martedì 23 febbraio 2016

SKIN-TIGHT JEANS - seconda parte

MARTEDÌ mattina - 1
"Che palle 'sta pioggia!" pensava appoggiando la sua fronte al vetro freddo. Era l'ennesimo giorno che iniziava con quel grigiore muffito: il noce del giardino davanti era appesantito dalle goccioline che continuavano a battere sulle foglie verdi. Qualche uccello attraversava il cielo e si posava al riparo di qualche grondaia dove iniziava a scuotersi le penne.
«Ti porto in macchina! - tuonò la voce soave di sua madre dall'altra stanza – Piove!»
Si staccò dalla finestra rattristata ancora di più: già aveva dormito poco, in più la giornata iniziava nella  muffa piovosa; almeno quel giorno non ci sarebbero state verifiche. Ma non aveva proprio voglia di vedere i suoi compagni, non voleva passare anche quel giorno davanti a tutti quegli sguardi odiosi, avrebbe preferito stare con Adriana, perdere tempo con lei a fare stupidaggini, a ridere, o guardare qualche film. Ma non poteva quel giorno: Adriana aveva due verifiche e non poteva balzare la giornata.
Andò in bagno, dove, appena accesa la luce sullo specchio, ritrovò quel volto stufo, abbattuto, decisamente non felice. I suoi occhi erano arrossati dall'ennesima notte passata a dormire male, tormentata da mille pensieri, trascorsa a sentire la mancanza di Adriana; la pelle era molla, cadeva stanca, assonnata … con che coraggio uscire di casa? Perché non tornare ancora nel letto, tra le coperte a immaginare che Adriana fosse lì a coccolarla con le sue parole coraggiose, con la sua forza, la sua vitalità.
Questo era il momento del miracolo giornaliero, quel miracolo fondamentale che le garantiva di poter affrontare le ore successive con meno svilimento: aprì l'acqua e la lasciò scendere tra le sue mani mentre da fredda diventava tiepida, calda, bollente. Il calore partiva, allora, dalle dita, dai palmi e in un brivido scivolava per tutto il corpo scuotendola tutta, rinvigorendo ogni membra della sua magrezza. Fece una ciotola con le proprie mani e raccolse l'acqua che iniziava ad intorbidirsi, a farsi opaca. Affogò il suo volto e sbatté le sue dita contro il viso, sentendo sotto le falangi ogni osso del viso, ogni curva …
Si drizzò di nuovo davanti allo specchio e ora c'erano degli occhi un po' alleggeriti rispetto a prima, c'era un colorito rosato su quella pelle che pareva più soda, più viva, riempita quasi. Ecco che ancora una volta s'era compiuto il miracolo e quel viso cadaverico era scomparso, trascinato giù nello scarico dall'acqua bollente del rubinetto; nel lavandino riconosceva ancora, nell'acqua che tentava di scendere giù abbondante, lottando per scivolare via tutta, un tratto di quella stanchezza, intravedeva ancora quelle palpebre pesanti, ma in pochi attimi tutto fu inghiottito dalle fogne e almeno l'aspetto di Beatrice era, ora, quello di una ragazza normale, non felice di andare a scuola, ma nemmeno tremendamente scossa dalle ansie del suo cuoricino.
Si vestì in fretta, indossando una delle magliette che più piacevano ad Adriana - era una t-shirt semplicissima ma su un seno c'era cucita una minuscola coccinella che, con il suo rosso, risaltava sul tessuto celeste chiaro.
In macchina sedette dietro, come tutte le mattine, cercando di ignorare le urla feroci di sua madre perché una vecchietta s'era buttata in mezzo alla strada e ora impiegava ore per raggiungere l'altro marciapiede, o perché un deficiente aveva pensato bene di sfrecciare con la sua bicicletta tra il traffico intasatissimo di quella giornata piovosa.
Di sottofondo scorrevano le canzoni che qualcuno sceglieva per le loro mattine, tutte commentate da una voce estremamente fastidiosa di una qualche checca che emergeva verso la fine dei brani, quando le voci dei cantanti sfumavano verso il silenzio.
Alle fermate degli autobus davanti alla stazione s'accalcava una mandria infinita di studenti che attendevano tutti il loro pullman, estremamente eccitati nell'attesa di un'altra entusiasmante giornata di scuola: là c'erano i fattoni che si lasciavano elegantemente andare a sputacchi diffusi attorno a loro, per eliminare in qualche modo la straordinaria quantità di saliva che riuscivano a produrre; le ragazzine diligenti si riparavano in otto sotto un misero ombrellino con una stecca rotta: ridacchiavano o s'insultavano, inspiegabilmente accaldate in quel clima piovoso; i 'normali', poi, erano semplicemente i meno strani: qualcuno fumava la sua sigaretta, qualcuno messaggiava con chissà chi, qualcuno si preoccupava di riuscire a salire sul pullman giusto in mezzo a quel disastro.
Finalmente qualche autobus arrivava e allora erano scene meravigliose: in una scatoletta malandata s'ammassava un'infinita quantità di carne umana. Quando era il momento di chiudere le porte, poi, o una mano troppo inanellata di un fattone, o uno zaino con un quaderno di troppo, o un sedere di fanciulla non proprio in forma faceva sì che il braccio o il piede di qualcuno rischiasse l'amputazione. A quel punto le porte si rifiutavano di compiere tale intervento ed era straordinario vedere tutta quella gente tentare di riposizionarsi per occupare ognuno ancora meno spazio. In qualche modo si trovava una quadra e finalmente si partiva, si partiva con fatica verso un luogo che avrebbero tutti evitato molto volentieri.
«Non so se riesco a passare a prenderti: ti mando un messaggio»
«Va bene … tanto forse esco prima: se manca Alighetti (come è possibile visto che mancava anche ieri) all'una esco e torno a casa a piedi»
«D'accordo, basta che me lo dici»
La scuola iniziava ad intravedersi lontano, nel suo magnifico color topo morto. Lungo la strada qualche altro folle avrebbe tentato di suicidarsi solo per raggiungere un branco di suoi amici dall'altra parte, ma ormai tutti erano abituati a quello e faceva parte dell'imparare a guidare in città; un po' come quelle prove di Scuola di Polizia in cui devono entrare in un percorso e sparare solo ai cattivi ed evitare gli 'indifesi': qui bisognava tenere gli occhi non aperti, non spalancati, ma direttamente fuori dal parabrezza per avere una vista a trecentosessanta gradi sulla strada.
«Ciao!»
«Ciao …» si salutarono le due donne: la madre aveva tentato un po' di colore nel tono di voce, la figlia l'aveva stroncata con la solita secchezza, con il solito tono annoiato, stufo.
Ecco l'altro miracolo che si ripeteva ogni giorno: Beatrice si ritirò nel suo angolino, al riparo del suo ombrellino verde acqua - un ombrellino terribile, ma ch'era l'unico sopravvissuto di una lunga schiera! - ad aspettare.
> Dove sei?
» Arrivo: il pullman sta girndo ora
L'immancabile errore nel digitare era la conferma che a scrivere era una che odiava i telefoni, gli smartphone e tutto ciò che sia tecnologico: Adriana era così, e a lei piaceva che fosse così.  Mentre leggeva il messaggio comparve il primo sorriso della giornata, un sorriso che le scaldava il cuore ancor meglio che l'acqua bollente del rubinetto. In quei momenti, assurdamente, si accorgeva di quanto fosse contenta di avere Adriana: in altri momenti le mancava se era lontana, quando era con lei e parlavano stava bene ed era in pace, ma c'erano delle cose che le davano una gioia tutta particolare, una contentezza unica e straordinaria. Erano i momenti in cui, magari, Adriana stava parlando con i suoi compagni, mentre rideva bellamente per una battuta particolarmente spassosa: Beatrice la osservava, anzi no, la spiava e nel suo cuoricino sentiva un piacere immenso, quasi che in quello sguardo segreto ci fosse qualcosa di portentosamente potente, in grado di cancellare tutto il resto.
Il pullman ora lo vedeva avvicinarsi lungo il viale, affiancato da tante macchinine tutte colorate, battute tutte da gocce incessanti. Oltre il parabrezza si vedeva un ammasso informe di esseri umani (?) incastrati l'uno sull'altro, impilati come tanti mattoncini di forma diversa, un Tetris in carne ed ossa! I giubbottini colorati nella penombra dell'autobus stingevano in un marrone-nero vomitevole, una massa di colore indistinta. Finalmente si fermò davanti alla fermata e le porte s'aprirono, sbattendo contro i gomiti di qualche malcapitato. Tutti si rovesciarono fuori, quasi che quelle fossero bocche in preda al vomito. Man mano che la gente saltava giù qualcuno apriva agilmente il proprio ombrello, qualcun altro correva a ripararsi da un'altra parte.
Eccola, là. In un istante rapidissimo s'era fermata sulla soglia dell'autobus e aveva dato uno sguardo tutt'attorno: s'erano viste e lei aveva ripreso il suo movimento interrotto, precipitandosi anche lei giù dal pullman.
Le corse incontro senza aprire l'ombrello. Appena arrivò sotto quello di Beatrice le disse «Ciao!» con una voce allegra e particolarmente acuta e poi le diede un bacio, non permettendole di rispondere a parole.
Le piaceva ogni cosa di Beatrice, ma una delle cose che più adorava era il suo gusto: all'inizio sentivi il dentifricio, o la cicca, che le insaporivano la bocca di menta, ma poi era come se sentisse il sapore di lei stessa, un sapore solo per lei, che nessun altro avrebbe potuto sentire, gustare.
«Ciao - disse Beatrice quando le labbra si staccarono le une dalle altre; nella sua voce, quando parlava con Adriana, c'era un colore nuovo, un colore insolito, emozionato e, stranamente, felice - sei pronta per storia e fisica?»
«Sì - rispose lei, guardandola negli occhi con molta semplicità, infilando le sue mani nelle tasche della sua ragazza - cioè, andranno uno schifo entrambi, ma chissene: speriamo di riuscire a copiare qualcosa!»
«Ciao ragazze!» le salutò un compagno di classe di Beatrice.
«Ciao!» «Ciao!» risposero quasi all'unisono.
«Dai iniziamo ad andare sotto» propose Adriana, prendendo sotto braccio Beatrice, stringendosela tra le braccia.
Camminavano parlando di niente, con quella leggerezza che è la serenità dell'amore dei giovani, quando si passa il tempo a ridere ed essere semplicemente felici, quando non si hanno sensazioni assurde, ma semplicemente si sta bene con qualcuno, si desidera godersi questo qualcuno ogni minuto di ogni giorno finché non si ha la nausea - non tutti i giovani sono così, purtroppo, ma Beatrice  e Adriana lo erano, forse mosche rare in un mondo che dimenticava a poco a poco quest'amore giovane.
Camminavano con il cuore leggero, felici, semplicemente felici, ignorando la pioggia che picchiettava sull'ombrello, ignorando le pozzanghere che si presentavano man mano. Non c'era niente che le potesse disturbare.

