giovedì 31 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - lettera a S.

a S.
"Se ora fugge, presto inseguirà
se non accetta doni, ne offrirà
se non ama, presto amerà

pur se non vuole"

maggio 2015
Vedi, ho appena finito un racconto lungo, una storia che non ha la presunzione di essere un romanzo e che ho avuto il piacere di dedicare a te: questo racconto è nato d'estate, in una di quelle settimane che ho passate in solitudine a lasciar correre i pensieri e a permettere a ciò che avevo dentro di schiarirsi. Inizialmente l'avevo progettato in una maniera diversa, ma poi, dopo un periodo in cui SKIN-TIGHT JEANS non è stato minimamente parte dei miei pensieri, la storia si è plasmata da sé in un altro modo, un modo che non avevo considerato e che mi ha fatto arrivare alla fatidica parola di quattro lettere: fine.
Ma questa lettera non vuole essere l'esposizione di come questo racconto è venuto alla luce, non m'interessa spiegarlo e non credo ti possa interessare - e poi non ricordo quasi niente di tutto ciò - piuttosto questa lettera vorrebbe darti alcuni consigli, oltre a quelli che ti ho già dati, consigli e pensieri che ho sentito la necessità di legare a questa storia semplicemente perché questa storia è un simbolo, il simbolo di quello che è l'amore di quegli omosessuali che ancora hanno dei 'problemi' con la loro sessualità perché non riescono a superare quel conflitto interiore che, sia esso causato da un qualcosa di religioso (non m'interessa discutere s'esiste o meno un'anima e se le religioni abbiano senso!) o da un impianto socio-culturale, è una condizione miserevole, tra le peggiori di cui l'uomo possa avere esperienza.
Ho iniziato questa storia con quattro versi di una poetessa che in molti amano per la sua straordinaria capacità, per la sua imperitura bellezza: Saffo. Credo tu sappia chi sia, anche solo per sentito dire. Lei è famosa per aver descritto in poesia i 'sintomi dell'amore' che ancora oggi gli scrittori e i registi ricordano quando creano una scena d'innamoramento. Ma di Saffo i versi che più mi colpirono furono proprio questi: c'è un che di profetico in queste parole che le rende immortali non solo perché frutto di una poesia meravigliosa, ma perché sono la maledizione incisa sul cuore di ciascuno di noi, dall'origine dei tempi fino alla fine dei secoli.
Saffo comprende che l'amore è una forza, ancora prima che tutti gli scienziati si disperassero a ricercare le forze nel mondo fisico lei aveva scoperto l'unica forza in grado di sconfiggere ogni forza. Sì, perché l'amore - e tu lo sai bene - è qualcosa di impossibile, qualcosa di stranamente illimitato e immensamente potente, è quel qualcosa che potremmo immaginare alla base dell'universo, e non perché sono cristiano e la penso così per catechismo, ma perché davvero la mia mente trova solo nell'amore tutta l'energia e il vigore per spiegare ciò che esiste.
Saffo sottolinea che l'amore 'colpisce' tutti, è inevitabile, non c'è nessuno che ne sia immune, non c'è modo di tenere lontano dalla propria esistenza tale esperienza.
Ma perché dico tutto questo?
Perché vorrei che tu trovassi anche in Saffo una testimonianza, un sostegno, quando ti diranno che l'amore omosessuale non è amore, che è solo amore carnale, che è solo piacere dei sensi, che sei malato, che sei sbagliato: rispondi pure che non è una scelta, l'amore, che tu non scegli di essere omosessuale, rispondi che tu sei omosessuale, che se potessi sceglieresti volentieri di non esserlo, se questo ti consentisse di vivere una condizione un po' meno spiacevole di quella in cui sei costretto a vivere per colpa di tutti quelli che ti stanno attorno e non hanno ancora capito nulla!
Rispondi così, te ne prego, sii pronto a non cedere anche tu, perché so bene che dentro al tuo cuore - il tuo, perché sei una persona che ha ancora quei famosi 'problemi' con la propria persona - nasceranno ancora, forse sempre quei dubbi che ti conducono alla disperazione, quelle perplessità che ti trascineranno in momenti di crisi profonda, in una crisi odiosissima e dannatamente dolorosa! Ti prego, sii pronto a rispondere sempre, e questi dubbi che ti sorgeranno nell'animo accoglili, affrontali e, infine, sconfiggili: parla con qualcuno, confidati, trova una forza, anche uno sfogo … apriti e abbatti questi dubbi, poiché se questi dubbi portano solo alla disperazione, allora significa che sono dubbi un po' marci e non importa se sia stato Dio a farli sorgere o una tua follia momentanea, importa solo che sono dubbi bacati, malati, sbagliati; loro, non tu!
Abbiamo già parlato a lungo di cosa sia l'omofobia: sicuramente non è una cosa piacevole per noi omosessuali, ma mi sono sempre chiesto che cosa significasse essere omofobo.
Non ho trovato nessun omofobo in grado di spiegarmi cosa ci fosse di male in me, semplicemente dicono che siamo sbagliati e amen. Ma anche se non lo sanno dire, anche se dicono solo infamie, assurdità e stupidaggini, tutto quello che dicono a me qualche volta penetra fino in fondo nel cuore, mi ferisce come una frusta e così l'omofobo è in grado di farmi pensare davvero di essere sbagliato, malato …
Non so davvero spiegare come, ma succede e mi sono sempre convinto che un possibile modo per superare tutto ciò sia l'amore, quell'amore di cui parla Saffo … ho sempre sognato che l'amore potesse davvero essere la risposta, proprio perché pare così potente in tutto, in ogni situazione. Ma davvero basta? Qualche volta mi ritrovo a non essere così ottimista, talvolta non riesco proprio a vedere nell'amore un motivo sufficiente per rimanere e continuare a combattere giorno dopo giorno. E allora mi viene in mente quest'altra terribile domanda che non trova davvero nessuna risposta: perché a volte l'amore non basta? perché a volte l'unica cosa che sembra essere la più potente e forte di tutte cede anch'essa e ci ritroviamo nuovamente persi, soli, abbandonati anche se qualcuno accanto ci sarebbe? Cosa c'è, dunque, di più forte dell'amore?
Sono domande tremende, soprattutto l'ultima, ma sono domande che a volte devo pormi, come se fossi necessitato a farlo. Sono domande che rivelano un'anima indecisa e confusa, non perché volubile e sfrenata, ma perché disperatamente smarrita, cui sono venute meno tutte le sicurezze, anche quelle che giudicava inviolabili, incorruttibili, eterne.
Perché a volte l'amore non basta?
Io sono alla ricerca di questa risposta da tempo e spero che qualcuno, un giorno, possa o smentirmi questa domanda o darmi una risposta certa, che mi sazi la coscienza e chiarisca ogni mio dubbio.
Ma capita a volte e giuro che pregherò - perché io in Dio voglio crederci - perché tu possa essere tra tutte quelle persone per cui l'amore basta, quelle persone che davvero sono salvate dall'amore, che davvero sono finalmente e totalmente felici nell'amore. Ti auguro questo, ti auguro la più grande gioia che possa capitare ad un uomo su questa Terra: trovare un amore che basti e che ti basti!
Questo è l'unico augurio che merita d'essere fatto, a chiunque, non solo a te; perché sta nel non trovare un simile amore la più grande maledizione che possa abbattersi su qualcuno.
Non mi dilungherò oltre: forse sono stato anche un po' confuso; perdonami.
Ti rinnovo ancora una volta il mio augurio e ricorda:
"… se non ama, presto amerà, pur non volendo …"
Buon vivere a te e buona fortuna.
Con affetto sincero
James
P.S.
Prova a immaginare cosa sia successo ad Alberto: io non so davvero cosa possa essergli accaduto, non vedo niente … se ti venisse in mente qualcosa, dimmelo, per favore: mi dispiacerebbe saperlo infelice.

