l'insegnamento di un vecchio che forse non sa davvero nulla della vita. Ci sono grandi maestri di vita, ma altrove, in altri mondi, lontano dalla vita delle persone normali. Io sono ignorante davanti a loro, ma ho vissuto la mia vita-non-vissuta e questo ho imparato.

Io muoio qui, in una mattinata d'inverno. Muoio così, solo, abbracciato dalla mia dolce, dolcissima compagna. La nebbia mi cullerà fino alla fine e forse, morendo felice, lo vedrò. No, senza forse: lo vedrò.