Il viso stanco e stufo, abbattuto di Beatrice era scomparso nello scarico con l'acqua bollente, inghiottito dalle fogne.

giovedì 18 febbraio 2016

TREDICI FEBBRAIO DUEMILASEDICI - sogno

Ho deciso di tornarmene a casa solo passata la mezzanotte. Quando mi sono messo nel letto ero soddisfatto della serata: era andato tutto bene, avevo sorriso e m'ero divertito. Sì, insomma, bei momenti, felici. La nottata, poi, è stata riposante, non posso negarlo: mi sono svegliato senza voler rimanere ancora nel letto, forse con il profumo di poche ore prima nel naso.
Ma la notte non è stata leggera, perché stanotte ho avuto delle visite che non mi hanno fatto troppo piacere. è come se stanotte io abbia affrontato una di quelle esperienze che, di solito, durante il giorno evito come la pesta bubbonica. Non importa troppo, però, perché in fondo è stato solo un sogno, soltanto un insieme di immagini che la mia mente ha creato. Ma no. Non è vero neanche questo, in effetti: i sogni non sono solo farneticazioni di un cervello stanco dopo un'intera giornata di luce e colori; i sogni sono la più intima parte dell'animo umano e sono, penso io a volte, pezzettini di anima sparsi come polvere profumata sulle palpebre chiuse dalla notte. Sì, i sogni sono quella parte preziosa, quelle gemme rare che scintillano quando meno te lo aspetti: dicono quello che le parole non possono, esprimono quello che, nascosto nelle profondità più recondite, nemmeno i poeti sono mai riusciti a esprimere.
Comunque, la notte è stata particolare, perché questo sogno non è stato piacevole, anzi, direi piuttosto che è stato alquanto faticoso. Ma ho forse esagerato ancora una volta con tutte queste parole.

Non so quando, ma ricordo dove: il luogo che mi ha visto crescere. è proprio quella chiesa in cui sono stato battezzato, in cui ho ricevuto la mia prima comunione, solo dopo essermi riconciliato. La cresima, anche la cresima ho ricevuto in quella chiesa. E quella famiglia che ho davanti? Io con i loro figli, più piccoli di me, ho giocato spesso, prendendomi, da bravo giovanotto, qualche responsabilità. Niente di serio, ma mi impegnavo. Quella famiglia … mi dicono che hanno ragione loro, ovviamente.
Ma perché non vogliono che due persone che si amano possano stare assieme? Loro si amano, e stanno assieme, ebbene … cos'hanno loro, che noialtri non abbiamo? Non possiamo avere figli dopo una notte di amore? è vero … e ciò è doloroso, perché in fondo sentiamo tutti noi di non essere completamente come voialtri, però … però anche noi ci amiamo.
Lasciateci la possibilità di amarci e basta, voi amerete sempre e comunque, noi ameremo sempre e comunque! I figli cresceranno male senza un padre e una madre ... oh, sì ... è vero: i figli di divorziati infatti sono tutti criminali, depressi, morti suicidi. Ma che assurdità, insistere a ripetervi queste cose, perché voialtri dite che non è uguale. Ebbene, non insisterò affatto.
Noi ameremo e forse un giorno capirete ciò che predicate ma non comprendete. L'amore è l'amore: la famiglia tradizionale non è mai esistita. Non confondiamo il matrimonio cattolico, quello religioso, con 'la famiglia'. La famiglia non è mai esistita come volete voialtri che sia oggi. La famiglia non è mai stata padre e madre e figli, e basta; perché volete far credere ai vostri figli che sia sempre stato così? Noi, proprio noi Cristiani, Testimoni in Cristo, Membra, come dice Paolo, di un Corpo Vivo, sappiamo che la famiglia è altro …: la famiglia è amore.


Non è stato un sogno comune: mentre sognavo piangevo, nel sogno piangevo e soffrivo. Vivrò ogni giorno nell'amore.