martedì 29 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - settima parte

MARTEDÌ notte
La svegliarono i suoi genitori, agitati, scuotendola con la mano tremante: lei non aveva sentito il telefono squillare di là. Dietro di loro la luce dal corridoio era accecante. Non le avevano voluto dire nulla, l'avevano solo svegliata e le avevano detto che doveva vestirsi in fretta. Lei si era vestita senza fretta, mentre la madre stava lì, sulla porta, le mani giunte sul ventre e gli occhi fissi nel vuoto, un po' umidi, preoccupati e addolorati. Papà era andato di là e Adriana lo sentiva trafficare con qualche chiave.
Quando fu pronta sua madre l'accompagnò in salotto, non preoccupandosi di spegnere le luci né di controllare che tutte le finestre fossero chiuse. Insieme uscirono di casa, chiudendo la porta con solo una girata di chiave. Le mani di papà tremavano, i suoi occhi erano agitati e si muovevano qua e là senza tregua.
Più volte chiese cosa stesse succedendo, ma nessuno dei due rispondeva: l'una rimaneva incantata, assolutamente assente, l'altro si agitava parlottando qualcosa di incomprensibile, saltellando agitato come fosse un tarantolato.
In macchina papà guidava spostando il suo sguardo ansioso da uno specchietto all'altro, agitato come se si trovasse in un incrocio trafficato all'ora di punta.
Finalmente, davanti al parco, papà fermò la macchina e si voltò verso la figlia.
«Io non volevo portarti, ma lei ha insistito per vederti, diceva che solo tu potevi aiutarla, che solo tu avresti potuto capirla, che aveva bisogno di abbracciarti e di stringerti …» quasi piangeva mentre parlava. La sua voce pareva quella di un isterico, di uno schizofrenico.
«Beatrice ha bisogno di me? Cosa è successo?»
Ma la domanda stroncò ogni parola nella gola di suo padre. 'Beatrice ha bisogno di me?' Udire simili parole spense ogni forza nel corpo di quell'uomo e lo lasciò lì, ormai liberato dalla sua agitazione, invaso solo da un immenso dolore: «No … - disse facendosi un poco coraggio, fissando un punto inesistente ai piedi della figlia - non è Beatrice che ha chiesto di vederti, non devi aiutare lei …»
Ormai Adriana era completamente confusa: la preoccupazione pulsava dentro di lei e raggiungeva picchi elevatissimi; il cuore si agitava ansioso e sembrava desiderare di essere strappato dal petto; sudava freddo, inzuppando la tuta che si era messa addosso mezza addormentata.
«Che cosa succede!!» gridò Adriana, ormai impossessata dall'ansia.
«Adriana … Beatrice … Beatrice è morta! - disse con un filo di voce quel pover'uomo - I suoi l'hanno trovata in camera sua, allungata sul letto verso la lampadina»
Non un'emozione, non una lacrima, non un gridolino. Nulla.
Gli occhi di Adriana si persero nello sguardo del padre e smarrirono il loro colore, si spensero nel vuoto.
Balbettò: «C-c-com … come è successo?»
Ma il padre non ebbe la forza di rispondere, si voltò e riprese a guidare, riprendendo la strada verso la loro meta; mentre guidava le lacrime gli rigavano il viso, andandosi a perdere nella barba folta.
Quando giunsero a casa di Beatrice l'ambulanza era ormai ripartita da molto e sul luogo rimanevano solo i vicini, i curiosi e i carabinieri.
I genitori di Beatrice piangevano in un angolo del portone, sorretti da qualche vicino caritatevole: quando vide Adriana la madre di Beatrice le corse incontro e la strinse a sé, piangendole nei capelli, urlando il nome di quell'angelo che quella sera si era involato verso un mondo più sereno.
Adriana dal canto suo ancora non piangeva, quasi in catalessi osservava tutto quello che le accadeva attorno e, quando la donna l'aveva abbracciata stretta stretta, lei era rimasta immobile, senza muovere nemmeno un dito, lo sguardo perso.
«Lei t'amava davvero! - urlava la misera - Lei t'amava!! BEATRICE! AMORE MIO!!! Perché? Perché a lei? Perché lo ha fatto? Perché? PERCHÉ?»
Il cuore di Adriana, bloccato per la disperazione, recepì quelle parole di dolore e ad un tratto si accorse di ciò che significavano: Beatrice si era uccisa! Il suo amore, la ragazza che aveva visto così tante volte sorridere per certe idiozie così sceme ora era morta, si era tolta la vita; quella ragazza che diceva di sentirsi davvero felice con lei, di sentirsi finalmente se stessa quando erano insieme, era morta, andata via per sempre dalla sua vita!
Il dolore fu qualcosa di straordinario, qualcosa di quasi meraviglioso: in un cuore che si era fermato alla notizia della morte della persona amata, tutto ad un tratto, tutto si rimise in moto: una fiamma ardente straziante iniziò a bruciare e divorare con il proprio fuoco; le lacrime finalmente scesero copiose e il dolore si manifestò con alte grida e lacrime terribili!
Adriana crollò a terra e il suo corpo scivolò tra le braccia della madre di Beatrice.
Rivoltandosi sull'asfalto la ragazzina gridava e piangeva, stringendosi il viso con le mani, graffiandoselo con le unghie, stringendo i denti in una morsa dolorosa, che tentava di impedire alla disperazione di uscire.
Passò molto tempo.
Quella notte non dormì nessuno e non ci fu spazio per le parole.
Quando la mattina Adriana fu portata di nuovo a casa le lacrime continuavano a sgorgare come da una fonte inesauribile, una fonte nascosta non dietro gli occhi, ma giù, nel cuore, celata nei sentimenti più intimi e privati della sua persona. Questo pianto non era attraversato da singhiozzi e scossoni, ma scendeva come un ruscello, rigandole il viso e scivolando lungo il corpo.
Sua madre le sedette vicino sul letto dove l'avevano adagiata. Almeno nella mamma sembrava tornata un po' di vita: osservava la figlia dispiaciuta ma non più inebetita, non aveva più gli occhi sbarrati, ma dolci occhi materni che si dispiacciono e per la sofferenza di ciò che hanno di più caro.
«Amore mio - disse a bassa voce, sfiorando la fronte della figlia con la mano - c'è qualcosa che mi hanno dato i carabinieri: è solo una copia questa, ma a quanto pare in cucina c'era un foglio su cui ha lasciato scritto qualcosa … c'è scritto qualcosa anche per te … vuoi che te lo legga?»
La figlia cui si rivolgeva non l'aveva mai vista: una creatura sofferente che stava sdraiata senza un cenno, senza un minimo movimento …
«No! Lascialo sul comodino ed esci»
Non c'era rabbia nella sua voce, ma nemmeno dolore, nemmeno tristezza: la sua voce aveva perso ogni colore, ogni forza, ogni slancio.
La madre obbedì e lasciò la stanza, non chiudendo la porta dietro di sé, indugiando qualche secondo sull'uscio a osservare quel corpo immobile.
Adriana chiuse gli occhi e ritrovò il volto di Beatrice, riuscì a richiamarlo a sé con il suo amore: sentì nel naso il profumo dei suoi capelli biondi, percepì tra le sue dita le mani di quella creatura meravigliosa, poté riammirare quegli occhi così grandi e luminosi, timidi ma felici. La guardava con quell'aria innocente e fanciullesca che aveva sempre prima di avvicinarsi e baciarla, con quel sorrisetto un po' birba che le faceva venire le fossette sulle guance.
Quando quest'immagine le fu chiara davanti agli occhi, Adriana gridò. Un grido lungo, alto e sofferente che riempì la casa e fece accorrere i suoi. Entrambi la tennero stretta, mentre Adriana ricominciava a urlare e disperarsi,a piangere l'amore perduto, l'amica ormai morta.
Ci volle del tempo perché si calmasse di nuovo, ma finalmente, stremata da tutto quel dolore, Adriana s'addormentò e dormì un sonno senza sogni.
Quando si svegliò era notte e di là i suoi si tormentavano per la figlia. Accese la luce del comodino e ritrovò il foglio che vi aveva lasciato sua madre.
La fotocopia era scura, ma si leggeva bene la grafia: quella r riccioluta l'aveva incontrata già tante volte in biglietti di auguri e fogliettini carini, in dediche scritte su quel cd o su qualche busta contenente una frase romantica o una lettera d'amore.
Le lacrime avrebbero voluto trionfare ancora ma il sonno aveva concesso ad Adriana di resistere e leggere.

"Fate avere questo foglio anche ad Adriana, per favore: non c'è persona che m'abbia più aiutato, che m'abbia più amato! Grazie Adriana, perché senza di te non avrei mai capito chi sono, perché con te ho scoperto che cosa significa stare bene, perché sei stata la persona che mi ha abbracciato sempre quando ne avevo bisogno. Grazie … non pensare che la colpa di quello che sto per fare sia tua: non hai colpa, amor mio, non ne hai e non te ne devi imputare … sei stata meravigliosa ma il mio cuore non riesce a sopportare. Tu hai dato forza a questo mio cuore, una forza che mi ha fatto superare tante e tante cose, ma oggi nemmeno la forza che viene da te riesce a farmi andare avanti, oggi la forza che avevo trovato è venuta meno e … e nulla. Ti amo, Adriana, e, qualsiasi cosa sarà, io sarò con te, vicino a te, in ogni tuo nuovo amore, in ogni tuo nuovo giorno: vivi per me, abbi la forza che non ho avuto io e aiuta un'atra come hai aiutato me! Sei la persona più meravigliosa che esista e t'amo, ti amo, ti amo, TI AMO! Dicono che siamo solo ragazzine e che non possiamo sapere cosa sia l'amore, ma quello che provo io lo riesco a definire solo così, con queste parole: TI AMO!"

venerdì 25 marzo 2016

VENERDì

3 aprile 2015
Oggi non c'è spazio per i colori e le parole, non c'è posto per i canti della grandezza di Dio, ormai tutto è finito e bisogna che tutti se ne vadano via dalla chiesa in silenzio e col capo chino: non possiamo dire 'Domani tanto resuscita, sappiamo già che non è morte definitiva la sua!'.
Oggi Lui muore, oggi l'Altissimo, il Re dell'universo, il Creatore del Cielo e della Terra, che s'è fatto uomo per salvarci e redimerci dalla colpa, oggi proprio Lui muore.
E se un mistero immenso è la Sua incarnazione, se un mistero profondissimo è la Santissima Trinità, quello che accade oggi è forse un mistero ancora più assurdo … sì, è assurdo! Come è possibile? Ieri il Signore si è inginocchiato e s'è cinto di un asciugamano, oggi addirittura viene ucciso, innalzato sull'alta croce, stanco e sanguinante, torturato dalla crudeltà ignorante della sua gente … che Dio è questo?
S'è fatto uomo, ha camminato povero tra i poveri ed ora muore …
E chi lo ha innalzato su quel legno maledetto? Chi ha dato quell'ordine folle? Chi ha acclamato un ladro pur di non concedere a quell'uomo buono e docile la libertà?
Oggi la riflessione lascia spazio allo sconforto: sembra che anche il Creatore sia impotente dinnanzi alla grandiosa malignità degli uomini, quasi che tutto l'universo sia nulla dinnanzi alla prepotenza dell'uomo.
Non rimane nulla, finisce tutto, come una festa che ormai s'è spenta, che non ha più da far ridere e divertire nessuno: "È compiuto!" e, chinato il capo, consegnò lo spirito. Chi rimane? Nessuno: la gente che ha assistito allo spettacolo di questi uomini crocifissi è tornata a casa, si è avviata alla vita normale; si ritorna alla monotonia delle strade tutte uguali, alle grida dei mercati e alla sete che prende la gola nelle giornate caldissime e secche. E ormai non c'è più nulla.
Con che coraggio posso ora ricordare le parole ch'hai dette ieri? Ieri avevi detto già tutto, ora lo comprendo, ora capisco perché quelle parole così strane ... oggi è morte: ti sei fatto uomo ed ora sei solo un uomo.

Davanti a questa croce non c'è granché: polvere e pochi sassolini. Cose grandi e belle, il profumo e la luce qui non ci sono più. La speranza? Dimenticata, smarrita in un angoletto sperduto nella notte. Tutto, tutto è scomparso, tutto e tutti. Non rimane che il silenzio che ora lascio calare quaggiù. Nemmeno un sospiro romperà questo silenzio: dopo quest'ultimo tuo respiro noi non oseremo vivere, nemmeno dinnanzi a te. Ce ne andiamo, ti abbandoniamo perché queste cose ci sovrastano: la vergogna, la paura, la delusione, il nulla ... non abbiamo le forze nemmeno per rimanere davanti alla tua croce. 

giovedì 24 marzo 2016

GIOVEDì

2 aprile 2015
È il giorno dell'istituzione di quell'attimo straordinario che per tutto l'anno rievochiamo per sostenerci, il giorno della nascita della nostra Chiesa, il giorno che è l'ultimo istante almeno apparentemente sereno prima di un precipitare di eventi drammatici, il giorno che ci restituisce la grandezza della divinità, quando, dopo un lungo periodo di silenzio, ci concediamo quel "Gloria nell'alto dei cieli, pace in terra agli uomini che Egli ama!"; è il Giovedì Santo, l'inizio di quell'ultimo cammino, un cammino che s'affretta alla salvezza.
È Giovedì. Ormai la settimana si avvia alla fine, presto assaporeremo il piacere dell'attesa del finesettimana, non manca molto a che noi riusciamo a riposarci, a godere un po' di tranquillità. Ed è proprio in questo particolare momento, in mezzo alla frenesia della nostra vita, che tutto si ferma, tutto si sospende, come un vento che fino a poco fa soffiava vivace, e che ora tace, lasciando immobili le foglie sui rami: si alza da tavola, depone le sue vesti, prende un asciugamano e se lo cinge attorno alla vita. Ecco, tutto è immobile: la cena non può proseguire, la settimana, per noi, deve arrestarsi. "Capite quello che ho fatto per voi?" No. Non capiamo. Sappiamo solo che non possiamo andare avanti, perché adesso ci hai sconvolto, ci metti in difficoltà, ci impedisci di continuare come abbiamo fino ad ora: i tuoi, quando tu facesti queste cose, rimasero sbigottiti, Simon Pietro esterrefatto, scandalizzato; e noi uguale: la settimana ora deve bloccarsi, il tempo scorra pure ma noi … noi non possiamo scorrere con lui.
Rimango qui ad osservarti, rimango immobile a scrutarti: quante domande, quanti dubbi, quanti interrogativi, quante perplessità, quante preghiere, quante lamentele, quante cose … e tu? Tu cosa fai? Ti alzi da tavola e deponi le tue vesti, prendi un asciugamano e te lo cingi attorno alla vita.
Ecco l'istituzione della Chiesa, a fianco all'istituzione dell'Eucarestia.
Quando qualcuno chiede 'Perché per tre giorni? Che senso ha iniziare il giovedì e finire il sabato notte, in attesa della domenica?', è difficile rispondere. Ma una risposta la possiamo trovare, è lì, proprio lì, da dove abbiamo letto queste parole: "Capite quello che ho fatto per voi?"
Abbiamo di tre giorni, solo perché ogni volta bisogna avere il tempo di accogliere ciò che succedendo, di comprendere quello che sta succedendo, almeno provarci: è qualcosa di straordinario, quello che sta accadendo, qualcosa che - e nessuno può negarlo - cambierà per sempre la storia.
Il Dio che già aveva portato scandalo facendosi uomo, accettando di rinchiudersi in un corpo di carne e fatica, l'unico Dio ch'era impazzito d'amore per una creatura che pareva ignorarlo, a tal punto da decidere di scendere in Terra, ecco che ora è pronto per dare scandalo l'ultima volta: Dio muore.
Il sacrificio che si verificherà domani nella carne e nel sangue di Gesù, nel Giovedì è anticipato, è annunciato, quasi che gli avvenimenti del Venerdì fossero solo una conseguenza ovvia degli atti di quest'oggi: Gesù si china ai piedi dell'umanità, si fa servo dei servi, e come quella donna gli aveva profumato i piedi, devota, così Lui, l'Altissimo, si inginocchia e si fa piccolo dinanzi ai calcagni di gente che presto sarà solo un mucchio di codardi; domani non si chinerà, anzi domani sarà innalzato da terra, ma anche allora sarà l'ultimo degli ultimi, morto per un branco di peccatori che gode dei propri peccati.
Davvero oggi è un giorno particolare, davvero è solo apparentemente un giorno sereno, un giorno allietato dalle alte note del Gloria: oggi inizia a scendere quel velo di morte, quella coltre di tenebra che farà 'buio su tutta la Terra'.
Ma come affrontare la domanda di nostro Signore?
"Capite quello che ho fatto per voi?"
Ogni volta che questa domanda si affaccia al mio udito, sfiora i miei orecchi, sempre il mio cranio rimbomba vuoto, invaso solo dall'infinità eco di queste parole. Perché non capisco, non comprendo cosa tu abbia fatto: ti sei chinato dinnanzi a me, e io, oggettivamente, chi sono? Sono un peccatore, un lurido mentitore, un perverso, un pervertito, una creatura deviata! E allora perché ti chini?? "Tu lavi i piedi a me?" Ma assolutamente no! Tu sei il Maestro, sei il Signore, l'Unto: perché mi lavi i piedi?
Ma poi smetto di ragionare con la mia mente, riconosco che il mio intelletto, per quanto capace di meravigliose creazioni, non è il tuo Intelletto: in quella risposta che dà Gesù a Pietro ("Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo") io ci vedo sempre un sorriso, un bel sorriso affettuoso sul volto di Cristo; mi immagino Pietro spaventato, oltre che strabiliato, e vedo Gesù che sorride affettuoso, lo guarda con quegli occhi che vogliono calmare, tranquillizzare, abbracciare. E quando vedo questo, ho finalmente smesso di ragionare: ascolto ora non la mia mente umana, legata, o meglio, incatenata a logiche terrene, ascolto ora il mio cuore, che non comprende completamente, ma che almeno si avvicina a te, si accosta al tuo viso, accetta senza fare domande.