martedì 16 febbraio 2016

SKINTIGHT JEANS - prima parte

VENERDÌ notte
"Uff … adesso sì che si deve entrare in scena: la vedo dura; ho anche male ai piedi! Bah, tanto per fare il pirla ho sempre abbastanza forze, e ormai ho anche una certa dignità di buffone, non posso perderla per una serata un po' stanca!"
Parcheggiò la macchina nella piazza davanti al castello, perché ormai non c'era più da pagare. Spense la macchina mentre un paio di ragazzi passavano sotto il porticato del teatro - uno dei grandi ignorati della città. Prima di allontanarsi dall'auto ritornò indietro due volte e per tre volte riaprì e richiuse con i due tastini di plastica delle chiavi: nel sentire e risentire quegli scatti si sentiva un po' più sicuro del fatto che la macchina fosse inviolabile. Infine fu pronto per allontanarsi da quel parcheggio che, inaspettatamente, gli era riuscito veramente molto bene.
In centro c'era un gran vociare, per i portici cittadini rimbombavano le risate e le urla di tutta quella gente che s'affollava al bar, che vagava senza pudore verso un altro locale, verso la discoteca poco più in là - dove stava andando anche Alberto -, qualcun altro vagava, evidentemente ubriaco, o fatto, con la bocca impastata e gli occhi strani.
Alberto, dal canto suo, camminava rapidamente, passi lunghi e ben distesi, nei sui jeans stetti, con la camicia celeste che scintillava sotto al giubbino leggero (troppo leggero). Il cielo sapeva di pioggia; probabilmente all'alba sarebbe rientrato cercando di evitare mille pozzanghere.
In tanti s'avvicinavano alla discoteca, moltissimi in compagnia, qualcuno con fare rissoso, certe fanciulle decorose ed eleganti non vedevano l'ora di cadere ubriache tra le braccia di qualche ragazzino infoiato.
Alberto avrebbe preferito starsene a casa, probabilmente, o comunque andare al bar, piuttosto che in discoteca; stranamente non aveva nemmeno voglia di bere quella sera.
Svoltò verso la Barriera e attraversò la strada noncurante: le macchine si sarebbero fermate loro, lo si sapeva, era come un tacito patto ch'era stato stretto tempo e tempo addietro, chissà da chi e chissà con chi.
La sera era fresca; sentiva l'aria infilarsi tra i vestiti, sfiorargli il petto come un soffio leggero.
Quando giunse davanti all'ingresso del locale sentì una gocciolina cadergli sulla fronte. Che gliene importava: stava entrando!
Entrò e passò la serata con i suoi amici, impegnato a confermare la sua reputazione, deciso a non sembrare diverso dagli altri.
**
LUNEDÌ notte
> Dormo … almeno ci provo … ti amo! Buonanotte
< Mi racomando, cerca di rilassarti: io farò finta di studiare qualcosa (ahahahahah - non ci credo neanche io!) Buonanotte amore, sogni d'oro
Lesse il messaggio con il sorriso, felice di vedere il solito errore nello scrivere 'mi raccomando'. Ma il sorriso era anche perché ancora una volta poteva addormentarsi pensando a questa persona meravigliosa: le dispiaceva non poterla avere lì con lei, stringerla, sentire il profumo dei suoi capelli, ma quando l'ultimo messaggio della giornata era il suo allora riusciva a stendersi nel letto immaginandosi quel profumo e quella pelle delicata, la semplicità con cui l'avrebbe sfiorata, il respiro che sarebbe uscito da quel naso che tanto amava …
Spense il 3G e si mise a posto nel letto, rigirandosi un po'. Controllò che la sveglia fosse impostata e poi chiuse gli occhi. La giornata le sfilò davanti in un istante. Fuori, ancora, pioveva.
"Ma da quanto piove?! Sono giorni: che palle! Ho voglia di andare al mare, ho voglia di sole! Potrei andare a farmi una lampada domani, o dopodomani. Solo che se poi mi faccio la lampada la rompipalle sta addosso! Uffa, non la sopporto più. Anna domani deve portarmi gli appunti di inglese altrimenti col cavolo che faccio l'interrogazione settimana prossima. Domani non ho proprio voglia di andare a scuola: è una giornata inutile, potrei stare a casa a studiare. Ma chi ci crede?! Passerei la mattinata a vedere qualche film e la giornata sarebbe ancora più pessima perché non vedrei Adriana!"
La stanza s'illuminò.
Beatrice non si era accorta di avere ancora gli occhi aperti.
Un messaggio normale?! Chi manda messaggi normali?!
Un numero sconosciuto.
< Ciao! Senti non so chi sei ma mi sono stufato: cerca di non fare così perché non è normale e mi sto davvero stufando …
Aveva sbagliato numero, evidentemente. Avrebbe voluto scrivere a chiunque fosse che aveva sbagliato numero, ma non lo fece subito: si sentiva un po' in imbarazzo. Alla fine scrisse:
> Guarda, scusa, ma mi sa che hai sbagliato numero: non so chi tu sia!
Una volta inviato le venne da ridere e cercò di soffocare i suoi gridolini per non svegliare i suoi genitori che dormivano di là. Riappoggiò sul comodino il cellulare, decisamente di buon umore, pronta a dormire senza bisogno di sognare.
Si riaccese lo schermo nella notte.
< Ma davvero? Cioè, scusa … scusa per l'ora: buonanotte, chiunque tu sia!
La sua risposta era ancora più esilarante e stavolta far tacere la risata fu estremamente difficile: premette la bocca sul cuscino e se la rise per qualche minuto.
Si ricompose … tornò a voltarsi sulla schiena affondando sul cuscino ch'era un po' inumidito dalle lacrime. Ancora le veniva da sorridere: chi mai potrebbe riuscire a fare una figura simile? Nemmeno lei, con la sua sfiga leggendaria ci sarebbe riuscita!
"Questa è da raccontare! Assolutamente!" pensava nel buio, mentre a poco a poco il sorriso si spegneva, esaurendo l'assurdità della cosa. La bocca aveva ancora sul palato un po' di quell'ilarità, di quelle risa fragorose ch'aveva dovuto soffocare nel cuscino; sentiva appoggiate alla lingua le risate liberatorie, graditissime, ma, come un sorso d'acqua, iniziavano a scivolare verso lo stomaco, pronte ad essere digerite e dimenticate. Pian piano riemergeva il gusto della lontananza da Adriana, tornava la malinconia di un letto troppo vuoto, di un abbraccio immaginato.