Aspettiamo domani. Domani anche questo velo fittizio di serenità, quest'ultima immagine pacifica di una cena tra amici sarà svanita: ci sarà l'oscurità di un giardino, il crepitio delle torce … ci saranno madri distrutte, prosciugate delle lacrime … oggi è ancora giovedì, oggi, siamo Chiesa e proviamo a pensare a questo e basta: per il dolore ci sarà posto domani; per oggi, preghiamo e serviamo.

martedì 22 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - sesta parte

MARTEDÌ sera
Perché si sentiva così? Cosa c'era nelle parole di Alberto che l'aveva così tanto turbata? Come c'era riuscito quel deficiente a farla sentire così … così … così! Non aveva detto nulla di sensato in realtà, sapeva che di quello che quell'idiota aveva detto non c'era nulla che potesse essere considerato seriamente. Eppure il suo cuore le doleva, dentro di sé sentiva una sofferenza nuova, una nuova angoscia. Passavano i minuti e questo dolore s'accresceva, senza bisogno di motivi esso s'ingrandiva dentro di lei e sempre di più le pesava, le pesava come una grande, enorme e pesantissima pietra posta sul petto: le sue costole pulsavano come se il corpo le si stesse gonfiando oltre misura e premesse contro la gabbia toracica; il respiro le era una fatica insopportabile e ogni volta che inspirava sentiva come una lama scendere fin nello stomaco, incidere a poco a poco le sue viscere.
Nelle parole di Alberto non c'era verità, ma il suo cuore sanguinava comunque, trafitto da quei pensieri così assurdi, e ora Beatrice se ne stava lì, seduta sul pavimento della cucina, le luci di casa spente, in silenzio, nella penombra della sera vicina.
Piangeva la povera ragazza, piangeva senza ragione apparente, solo perché le lacrime pretendevano di uscire, la obbligavano a sciogliersi in un pianto strozzato e faticoso, logorante. I singhiozzi riempivano la casa deserta e rimbombavano dalla cucina fino nelle camere da letto.
Come la casa era buia, attraversata qua e là da qualche raggio dei lampioni della strada che riuscivano ad arrampicarsi fino a quell'appartamento , così era buia la mente di Beatrice, persa a ricordare le assurde parole che le erano state rivolte: gli occhi, cattivi, di Alberto le erano davanti non appena chiudeva i suoi e riscopriva quell'espressione feroce e schifata, quell'orrore e quella rabbia che dominavano sul volto del suo coetaneo.
Piangeva e si disperava, accovacciata contro il mobile, si stringeva le ginocchia al petto e con una mano ogni tanto si asciugava il volto zuppo, trascinandola poi a scostare i capelli che le cadevano sugli occhi. Ogni lacrima bruciava salata sulle guance e scivolava lungo il collo perdendosi nella maglietta leggera. Faceva freddo in casa, ma il suo corpo era bollente, scosso dai singhiozzi, agitato da quel pianto eterno che continuava e continuava, ininterrotto.
Davanti ai suoi piedi, calzati in un paio di calde calze turchesi, vibrava il telefono; lo schermo s'illuminava e apparivano i riquadri luminosi mentre tutto il pavimento tremava. Beatrice non lo guardava, non aveva le forze per prendere il telefono e scorrere i mille messaggi non letti, lei piangeva e basta, lasciava che il suo corpo si agitasse contro il pavimento, attraversata com'era dai singulti che non riusciva a spiegare.
Venivano i momenti in cui tentava di controllarsi, di trattenere le lacrime e provare a riflettere, a comprendere perché mai stesse piangendo, ma le lacrime erano più forti, erano troppo violente per lei e allora di nuovo i suoi occhi si serravano nel pianto, le sue spalle si stringevano nei singhiozzi.
Davvero quelle parole erano così importanti per il suo cuore? Davvero quelle parole, che la mente sapeva venire dalla bocca e dalla mente di uno stupido idiota, riuscivano ancora a ferire così gravemente quel giovane cuore? Davvero lei era sconvolta solo per le parole di Alberto? Che credesse anche lei a quelle parole?
Le lacrime col tempo finirono. Non finì la voglia di piangere, la disperazione nel cuore non si estinse, ma ad un certo punto dagli occhi non scesero più quelle gocce così salate e crudeli.
Allora Beatrice si ritrovò ancora scossa dai singhiozzi, ancora sola in cucina, con il volto rosso e dolorante, attraversato da mille rivoli. Da qualche tempo il telefono aveva smesso di scuotersi sul pavimento.
Radunò tutte le sue forze, quelle poche che le erano rimaste e s'incamminò verso il bagno, qui accese la luce e aprì l'acqua fredda. Con le mani giunte si lavò la faccia pesta, lavò via quella sensazione di sale, quell'appiccicaticcio che rimane dopo un pianto: l'acqua giungeva sulle sue guance come manna, rinfrescava come rugiada e sembrava, per qualche attimo, cancellare per sempre tutte quelle lacrime dalla memoria, affogandole nel lavandino e trascinandole nelle tubature e nelle fogne. Ma anche quest'impressione durava poco e subito dopo che si fu lavata si riscoprì fresca in volto, ma straziata: nello specchio vedeva le sue guance rosse, i suoi occhi esageratamente gonfi, rossi anch'essi, tremolanti e lucidi. Lungo il collo qualche capello le si era appiccicato con l'acqua e formava uno strano disegno, quasi una cicatrice tutta rovinata, tutta accartocciata sulla pelle.
Restò a lungo a osservare quel viso che non le apparteneva, quell'estranea che non si sa da dove era uscita per rovinarla: era lei che aveva pianto, era lei, quella dello specchio, che avevano colpito quelle parole di Alberto. Ma anche Beatrice si sentiva diversa da qualche ora prima. Se non si sentiva davvero lei ad aver pianto, sentiva tuttavia che il suo cuore le si era come fermato, batteva solo perché il sangue non si fermasse nelle vene, non batteva più per vivere.
Chiuse il rubinetto e spense la luce, diligentemente, come le era stato insegnato nel rispetto della natura, perché non si sprecasse nessuna delle risorse disponibili: non vi pensava nemmeno più, erano diventati gesti incontrollati e inconsci.
Raggiunse di nuovo la cucina e, accesa la luce sopra il tavolo, strappò un pezzo di carta dal bloc-notes del cassetto; prese una penna e scrisse poche parole, parole di una ragazza comune, che non ha più nulla da dire, che forse non è capace di dire più nulla.
Non ci mise molto. Quando finì la notte era definitivamente arrivata e anche in strada la gente diminuiva, sempre meno macchine correvano verso casa e a poco a poco il silenzio diventava il signore di quella nuova parte del giorno.
Finito il suo lavoro, prese la penna e la ripose esattamente dove l'aveva trovata, uscì dalla cucina e spense la luce.
Cosa pensava non lo sapeva, non poteva saperlo per il semplice fatto che non pensava: nella sua mente si rincorrevano immagini a caso, ognuna seguiva all'altra senza un nesso logico, ognuna riproponeva un momento, un attimo del passato più recente.
Mentre camminava verso camera sua le si presentò davanti il volto di Adriana, sorridente come sempre, felice, con quegli occhi luminosi e allegri; le sue guance erano rosse per il freddo che aveva preso per strada e il vento le aveva anche rotto un po' il labbro inferiore.
Arrivata a metà del corridoio la sua mente le ricordò di quando aveva lasciato casa sua qualche giorno prima: era tutta felice perché non avrebbe avuto nulla da fare a scuola visto che c'era assemblea.
Davanti a camera sua svanì anche quest'immagine e il suo cervello le offrì il volto di Alberto: rivide l'Alberto che aveva osservato nell'aula magna, mentre parlava per la presentazione dei candidati; sorrideva con quel suo sorriso ammaliatore - vomitevole! - e parlava con quel suo fare da grande, da persona responsabile e capace.
Tutto questo non le muoveva nulla dentro, la lasciava impassibile e indifferente: aveva gli occhi sbarrati mentre si muoveva nell'oscurità della casa.
Svoltò in camera sua e accese la luce a basso consumo che le avevano messo sul letto, quella che faceva tanta luce solo dopo tanto tempo, che all'inizio, per quanto illumina male,  sembra quasi una luce spenta nell'altra spenta: inutile!
Attese in piedi sulla soglia che la lampadina lavorasse, che la luce si facesse luminosa; a poco a poco una parte nuova della camera veniva illuminata e a poco a poco Beatrice contemplava tutte le sue cose, tutte quelle sciocchezze che aveva radunato: quel pupazzetto lo aveva comprato solo perché era buffo, per un capriccio.
Quando finalmente tutto fu ricordato Beatrice si mosse nella stanza, chiudendosi dietro la porta.
In quella stanza si era tante volte rifugiata dopo una delle tante liti con suo padre, ci si era chiusa dentro con Adriana tante altre; aveva pianto là dentro, aveva urlato, aveva riso, aveva scoperto l'amore, aveva ascoltato musica, si era scatenata con il volume al massimo, si era depressa ascoltando canzoni tristi; là dentro aveva fatto finta di studiare tutte le volte che sua madre era in casa perché quel giorno non lavorava, aveva dormito quasi tutte le notti da quando era in vita! Camera sua era forse il luogo che le era più caro tra tutti quelli che aveva veduto: con la porta aperta odiava quella casa che doveva condividere con quell'uomo sciocco e ignorante e quella donna che si faceva tanto dolce, ma che non tentava nemmeno di comprenderla; con la porta chiusa, invece, quel luogo le era più caro che il suo stesso corpo: lì dimoravano i suoi ricordi, lì erano raccolti i suoi pochi, miseri averi.
Ma non pensava a questo Beatrice, non si abbandonava a sentimentalismi sciocchi e melensi: i suoi occhi, ancora lucidi, scrutavano lontano, dietro ogni angolo, come alla ricerca di qualcosa di nascosto.
Si muoveva senza ansia, con tranquillità, ma il suo animo non era in pace: quella tranquillità, quella pacatezza non erano sintomi di serenità, ma smascheravano un cuore ormai abbattuto, sconfitto, svuotato.
Finalmente ritrovò ciò che cercava: una piccola busta di carta, una busta da lettere tutta spiegazzata, ripiegata quattro o cinque volte e nascosta dietro un libro di quand'era bambina.
Sedette sul suo letto, il suo comodo e caldo letto, stringendo in mano quel pezzo di carta. Pian piano la sua mente si faceva leggera e dimenticava tutto quello che aveva sentito, tutto quello che aveva pensato; i ricordi iniziarono a scomparire nell'oblio e ogni cosa scivolava verso il nulla. Come una soffitta troppo piena di cianfrusaglie alla fine crolla sulle belle stanze da letto che stanno sotto, così la sua memoria collassava su se stessa, inghiottendo sé stessa in un vortice che annullava tutti i colori, tutti i profumi, tutte le sensazioni.
In quel buco scomparivano anche gli ultimi giorni, la voce di Alberto si affievoliva sommersa dal nulla, il viso amorevole di Adriana affogava in quell'immensità di vuoto.
La lampadina ora era davvero accesa, illuminava con la sua luce ecologica la stanza di una bambina, di una bambina che purtroppo era cresciuta e aveva conosciuto un mondo strano che le aveva graffiato il cuore: quel cuore, graffiato, aveva incominciato a perdere la sua linfa dalla ferita e a poco a poco si era svuotato.
Prima che tutto il suo cuore fosse svuotato del tutto, Beatrice si allungò sul letto e raggiunse il comodino: spense la luce.
Fu nel buio che riaccorsero i pensieri, tornarono tutte le emozioni, tutte insieme, tutte violentemente tentarono di ripresentarsi nel cuore di Beatrice, ma ormai il freddo la avvolgeva e a poco a poco il freddo la anestetizzò, le anestetizzò anche questi pensieri ritornati, anche queste emozione ritrovate. Non dovette nemmeno sforzarsi di non pensare.