"… mi sono stufato: cerca di non fare così perché non è normale …"
Le ronzavano in testa queste parole, ma ora non c'era più nulla di divertente. Era come se ci fosse qualcosa di terrificante, un qualcosa di cupo e tetro. Chissà a chi erano dirette quelle parole: che cosa poteva avere fatto questa persona per meritarsi un messaggio simile dallo sconosciuto che si era 'stufato'?
Si ripetevano monotone, sempre uguali e senza una pausa: una cantilena che iniziava a diventare molto fastidiosa. E continuava, continuava a ripetere che s'era stufato, continuava a ripetere che non doveva fare ciò che faceva perché 'non è normale'.
Le risate erano dimenticate, inghiottite e digerite, scomposte e irripetibili. Ora c'era dell'amaro in bocca, un gusto metallico, ferroso, nauseante, quasi che quelle parole … sì, ora sembrava proprio che quelle parole non fossero state inviate per errore a lei, le sembrava che fosse proprio lei la giusta destinataria di quel messaggio … era Beatrice che aveva stufato lo sconosciuto, era lei che doveva cambiare modo di fare, modo di essere, era lei che non era normale!
"Ma che cazzo dico?!" Si disse nella propria mente, arrabbiandosi "Non può essere che fossero dirette a me queste parole: ha sbagliato numero, semplicemente!" Ma mentre nella sua testa parlava a questo modo, cercando di pensare abbastanza forte da coprire con i pensieri quella continua eco del SMS, dentro cresceva il sospetto che non ci fosse stato un errore, che tutto questo non fosse accaduto per un caso, perché uno sconosciuto aveva sbagliato a digitare il numero sul proprio cellulare. S'accresceva in lei quella voce che le ripeteva con sempre più foga che non era normale, non era assolutamente normale.
Ora sentiva caldo: le gambe le sudavano, il petto sussultava ansioso, ansimante. I polmoni non riuscivano a respirare, non s'allargavano a sufficienza, come se un enorme masso fosse stato posto sul seno. I capelli, per il sudore, le si appiccicavano alla fronte. Sapeva di avere gli occhi spalancati, aperti nella notte alla ricerca di un po' di tregua: nel buio si susseguivano ombre luminose, le solite, che però ora sembravano più agitate, sembravano scintillare agitarsi con una strana fretta, quasi fossero corpi in preda a convulsioni.
Con uno sforzo immenso si tirò su a sedere, lanciando via le coperte. Respirava a fatica, inspirando ed espirando violentemente, in una brama ossessionata di aria, di freschezza, di sollievo. S'illudeva che tirandosi su potesse far rotolare via anche la pietra che le si era posata sul petto, aveva sperato che lanciando via le coperte avrebbe allontanato anche quell'oppressione soffocante, e invece era lì, seduta, sudata, folle per delle voci che continuavano a tormentarla, a ripeterle che non era normale!
Non s'accorse che le voci erano svanite, non si rese conto che l'aria fresca della notte le aveva carezzato la pelle asciugando il sudore, non aveva notato che la pioggia era tornata a risuonare nelle sue orecchie al posto delle parole di quel messaggio. Respirava.
S'alzò dal letto e camminò nel buio a piedi scalzi verso il bagno.
Accese la luce e ci volle del tempo perché riuscisse a sostenere le palpebre. Sedette sul water e strinse tra le mani l'estremità della maglietta che usava per pigiama. Fece pipì e si lavò, stanca.
La sua mente era sgombra, le diceva soltanto che voleva riuscire a dormire un po', almeno qualche ora, prima di dover affrontare un'altra giornata in mezzo alla gente.
Si fermò qualche momento al lavandino e si fece scorrere tra le mani l'acqua fresca. Bevve un sorso d'acqua. Le avrebbe rinfrescato anche tutto il resto del corpo; ma l'acqua la deluse stavolta e si scaldò non appena le toccò le labbra. Non importava: bevve comunque.
Tornò nel proprio letto, al buio.
Il lenzuolo era stato rinfrescato e fu un piacere ritirarsi addosso la coperta.
Il ricordo della buonanotte di Adriana era ormai inconsistente, perso in quegli attimi di agitazione, smarrito chissà dove nella memoria. Ora ricercava una nuova pace nell'oscurità, sperava nell'arrivo del sonno, anche agitato magari, ma finalmente sonno: non era più importante riposare, adesso desiderava solo non dover più ricordare.
Aspettò così, sdraiata,con la faccia rivolta verso il soffitto buio, verso la notte che ormai era calata su tutta la casa eccetto che su di lei. ancora una volta era la diversa della situazione perché tutti dormivano mentre lei doveva rimanere sveglia tormentata da chissà quali pensieri, perché poi? perché uno sconosciuto aveva soltanto sbagliato a scrivere un numero, perché un qualche pirla non aveva digitato i numeri corretti sulla sua dannata tastierina di vetro … Sarebbe bastato cambiare ancora una cifra e probabilmente lei in questo momento sarebbe stata addormentata, coccolata dalla buonanotte di Adriana.
Nell'oscurità si convinse a chiudere gli occhi: "Dormi! Devi assolutamente dormire Beatrice: tutto ciò che   è successo oggi dimenticatelo e dormi, lascia perdere tutte le preoccupazioni e dormi per una buona volta. Non sognare nemmeno, non importa, chissene frega se non dormi, l'importante è dormire: dormi, dormi, dormi!"
Guardò il telefono.
Dalla buonanotte era passato davvero molto tempo: presto sarebbe sopraggiunto il domani e lei ancora non aveva chiuso con l'oggi, continuava a rimanere in sospeso su quella giornata che, proprio al termine, le aveva riservato questa bella sorpresa.

Non seppe se la giornata del domani era già iniziata quando finalmente riuscì ad addormentarsi, le bastò, appena sveglia, accorgersi che alla fine c'era riuscita, che alla fine il sonno era arrivato e lei non aveva avuto più nulla da ricordare.

giovedì 11 febbraio 2016

CINQUE FEBBRAIO DUEMILASEDICI

Mi sono alzato e mi sono chiesto: come faccio a non dimenticare ciò che ho appena visto? Ho subito cercato di ripercorrere il mio sogno e … ho incominciato a ripetermi ogni dettaglio, ogni minimo aspetto: richiamavo in continuazione alla memoria tutte le immagini ed eccomi qui, adesso, con un po' di tempo, finalmente.
Non so cosa ho sognato, non so nemmeno perché ho sognato. Però penso di aver sognato questa creatura angelica solo perché durante il giorno, da sveglio, cerco di dimenticarmene, cerco di ignorare il suo viso che mi appare ogniqualvolta chiudo gli occhi. E penso anche che questo sogno mi sia arrivato come consolazione, come carezza …
Quando mi sono addormentato ho salutato la giornata contento di separarmene, ne ero decisamente stufo, decisamente annoiato. Ero anche arrabbiato, forse, perché quando mi sono addormentato ho dovuto ripensare ad alcuni tristi momenti in cui, per l'ennesima volta, ho dovuto discutere per il modo in cui sono fatto. Oh, il modo in cui sono fatto! Che noia, tutte le volte torniamo sempre a questo punto.
Basta.
Bene, ho sognato. Stavolta ricordo che era da qualche notte che non mi visitava un sogno. è curioso che sia stato proprio un angelo ad apparirmi in sogno. Una sorta di annunciazione profana (profanissima!) che mi ha visitato di notte, quando sei solo, immerso nella più profonda delle caverne di cui tu sei fatto. Un angelo è venuto a trovarmi, a portarmi una notte strana, in cui ogni problema della vita del giorno pare dimenticato: nel sogno le cose impossibili succedono, questo è ovvio, ma ancor più meraviglioso è che tutto sembra vero, e come se fosse vero lascia delle tracce nella tua anima, nel tuo cuore, così che, anche qualora il sogno svanisse, le sensazioni rimarrebbero sempre e comunque. Così mi ha visitato il mio angelo.