… perché non è normale.

martedì 15 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - quinta parte

MARTEDÌ pomeriggio - 2
Il cielo andava a poco a poco  liberandosi dalle nuvole che si erano svuotate sulla città. Il vento soffiava in alto e smuoveva delicatamente le chiome spoglie degli alberi. L'odore della pioggia era penetrante, un odore di vita, di fradiciume e marcio: ogni respiro è come ingoiare un pezzo di corteccia zuppo e muffito. Dai rami gocciolava l'acqua che il legno non riusciva più ad assorbire e ogni goccia cadeva precisa sopra a una sua sorella, accrescendo via via una pozzanghera ai piedi di un castagno. Alla luce di un sole che, lontano, spuntava tra il profilo delle montagne e il compatto ammasso di nuvole, sbirciando come una pupilla tra le palpebre, i ciottoli luccicavano umidicci e qua e là una vecchietta si muoveva cautamente per evitare qualche scivolone imbarazzante ed estremamente doloroso.
Non aveva preso l'ombrello - non avrebbe di certo ricominciato a piovere - e ad ogni passo Alberto si perdeva in quell'aria profumata, mentre tutt'attorno ci si affrettava a casa. Giunto al parco, dov'era 'l'appuntamento', fu seccato del fatto che non si sarebbe potuto sedere sulle panchine bagnate, e iniziò a camminare avanti e indietro, piano, compiendo tre passi verso il viale che portava al Memoriale, e poi voltandosi, ripercorrendo quei tre passi verso il centro.
Una signora passava con il cane, una bella bestia dal pelo lungo e folto, felice di quell'aria fresca e bagnata, entusiasta di poter puciare le proprie zampe nella terra morbida. Ogni odore era stato ripulito dalla pioggia, e finalmente la penetrante e fastidiosa puzza della città era stata soffocata dalle gocce incessanti. Anche gli uomini percepivano l'aria rinnovata, riscoprivano il profumo della natura.
Ma Alberto non pensava al profumo che lo circondava, non riusciva a godere di quel sole che sbirciava da laggiù, a malapena visibile tra le cime brune e le nubi ancor più scure … il suo era un camminare inquieto e agitato, un'ansia crescente … "Ma che cazzo è? Come se fossi ansioso perché devo parlare con quella là! Ma poi: perché le ho detto sì? Potevo benissimo evitare e farmi i cazzacci miei, tanto non è che cambio idea, e lei rimane così comunque … uff, non ho portato nemmeno l'ombrello … beh ma non pioverà ancora … beh ma io non portato l'ombrello comunque, anche se non pioverà! Ma poi cos'è che mi deve dire che non mi potesse dire via messaggio: non è che se vedo la sua faccia cambio idea … che poi non è una mia idea e basta! Cioè … ! Non è che io voglio male a loro, però non è giusto, cioè sono malati, se si curassero … e no, dicono che non è una malattia, che sono proprio così, ma mi sta anche bene, ma non possono pretendere più di tanto: io penso sia sbagliato! Va contro tutto quello che penso sia vero …"
Si auto-convinceva il povero Alberto con quelle parole, cercava sempre di più di ripetersi che lui non era un omofobo, che lui non era razzista, che semplicemente non comprendeva questa cosa, non l'ammetteva. E, in effetti, per quale motivo avrebbe dovuto essere criticato o insultato per questa sua idea? In fondo era giusto, lui diceva quello che pensava. Ma quel qualcosa che lo obbligava a continuare a tormentarsi per cercare d'illudersi d'aver ragione era in realtà la crepa nel suo stesso ragionamento, quasi come se il suo cuore non si fosse ancora rassegnato a quello che la sua mente, il suo cervello gli avevano già dato per scontato: dentro di lui, in fondo, un logorio era iniziato, ed era iniziato quando per la prima volta aveva dovuto discuterne con Beatrice, poche ore prima; un logorio lento ma costante che continuava a muoversi laggiù, disturbando le emozioni, reclamando spazio nella sua intimità. Un dubbio. Il dubbio che tutto ciò in cui diceva di credere fosse in realtà un'immensa baggianata che gli veniva dall'abitudine, dalla consuetudine. Un dubbio, un misero, minuscolo, impercettibile dubbio.
Ma di questo dubbio Alberto non aveva coscienza e perseverava nel suo ripetersi di essere manifestamente nella ragione, di essere assolutamente nel giusto.
Ormai l'ora dell'appuntamento era arrivata: qualcuno scappava dal centro e correva a prendere gli autobus, qualcuno aspettava sul limitare del parco la macchina di qualche amico che s'era offerto di dare un passaggio 'visto ch'era in macchina!'
Eccola là. Svoltava proprio adesso l'angolo. Era avvolta in una strana giacca, né leggera né pesante. Era una bella ragazza, vista da lontano: non si truccava molto, forse avrebbe potuto curarsi un po' di più, ma non era per niente una brutta ragazza. Peccato che fosse sbagliata.
Aveva insistito tanto per vederlo di persona, perché non poteva capacitarsi del fatto che davvero quel ragazzo, così tanto sveglio in così tante cose, fosse così ottuso: lo odiava. Non poteva lasciar perdere tutto e permettere che tra loro ci fossero solo miriadi di insulti sulle bacheche di Facebook, doveva vederlo in faccia, voleva avere davanti quell'idiota e capire come potesse essere serio …
Era uscita di casa con un po' di eccitazione, anche: c'era un che di emozionante in quello che stava per succedere; dentro di lei sentiva che quel cretino aveva smosso in lei qualcosa, che - purtroppo - quel ragazzo ebete sarebbe stato una figura importante, avrebbe significato qualcosa di non indifferente.
Aveva smesso di piovere e si poteva permettere di azzardarsi fuori senza ombrello. Un presentimento le diceva che non avrebbe ripreso a piovere: si vedeva addirittura il sole che sfilava oltre le nuvole verso le cime delle montagne. Non avrebbe ripreso a piovere!
Per strada s'era interrogata a lungo su cosa, delle mille che aveva da dirgli in faccia, avrebbe deciso di dire per prima ad Alberto. Non sapeva davvero come fare. Già era rimasta stupita del fatto che Alberto avesse accettato di vederla - forse nella sua 'indole caritatevole' sperava di 'guarirla' dalla sua miserrima malattia! - ma ancora più stupita era rimasta per il fatto di avergli chiesto di vedersi: come se non vedesse l'ora di trovarsi faccia a faccia con un imbecille che la trattava in una maniera spregevole e atroce! Ma, ad un certo punto aveva sentito la necessità fisiologica di incontrarlo; da dentro qualcosa aveva gridato che non potevano continuare a scambiarsi confusi insulti e ovvi pareri via chat, ma che dovevano assolutamente vomitarsi tutto uno in faccia all'altro, di persona. Dovevano vedersi negli occhi, lei doveva vedere quel ragazzo che tutti ritenevano intelligente, che tutti stimavano, cui tutti si rivolgevano con semplicità e che tutti pensavano essere uno dei migliori! Quel ragazzo che l'aveva fatta sentire come mai nessuno c'era riuscito … lui era andato oltre: aveva ricevuto tanti insulti e spesso aveva ignorato le risatine e le occhiate maliziose - odiosissime a chiunque, per qualsiasi motivo siano fatte! -, ma ciò che pensava Alberto era pensato con troppa semplicità, con una tale genuinità che lei ne rimaneva sconvolta. Alberto era perfettamente sereno, sembrava assolutamente in pace con sé stesso: non uno dei soliti arrabbiati che si accaniscono a gratis, ma uno che, sì, insulta anche con parole non troppo gentili, ma anche è in grado di lanciare le proprie convinzioni con una compiutezza disarmante, quasi con la semplicità di un bambino.
Man mano che s'avvicinava al parco cittadino s'accorgeva di aver paura, di desiderare di aver vicino Adriana in quel momento: lei avrebbe saputo cosa dire, lei avrebbe avuto le parole giuste e avrebbe risposto a dovere … se fosse stato necessario avrebbe anche avuto una mano abbastanza veloce per tirare una sberla a quel cretino! Ma, mentre raggiungeva l'ultima piazza prima del parco, prima di svoltare l'angolo che dava sul viale alberato, Beatrice aveva compreso che doveva farlo da sola, che non poteva correre a nascondersi al fianco della sua 'principa azzurra' - come spesso la chiamava scherzosamente -, che doveva riuscirci lei da sola ad affrontare quell'ennesimo ostacolo, che non poteva permettersi di darla vinta a lui, che non poteva retrocedere ora, ora che lo vedeva davanti a quella panchina mezza marcia.
Mentre Beatrice s'avvicinava al suo nemico, armata meglio possibile di risolutezza e di un nuovo coraggio che non aveva immaginato di avere, Alberto la guardava … s'avvicinavano due mondi, s'avvicinavano due giovani vite che, o per un motivo o per un altro, condividevano quel momento e tutto ciò che ne sarebbe derivato avrebbe davvero avuto una qualche importanza. Entrambi lo sapevano, tutti e due sentivano, dentro, che in quell'incontro faccia a faccia sarebbe successo qualcosa … tutti e due erano agitati, tutti e due erano insieme frementi e impauriti per quello che incombeva: Alberto non voleva parlarle, non voleva averla vicino, non voleva nemmeno dover parlare per l'ennesima volta di quell'assurdità, tuttavia non poteva scappare, un po' per non sembrare un codardo e dargliela vinta, un po' perché in fondo era proprio curioso di sentire che cosa gli avrebbe detto quella là; Beatrice avrebbe voluto scappare, dimenticare quell'ennesimo demente - quanti ne aveva già incontrati, purtroppo! - e passare da Adriana, passare qualche tempo con lei, sedute in salotto a coccolarsi, però dentro di lei qualcosa la costringeva a muoversi verso quel pirla che ciondolava vicino ad una panchina marcia di pioggia.
"Eccola qui …" sospirò, rassegnato, Alberto prima di iniziare a combattere: «Allora? Che vuoi» attaccò con un fare aggressivo e odioso: ostentava la sua rabbia e il suo schifo, quasi che le avesse concesso l'onore della sua presenza e come se adesso non avesse troppo tempo da perdere con quella malata del cazzo!
«Cerca di non fare lo stronzo già a prescindere, perché ti potrei tranquillamente mandare a cagare e andarmene - anche lei è decisamente agguerrita, ha una sicurezza nella sua voce che non c'è mai stata! - se sono qui è solo perché ci sono delle cose che devi capire, così magari cresci un po', e queste cose non mi andava di dirtele via chat, perché, a quanto pare, non capisci!»
«Vedi di stare calmina anche te! Già è tanto che sono venuto»
«Oh! Ringraziamo vostra grazia per averci concesso la vostra presenza! Quale grandissimo onore! Ma vaffartifottere!»
«Ma fanculo te! Ciao!» Si stava girando e se ne sarebbe andato.
«No! … - la rabbia sembra aver ceduto il posto alla consapevolezza … - aspetta: cercherò di non insultarti mentre di dico alcune cose … ascoltami!»

«Parla»

martedì 8 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - quarta parte

MARTEDÌ pomeriggio - 1
Odiava le persone come Alberto, davvero non riusciva a sopportare le persone che si comportavano così! Cosa cavolo avevano nella testa quei dementi? Ma poi cosa costava a loro lasciarle in pace, lasciarle un po' in pace, solo per quieto vivere: loro non avevano intenzione di disturbare in alcun modo, a loro bastava avere l'una l'altra e nient'altro, non pretendevano nemmeno cose esagerate come il matrimonio - per carità di Dio nemmeno provare a proporlo! -, volevano solo poter stare assieme, due persone che, insieme, erano felici e che non chiedevano che questo, di essere felici. Non chiedono tutti di essere felici in fondo? Tutti vogliono solo essere felici, nessuno è talmente bacato nella testa da ricercare il dolore - anche i sadomasochisti cercano solo il piacere in un modo diverso!
E invece lei doveva sopportare che ci fosse gente come quella, gente in grado - ma perché poi? - di farla sentire anche a disagio, come se fosse davvero lei quella sbagliata.
Mentre tornava a casa, a piedi, perché, ovviamente, sua madre non s'era fatta viva e lei non era uscita prima, non riusciva a non essere arrabbiata, non riusciva ad impedire che la rabbia le montasse dentro sempre più violenta. Appena aveva lasciato salire Adriana sul suo pullman e s'era avviata lungo la strada sotto il suo dannatissimo ombrellino, s'era subito lasciata alle spalle le belle sensazioni che le faceva provare Adriana e le erano tornate in testa tutte le parole, gli sguardi, le risatine, quegli strumenti di tortura che da troppo tempo le gravavano sul cuore.
Quella mattina, poi, era successo qualcosa di troppo strano: non si era mai sentita così indifesa, così incapace di qualsiasi azione. Era rimasta asciutta, secca e arida, impossibilitata a qualsiasi decisione, condannata a quello stato di immobilità e impotenza.
Ora era solo arrabbiata: non poteva più continuare a sopportare tutte quelle persone che le venivano contro: si vedeva come una fogliolina attaccata molto molto instabilmente ad un ramo ormai secco, mentre tutt'attorno saliva il vento di una tempesta imminente, un vento che continuava a farsi via via più potente e aggressivo; sentiva ch tutt'attorno imperversava la solitudine e tutte quelle solitudini le vedeva incontrarsi solo contro di lei: mondi lontani, vite separate erano tutti riuniti sotto un unico scopo. Era un sensazione davvero tremenda, terrificante.
Le gocce cadevano e ci fu un momento in cui Beatrice pensò che ogni goccia di pioggia fosse come una piccola martellata e lei un grande chiodo con una capocchia a forma di ombrello; ogni volta che sentiva i flebili rumorini della pioggia si sentiva spingere verso il basso, schiacciata da un peso sempre più insopportabile. Ma la cosa peggiore era che scivolava giù, spinta dalla pioggia, lentamente … non era un colpo secco, una dannatissima martellata violenta, no!: tante martellatine delicate e, in un certo modo, affettuose …
Doveva reagire. Sentiva dentro di lei il bisogno di reagire e rispondere a tutti quei colpi, non quelli della pioggia, ma quelli che la gente le scagliava contro giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo.
Arrivò a casa mezza fradicia e per nulla affamata: si spogliò e lasciò cadere i vestiti zuppi poco oltre l'ingresso. In cucina, giusto dire di aver mangiato qualcosa, sgranocchiò un pezzo di pane. Nella sua testa gridavano tutte le possibili reazioni che doveva avere, pretendevano di essere ascoltate e messe in pratica.
Era estremamente confusa, e la confusione si mescolava alla rabbia, una rabbia sempre crescente e ormai incontenibile.
Lanciò un grido nella casa deserta.
"Devo dire qualcosa a quel cretino, quell'Alberto!" si disse dopo l'urlo: finalmente sembrava tornata un po' di chiarezza nel suo cervello, sentiva una determinazione certa e sicura invaderle ogni pensiero, e la sentiva soffocare tutte quelle possibilità che prima le erano venute in mente, asfissiandola.
Ma cosa dirgli? Cosa poteva dirgli? Cosa doveva dirgli? Era un idiota, questo era indubbio! Ma cos'altro doveva dirgli? C'era qualcos'altro da dirgli?
Prese in mano il telefono e aprì Facebook andando rapidamente sul profilo di Alberto: eccolo là con i suoi occhiali da sole e il suo sorriso da figone … dalla foto non sembrava affatto anche uno stronzo completamente idiota!
"Scrivi messaggio: e …" pensava con le dita un po' tremanti "E …?"
Risentiva ancora quelle parole, rivedeva ancora quello sguardo vuoto, disarmante, orribile di un ragazzo che le guardava in un modo tutto strano, diverso, ancora più odioso rispetto a tutte le altre occhiate, più doloroso delle risatine e degli sghignazzamenti.
Iniziò a scrivere e parole e parole e parole si precipitavano l'una dopo l'altra sullo schermo luminoso, affollandosi in frasi arrabbiate e disperate, seccate, esasperate. A volte le veniva voglia di fermarsi e premere invio, ma poi doveva ripensarci perché troppo rapidamente le venivano nuove cose da scrivere,e tutte pretendevano di essere immediatamente scritte!!
Digitò chissà quante centinaia di parole; non fece nemmeno una faccina.
Il messaggio era come vomito: tutto quello che c'era dentro di lei stava uscendo ed era ora ben visibile, ma, tuttavia, sempre un po' confuso, confuso da quelle emozioni così forti e così improvvise che le scuotevano il corpo.
Finalmente pensò di aver finito. Le dita avevano rallentato la loro corsa ed ora indugiavano nel completare l'ultima frase. Punto.
Cosa aveva scritto?
Rilesse tutto, molto attentamente, una volta, due volte, tre volte, quattro, cinque e sei: ormai aveva imparato ogni sua parola a memoria, quasi come fosse un monologo. Aveva detto proprio tutto? Sì, aveva detto tutto; forse c'era ancora qualcosa, ma aveva detto tutto quello che bastava, tutto quello che DOVEVA scrivere lo aveva scritto!
Premette il tastino con la freccina. Inviato.
Allontanò il telefono e si sdraiò, stremata. Guardava il soffitto della sala mentre una gamba le ciondolava già dal sofà. Un ragnetto si muoveva silenziosamente sulla sua testa, senza dar fastidio a nessuno: sua madre avrebbe subito preso la scopa e avrebbe ammazzato quell'animaletto; a lei non interessava in quel momento: non le sarebbe interessato in nessun momento - a meno il ragnetto non si fosse azzardato ad avvicinarsi alla sua testa! - ma in particolare in quel momento non le interessava minimamente. C'era altro che la tormentava, altro che la preoccupava.
Non sapeva nemmeno lei a cosa pensava adesso: non era più arrabbiata come mentre tornava a casa e nella sua testa non si inseguivano più infinite parole e millemila pensieri; ora c'era silenzio nella sua testolina, ma qualcosa pesava, gravava insostenibile sul petto … si sentiva strana, quasi che avesse appena compiuto un passo fondamentale della sua vita: c'era qualcosa di euforico in lei, ma, allo stesso tempo, si sentiva sconfitta, quasi che quel messaggio pieno di lei fosse come una resa, o peggio.
Passò del tempo in quella posizione, ormai dimentica del ragnetto, concentrata sul nulla. Non era più padrona di sé, non s'accorgeva di nulla che le fosse attorno: forse s'appisolò pure per qualche minuto, ma non lo sapeva. Era da qualche altra parte.
Infine ritornò in sé, sentì un po' di pensieri riaffiorarle in mente e uno di questi le suggeriva di controllare il telefono.
Sbloccò lo schermo e riaprì Facebook.
Un messaggio.
Ecco, le aveva risposto. Cosa le aveva risposto?
> …
Tre puntini? Nient'altro? Sì, solo tre puntini. No! Adesso era uscito l'altra nuvoletta con dentro altri tre puntini, ma questi si muovevano: stava scrivendo dell'altro!
Attese, rimase ad aspettare che quei tre maledetti puntini si fermassero e le consegnassero un qualche messaggio. Ancora non arrivava nulla. I minuti passavano, passavano e passavano eppure non cambiava nulla, sempre quei tre dannati puntini fermi seguiti da altri tre danzanti.
Quanto tempo ci metteva?
Beh, in realtà anche lei ci aveva impiegato non poco tempo, ma lei aveva scritto cose serie, cose vere: lui cosa avrebbe risposto? Qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata una scemenza, demenza pura! Insomma non c'era un modo sensato di rispondere a tutto ciò che aveva scritto lei: lei aveva scritto la verità, cose giuste e certe; lui poteva rispondere solo con le solite cattiverie, con gli stereotipi e quelle convinzioni bigotte che troppo spesso incontrava anche nei suoi coetanei! Quanto tempo ci voleva per scrivere simili idiozie? O era completamente impedito con il cellulare oppure, evidentemente, non sapeva cosa scrivere: "Continua a scrivere qualcosa e a cancellarla subito dopo. Non ha il coraggio di rispondermi, non sa come fare! Presto smetterà anche di provarci"
Sentiva un po' di gioia in vedere quei puntini muoversi, li vedeva come sintomo della sua vittoria contro quel cretino: lo aveva lasciato senza nulla da ribattere!
Mise via il telefono, pronta a godersi il suo trionfo, meditando già il momento in cui l'avrebbe detto ad Adriana, dimostrandole che anche lei non era incapace di difendersi da quella folla di dementi che le circondava!
D'improvviso s'illuminò lo schermo.
L'iconcina dei messaggi era comparsa.
Il mondo le crollò tutt'attorno e sopra, il pavimento scomparve e lei iniziò a cadere, con la gola secca, la lingua impastata. Aveva risposto?!

Era un messaggio lungo, quasi quanto il suo, senza faccine.