Quanta gente! è estate e fa caldo. Un luogo che mi ha visto correre quand'ero piccolino, uno di quei posti in cui cresci giorno dopo giorno. Ah, ecco sì, il sagrato della chiesa non lontano da casa. è estate, decisamente: sono tutti in pantaloncini e maglietta.
Non sono affatto piccolo: sono proprio io. C'è anche lui. Gioca con dei bambini: sembra un gigante in mezzo a quelle testoline matte che sono appena uscite dall'asilo. Si diverte e la sua pelle, le sue gambe scoperte, giocano con la luce del sole. Oh sì, penso proprio che ci sia il sole: c'è una luce strana.
Io entro al fresco, lo lascio fuori.
C'è gente, dentro, e si ride. Si ride sempre. Quanta gente!
Perché non sento nemmeno una parola? Ah già … però, senza che nessuno dica una parola, mi dicono se possono avere da bere. "Certo!" - non lo dico. Vado in cucina.
Oh … ma non era fuori a giocare. è di schiena, si lava le mani. Non siamo in cucina, però: questo è un bagno. Boh. Quando si accorge che qualcuno è entrato gira la testa.
Sorride.
Mi sveglio?

Forse non mi sveglio. Continuo a dormire fissando quel sorriso gentile.

martedì 9 febbraio 2016

LA CITTA' DELLE FATE

a M.
"nello spazio e nel tempo d'un sogno
è racchiusa la nostra breve vita"

In una stanza si riassumeva pressappoco l'intera sua vita: tutto di lui era raccolto in pochi metri quadrati, nascosto in pile e mucchi disordinati. Nei cassetti s'affollavano i giorni lontani, sugli scaffali erano infilati ricordi dimenticati, nell'armadio s'era perso qualcosa, scivolato per sbaglio tra una scatola con le magliette per l'estate e una sacca con dentro i costumi per la piscina. Per niente una vita lunga, anzi, una vita ancora da vivere, ma era tutta concentrata, tutta compressa in quel misero spazio strapieno.
Daria gli aveva più volte detto che doveva assolutamente mettere in ordine, fare pulizia, eliminare qualcosa da tutto quel macello: allora Francesco disponeva un po' meglio qualche libro, piegava qualche maglietta e la riponeva nella cassettiera, alleggeriva qualche pila di fogli su cui aveva scarabocchiato nei momenti di noia e così poteva dire di aver fatto qualcosa. Non gli riusciva di addentrarsi troppo a fondo in quella pulizia, quasi che temesse di incontrare una foto, un oggettino, una moneta, un foglietto che gli suscitasse una sensazione sgradita. Preferiva sentirsi circondato dalla sua storia, da tutta quella sua breve esistenza, protetto in quel suo guscio ch'era fatto di ricordi e momenti, istanti accumulatisi l'uno sull'altro, l'uno dopo l'altro, l'uno con l'altro.
Daria aveva avuto spesso il desiderio di entrare nella stanza del figlio con un grande sacco e liberare la camera di tutto quel ciarpame che Francesco s'ostinava a conservare, ma poi si fermava sempre quando magari vedeva il figlio fermo davanti alla libreria con in mano un foglietto ricuperato da un libro che per caso s'era mosso dalla massa: scorgeva nei suoi occhi il piacere di perdersi in qualche assurdo vicolo della memoria, l'osservava quasi commossa mentre questi incontrava, dopo chissà quanto tempo, un'antica esperienza. D'altronde lo sapeva, Daria, che suo figlio era, in fondo, un po' un poeta, perso nel suo mondo di immagini immaginate e realtà intime. A volte se ne dimenticava e pensava a lui come ad un figlio qualsiasi, ma poi s'accorgeva che fin da piccolo quel bambino le era parso diverso: non era la sensazione di tutte le madri, quando pensano, a ragione, che il proprio pargolo sia unico, no, era più una sensazione di inadeguatezza, quasi che di fronte a lui si sentisse inferiore, inadatta al compito che le spettava in quanto madre. Più e più volte s'era tormentata per riuscire a levarsi quella sensazione orribile, ma niente, doveva sempre rinunciare a tentare perché si ritrovava davanti quegli occhi così grandi, pieni di intelligenza e di pensieri, straripanti di domande e promesse.
Crescendo Francesco non aveva perso tutta quella curiosità, e ancora, ogni tanto, sua madre lo guardava cercando di non dare a vedere il suo profondo e sincero imbarazzo di fronte al figlio; ora, però, il bambino s'era assopito nell'animo di Francesco e il suo sguardo aveva imparato a non opprimere chi incontrava nella vita con quella sua forza immaginosa e pungente. Solo chi lo aveva conosciuto da piccolo e aveva avuto la bontà di ascoltare cosa aveva da dire quel bambinetto serbava ancora l'impressione di quegli occhi, e, oltre a sua madre, ben pochi avevano auto il coraggio di prestare ascolto alle parole di Francesco.
Con il tempo, quindi, Francesco s'era accorto di quel suo particolarissimo 'potere': aveva incontrato altri che avevano simili 'doti', ma, da attento osservatore, aveva notato che molti di loro sfruttavano quella loro forza per controllare, quasi ricattare chi c'era vicino. Ciò lo aveva profondamente colpito. Non indignato, perché in effetti s'era reso ben conto che non era un male, talvolta, riuscire ad evitare molte questioni grazie a certe 'tecniche'; ma quando aveva compreso quanto davvero potesse con quella sua capacità, con quel suo continuo indugiare in pensieri e dubbi, allora aveva deciso che non era bene permettere che tutto accadesse senza controllo, che non era giusto che tutti dovessero conoscerlo come un diverso cui bisogna, in qualsiasi modo accada, riconoscere un riguardo particolare. Così s'era assicurato un po' di viver lieto, un po' di persone che poteva considerare sue amiche, così aveva potuto vivere in mezzo alla gente, incontrare realtà differenti, aprirsi all'esperienza di vivere anche la propria vita, e non solo tutte quelle vite narrate nei libri o sognate nei giochi di un bambino solo con se stesso in una camera.
E solo aprendosi al mondo, solo 'controllando quel suo potere' era riuscito a iniziare a ricordare, finalmente in grado di accumulare emozioni sue, vissute proprio sulla sua pelle, sensazioni genuinamente provate in attimi vissuti.
Ma tanto cresceva il varco aperto sul mondo, altrettanto cresceva lo spazio occupato dai momenti di isolamento, quei momenti in cui si chiudeva in sé, con sé e con tutte quelle persone che avevano deciso tempo prima di lasciare ai posteri un qualche pensiero nascosto in qualche libro. Se da un lato la 'mondanità' lo inghiottiva sempre di più, ora che i diciott'anni lo avevano reso un giovane studente liceale, tutto preso nei suoi studi e costretto all'incontro di tante e tante persone, dall'altro lato quella stanzetta, chiusa dalla porta con un poster di Gauguin appeso, lo richiamava sempre più spesso, lo costringeva a momenti sempre più intensi di solitudine, lontano dalle voci e dal cianciare della gente.
Non odiava affatto la gente. Ma troppe volte si sentiva asfissiato da tutte quelle persone, non perché lo soffocassero con le loro parole, o perché lo assillassero con le loro preoccupazioni, ma perché tutti quegli incontri lo danneggiavano, gli scavavano dentro un vuoto sempre più grande: ogni incontro significava una storia che si raccontava, perché ogni persona, in fondo, portava con sé - Francesco se l'immaginava così - sulle proprie spalle una sorta di sacco di patate dalle dimensioni enormi, alto fino al cielo, tutto bitorzoluto; in quella iuta tutti i momenti si muovevano come pesci nella rete e, muovendosi, aggravavano ancora di più il peso che opprimeva il povero tapino. Tutto ciò lo urtava, non riusciva a non provare a prendersi qualcuna di quelle 'patate', magari una di quelle che più si muoveva con agitazione e foga, nel proprio sacco, così da alleggerire l'altro misero nel suo cammino. Ma tutto questo, si capisce, è deleterio, e ormai sulle spalle di Francesco gravavano troppe storie, troppi frammenti che non riusciva a placare in alcun modo. S'era fatto l'idea, però, che la solitudine e il silenzio lo aiutassero in una certa, strana, maniera, quasi che quel suo sacco fosse come un bambino, che quando è con altri discoli è anch'egli discolo, ma che quando è solo, preso in disparte, in una stanza silenziosa, lontano dai rumori del gioco frenetico, è un angioletto che si muove con tutta l'innocenza che si possa immaginare, e pare una creatura celeste per la semplicità con cui fa qualsiasi cosa.
Quindi si rintanava tra quelle quattro mura e, in silenzio, lasciava che tutto si calmasse, rallentasse. Prendeva un nuovo o un vecchio libro e riempiva la sua testa di nuovi pensieri e rinnovate emozioni che, però, non s'aggiungevano al peso delle fatiche altrui: ciò che gli veniva dai libri era qualcosa di suo soltanto che, stranamente, non gli pesava affatto.