martedì 1 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - terza parte

MARTEDÌ mattina - 2
Salirono la scala che portava allo spiazzo davanti all'ingresso, strette l'una all'altra, insieme ad altre persone che s'affrettavano in cerca di un riparo, in cerca di qualche compagno già arrivato. Qualcuno entrava in atrio per prendere un caffè, gli altri erano cacciati fuori dai bidelli che ripetevano, con la loro proverbiale gentilezza «Non è ancora suonata! Finché non suona non potete stare qui!».
Troppa gente s'affollava stretta stretta sotto la grande tettoia che precedeva l'atrio. Tra l'intreccio di gambe sgocciolavano gli ombrelli fradici e i jeans erano tutti chiazzati qua e là. Qualcuno tentava di penetrare quell'ammasso informe e assordante di voci facendosi avanti come una talpa, prendendo, senza troppa educazione, le spalle del tizio davanti e spostandole di lato per riuscire a passare. Uno cadeva sull'altro e tutto era accompagnato da un «Oh!», un «Ehi!», o un «Ma'checcazz'?!?!».
Adriana e Beatrice non provarono nemmeno ad addentrarsi in quella jungla: non era fondamentale raggiungere i propri compagni; per ora erano loro due e bastavano, non avevano bisogno di salutare qualcun altro, di parlare di idiozie o di scuola con altre persone. C'erano l'una per l'altra e all'una importava soltanto quello che diceva, pensava, faceva l'altra. Si sistemarono in un angolino un po' più in là, sotto il loro ombrellino, appoggiate ad un muro che non era stato infradiciato dalla pioggia.
Mancava qualche minuto, forse addirittura una decina, al suono della beneodiata campanella d'inizio.
La gente parlava e sbadigliava, tutti erano seccati da quella nuova giornata, iniziata già tremendamente grazie alla pioggia che li perseguitava da sabato mattina.
Alberto, poco più in là, ben protetto dalla tettoia sotto cui era arrivato grazie alle sue larghe spalle non troppo gentili, era con i suoi amici, con i cazzoni che ormai erano un po' una seconda famiglia di idioti con cui diceva, e a volte faceva, solo tante e tante scemate. Ridevano perché qualcuno aveva appena raccontato una propria, ennesima, figura di merda davanti a qualcuno. C'era qualcosa di pacifico in quella situazione: tutti erano sereni nella loro demenza, una demenza decisamente notevole, ma assolutamente piacevole; ridevano e scherzavano, che altro c'era da fare? La scuola era per loro un obbligo, certo, quindi che cosa potevano fare, oltre che insultare i professori e prenderli in giro? Erano soddisfatti, senza saperlo, di come riuscivano a superare ogni giorno, per quanto palloso.
Alberto sapeva di poter volere anche qualcosa di più, a volte, di quell'idiozia demenziale, ma aveva imparato che non era poi così male viver fa cazzone: troppe domande, troppi dubbi erano forse buoni per qualcuno che voleva scrivere libri, o magari per qualcuno che voleva fare conferenze per studenti annoiati costretti dai professori, ma per stare bene con il mondo, per inserirsi bene tra la gente, tra la maggior parte della gente, non si potevano avere troppi dubbi e troppe domande; bastava fare, fare quello che facevano tutti, magari non proprio tutte le scemate più assurde, ma assecondare quelle piccole cretinate, condividerle.
Smise di ridere con un grande sforzo: era proprio uno sfigato quell'altro! D'improvviso qualcuno lo urtò da dietro, per sbaglio, magari inciampando: non importava, la reazione doveva per forza essere quella aggressiva e irata; mancò poco che ringhiò contro chiunque ci fosse dietro di lui.
Ricomponendosi, tornando ad ascoltare altre idiozie, diede uno sguardo tutt'attorno, squadrando le ragazzine conciate in maniere improponibile, quelle che sembravano delle bambine appena uscite dalle elementari gestite dalle suore, oppure quel paio di ragazze sempre vestite come se dovessero presentarsi ad un provino per girare un film porno di scarsissima qualità. Quella di destra aveva decisamente un paio di tette meravigliose: sode e alte. "Chissà quanti voti di matematica s'è meritata con quelle!".
C'erano quei ragazzini sfigatini che tenevano i jeans sotto le ascelle, stretti da una cintura di cuoio che nemmeno i loro nonni avrebbero portato a quel modo! Un gruppo di strani era a parlare - ad Alberto sembrava davvero che avessero una lingua tutta loro, completamente incomprensibile a chiunque altro! - poco fuori dalla tettoia, ognuno sotto il proprio ombrello scuro, con quell'aria da complotto che s'erano creati tutt'attorno. Vicino al grande vaso pieno di sabbia per i mozziconi di sigaretta, poi, c'erano quelli che facevano i bravi fumatori: forse erano anche consapevoli che non avrebbero dovuto fumare e, siccome, nonostante tutto, non riuscivano a rinunciare alla loro dose di tabacco giornaliera, preferivano dar l'impressione di essere, comunque, beneducati e a modo, e quindi gettavano i mozziconi nella sabbia o addirittura - e questi erano quelli che forse di rimorsi ne aveva più di tutti! - li spegnevano nella sabbia e poi li gettavano nel cestino a qualche passo.
Più in là c'erano due ragazze sotto un ombrellino, appoggiate al muro.
Alberto non riusciva a sopportare: ogni volte che le vedeva ...
Gli altri quando le vedevano iniziavano a ridere e prendere in giro o, peggio, iniziavano a fantasticare su cosa facevano insieme quelle due quando erano sole, svestite. Lui no, lui non sopportava quelle due, le avrebbe volentieri cancellate con una gomma di due metri per un metro e mezzo, levandosele per sempre di torno.
Non sapeva perché, ma non poteva sopportarle, non riusciva  a trattenersi quando le vedeva insieme, anche quando non si baciavano, anche quando non si abbracciavano in quel modo che non dovrebbe essere il modo in cui due ragazze s'abbracciano … il solo vederle da lontano, anche quando erano sole, era una cosa fastidiosa, quasi dolorosa per lui. Non gli avevano fatto assolutamente niente, ma non poteva … no, non poteva rimanere lì mentre quelle due stavano laggiù insieme, come se niente fosse: ora si baciavano anche! No, non poteva star fermo e iniziò ad avanzare attraverso la gente che, al suo passare, s'apriva come il Mar Rosso, ben consapevole che Alberto aveva dei modi non esattamente delicati, nonostante difficilmente fosse manesco.
I suoi amici rimasero stupiti quando si videro questo qui partire verso chissà dove e lo seguirono.
Intanto Beatrice e Adriana si baciavano, un ultimo bacio prima di entrare in quel postaccio dove era meglio evitare certi comportamenti, soprattutto davanti a bidelle e professori. Quell'ultimo bacio era un po' un rito per loro, era come l'ultimo respiro prima di immergersi in una lunga apnea sottomarina, era l'unica carica che permetteva loro d'intraprendere con un po' meno abbattimento le ore noiose di lezione. Lì tutte e due si scambiavano tutte le loro passioni, in quelle labbra si sfioravano anche i loro giovanissimi cuori innamorati e a vicenda si donavano un po' di serenità: poca e fuggevolissima serenità, ma graditissima ad entrambe, perché entrambe sentivano fin troppo bene il peso di quel bacio dato davanti ad altri.
Adriana, delle due, era quella che potrebbe definirsi 'la più forte': delle due era lei quella che consolava di più l'altra; Beatrice era più delicata, più incerta e spaventata dal mondo, invece Adriana s'era stufata di chinare il capo e da qualche tempo s'era fatta battagliera … ma, nonostante, il suo vigore e la sua determinazione, aveva anche lei bisogno di quei baci, perché era da lì, dall'amore di quella ragazza che ora le stava così vicina che veniva tutto quel coraggio!
Beatrice, d'altra parte, non poteva più fare a meno di quei baci dati prima di una mattinata in mezzo ad estranei: i suoi compagni le parevano giorno dopo giorno più lontani, separati da lei da un sacco di giudizi detti sottovoce mentre lei usciva dalla classe per andare in bagno al cambio dell'ora, sussurrati tra amiche durante le interrogazioni, mentre lei si trovava relegata alla cattedra, intenta a fingere d'interessarsi all'interruzione che aveva fatto il prof alla sua risposta … Non la odiavano tutti, questo non lo pensava, ma dopo cinque anni iniziava ad essere stufa, cominciava ad odiare quel dannato banco in terza fila vicino alla finestra e al termosifone. Forse loro nemmeno se ne accorgevano, non erano nemmeno consapevoli di quello che facevano e dicevano, ma a lei tutto appariva fin troppo chiaro e ormai era satura, non riusciva più a tollerare, a far finta di niente e passare sopra ad ogni cosa. Aveva passato l'ultimo anno soprattutto - cioè da quando si era messa con Adriana - a tapparsi gli orecchi e gli occhi per superare ogni giornata senza troppa rabbia e la forza di ignorare tutto le veniva da quell'ultimo bacio dato prima della campanella, prima di separarsi per andare ognuna nella propria aula.
Proprio mentre si stavano separando s'accorsero entrambe che qualcuno le fissava, un paio di passi più in là. Che cosa voleva? Era sempre il solito bastardo che quando le fissava, senza espressione alcuna.
Alberto fermo, immobile.
Adriana e Beatrice lo avevano già conosciuto, non di persona, ma qualcuno aveva detto loro certe cose che lui diceva: era peggio degli altri, quello là; tutti scherzavano quando le vedevano, ridevano di loro, fantasticavano o le guardavano con un po' di schifo; lui invece no, lui le guardava con uno sguardo strano, in qualche modo terribile, che riusciva a mettere a disagio anche Adriana - anche se cercava di nasconderlo a Beatrice.
Quello sguardo era qualcosa di incomprensibile, quando c'era quell'espressione sul volto di Alberto si preoccupavano anche i suoi amici cazzoni, dimenticando il loro status di idioti menefreghisti. Il suo viso si faceva come annullato, perdeva ogni espressione e le fissava: dentro gli rodeva uno schifo, un rifiuto, ma anche un odio, che però non riusciva a dimostrare come chiunque altro, lui si sentiva svuotato quando vedeva quell'orribile spettacolo.
La campanella suonò e quel gregge di giovani iniziò ad entrare nella scuola, scontrandosi sulle porte.
Alberto rimaneva fermo e immobile.
Beatrice sentiva dentro di lei crescere una nuova sensazione: non riusciva a sopportare le facce di quelli che le guardavano ridendo, sogghignando e ora si ritrovava davanti a quel tizio demente e ai suoi amici che fino a pochi secondi prima, probabilmente, le stavano prendendo in giro con la loro proverbiale eleganza! Che cosa cavolo voleva? Perché le guardava così? Non aveva nulla di meglio da fare? Non doveva pensare alla prossima ragazza che si sarebbe fatto quel pomeriggio? Non doveva discutere con qualche amico della leggendaria partita che quattro cretini avevano giocato la sera prima in un campetto chissà dove? Possibile che dovesse rompere proprio a loro?
Alberto le guardava con quella sua aria vuota, inconsistente. Tutt'attorno la gente diminuiva e le due ragazze erano immobilizzate appoggiate al muro.
«Che cazzo guardi?!» sbottò alla fine Adriana, decisamente stufa di quel tricheco che le fissava, ma ancor più seccata dalla strana sensazione che era in grado di fargli provare.
«Non parlare così, troia! - intervenne uno dei cretini, convinto, incoscientemente, di poter evitare, con quel fare così gentile, di dover iniziare certe discussioni - Dai, Alb, entriamo e lasciamo perdere 'ste qua!»
«Sì ecco, andatevene ch'è meglio!» rincarò Adriana.
«Oh, la devi finire! - parlò, finalmente Alberto, con un tono che pretendeva di essere 'superiore' - Chi cazzo ti credi di essere? Non è che se tu non sei normale allora puoi fare e dire quello che ti pare: cerca di stare calmina!»
Iniziò così un'assurda discussione, condita e farcita da insulti: Alberto si comportava come se fosse un grande saggi sicuro di tutto ciò che diceva, teneva un tono basso e profondo, nonostante tutta la crudeltà che metteva in ogni parola; Adriana non riusciva a trattenere il sangue nelle vene e dava libero sfogo a tutta la sua rabbia; Beatrice rimaneva muta, vicina ad Adriana, incapace di aprire bocca, incapace di muovere un muscolo, non spaventata, piuttosto … annullata!

Intervenne una bidella: «Cosa fate qui?: è ora di entrare!»