Ormai era una ricerca continua dell'equilibrio perfetto in quella sua esistenza di ritiro e bagni di folla: stava ben attento che ogni incontro pieno di vita fosse subito riparato da un periodo di pace e silenzio, solitudine e isolamento. Non contava nient'altro che questo: la ricerca dell'equilibrio. Bastava che qualcosa, qualche piccola, minuscola, insignificante virgola fosse di troppo da una parte, non compensata dall'altra, e si scatenava la tragedia. A volte era una tragedia evidente, con un'esplosione manifesta in quella che molti avrebbero definito follia, ma che, per gentilezza, i più chiamavano stranezza; a volte, e forse questi momenti erano i peggiori, l'esplosione rimaneva celata al mondo, avveniva dentro e solo dentro, senza che nemmeno una piccola scintilla fuoriuscisse da lui: il tormento era allora molto più insopportabile perché tutto si concentrava nei limiti del suo cuoricino, che lui percepiva come vicino a infrangersi in mille bricioline finissime, come la sabbia di una spiaggia lontana talmente sottile da scivolare via.
In questi momenti nemmeno i libri aiutavano, nemmeno la musica, nemmeno l'arte. Solo il tempo, solo il passare delle ore tristi e dolorose riusciva a fare qualcosa.
E Francesco era proprio in una di queste ore straziate. Chino su se stesso, seduto sul suo letto con le mani sulle ginocchia ossute. Non osava muoversi per paura che qualsiasi movimento lo avrebbe costretto a piangere: sentiva le lacrime smaniose di crollare sulla sua pelle stanca. Il sole illuminava un parallelogramma di pavimento poco lontano dal suo piede sinistro e Francesco era quasi tentato di allungarsi fino a scaldarsi almeno quel piede. Ma non cedeva alla sua tentazione. Era troppo concentrato su come non crollare. La mattina l'aveva passata tutta in compagnia, tutta insieme a tanta e tanta gente sorridente, con voci squillanti e ben sveglie. Aveva sorriso e riso, s'era molto divertito anche lui, contento di conoscere persone nuove, incontrare tante giovani vittime che pensavano di scegliere il liceo classico dopo le medie. Ovviamente aveva scherzato con i suoi compagni, prima che arrivassero le famiglie, sul fatto di sconsigliare a tutti di iscriversi in un luogo simile, ma poi, altrettanto ovviamente, tutti avevano svolto il loro compito di buoni pubblicitari, tentando di raccontare solo le parti belle - purtroppo ben poche - di quel percorso tra Latino e Greco.
Ma dopo una mattinata simile ora era prosciugato, ogni forza lo aveva abbandonato e lo aveva lasciato lì, un corpo inabile a qualsiasi cosa, incapace anche di respirare: ogni volta che inspirava, sentiva come tante palline scivolargli lungo la gola, costringendolo a boccheggiare alla ricerca di altra aria, nuova aria, aria un po' meno crudele. Gli occhi sbarrati, intenti a non guardare nulla, erano gli occhi di una persona sconvolta, gli occhi di quelle persone che scoprono una verità straordinaria e impossibile che li lascia esterrefatti, muti, immobili. Dietro a quello sguardo, però, sussultavano tante gocce salate, pronte a precipitare in pianti disperati e straziati. Non pensava. In tutto questo Francesco non pensava, era semplicemente incantato, rapito in quella condizione così particolare. Non riusciva a pensare, ma, in fondo, non aveva neppure senso pensare: a cosa avrebbe potuto pensare? Su cosa avrebbe dovuto concentrarsi? Lui non s'accorgeva nemmeno di crollare in momenti simili: accadevano, e basta. Mentre gioiva con la gente, incontrava le loro storie e ascoltava le loro vite dimenticava cosa avrebbe significato quello che stava facendo, non ricordava che ogni parola di quegli istanti sarebbe 'ritornata', trasformata in un minuto da passare in quello stato orribile di solitudine e disperazione. Poi tornava a casa, c'era quel momento di silenzio ed ecco che precipitava in questa condizione, incapace di continuare a esistere. Solo dopo del tempo, solo dopo che la 'pena' era stata scontata, si ricordava cosa aveva provocato in lui quelle sensazioni, cosa lo aveva costretto a quegli attimi di dolore.
Per ora non pensava, immobile. Tutto attorno a lui continuava la sua esistenza, tutto attorno a lui fluiva con delicatezza, forse qualche crudeltà, l'atrocità dell'uomo colpiva oltre quelle quattro mura, ma lui non era nulla, anzi, era un vuoto.
Disperato, terribilmente disperato, ma senza alcunissima ragione, dunque ancor più terribilmente disperato.
Dall'alto lo guardavano due occhi, uno sguardo sensuale e morbido. Un corpo di donna mollemente adagiato su morbidi tessuti, nudo, fascinosamente sdraiato in una piccola riproduzione su una qualche rivista. Non gli importava: era insensibile alla bellezza, non poteva gioire, come avrebbe fatto altre volte, di fronte a quelle forme perfette, a quella delicatezza intrigante; non c'era nessuno a guardare quell'immagine, gli occhi di Francesco non avrebbero mai potuto alzarsi su quella bellezza: erano ciechi.
Squillò il telefono.
Chi poteva essere? Forse sua madre - di solito telefonava sempre a quell'ora del primo pomeriggio: un po' dopo che Francesco era rientrato, un po' prima che si mettesse a studiare dopo il pranzo (stavolta, tuttavia, Francesco non aveva affatto mangiato: tornato a casa s'era subito immobilizzato non appena aveva indossato i suoi vestiti di casa).
Doveva muoversi. Non poteva lasciar suonare il telefono a vuoto: nel caso fosse stata sua madre avrebbe probabilmente iniziato ad agitarsi, avrebbe iniziato a telefonare ai vicini, al nonno, alle zie, a tutti chiedendo notizie.
Fu un'impresa. Non appena si mosse di un millimetro, sentì il colpo rivoltarsi, nauseato da tutto, pronto a crollare su se stesso, soccombere sconfitto. S'obbligò alla ricerca del telefono che squillava riempiendo l'appartamento di trilli fastidiosi. Trovò il cordless sul comodino vicino all'ingresso, perso in mezzo a chiavi e volantini di qualche ristorante cinese o di un paio di pizzerie d'asporto.
«Pronto?» azzardò cercando di controllarsi, sedendosi contro lo stipite della porta del salotto.
«Ehi! Francesco» squillò la voce di sua madre dall'altro lato del telefono.
«Ciao» disse freddamente Francesco: le guance gli tremavano, le labbra gli tremavano, le palpebre gli tremavano. Tutto tremava e le sue labbra si mossero per abitudine, senza intenzione, impaurite.
«Il mio capo arriva tra poco:dovevo solo dirti che c'è del pollo in frigo, l'hai visto?»
«No»
«Non hai ancora mangiato?»
«No»
«Ma cos'hai? Stai bene? Stamattina è andata bene?»
«Sono stanco» e mentre diceva queste parole gli diventava sempre più difficile respirare: le lacrime pretendevano di crollare e rigargli il volto. Voleva piangere, non solo doveva, ma quasi ne aveva voglia, quasi avesse un atroce desiderio un po' perverso.
«Oggi pomeriggio rilassati un po'. Alla cena ci penso io. Ciao, mi raccomando!»
«Ciao» confermò, spento, a sua madre. Chiuse la chiamata e si lasciò scivolare lungo il pavimento del corridoio.
Ecco che iniziava quel momento tanto particolare: chiuse gli occhi e abbandonò tutti quei colori che lo circondavano, quel carosello di immagini vorticose. Inspirò profondamente e finalmente aveva davanti a lui solo l'oscurità.
Perché piangere? Che cosa lo spingeva a piangere in quei momenti? Insomma aveva riso, s'era divertito tutta la mattina, era stato un piacere, scherzare con i propri compagni, e adesso era così …
A volte aveva pensato che gravasse su di lui una qualche maledizione. Una strega, forse, gli aveva scagliato contro un certo incantesimo mostruoso, ma per quale ragione lo aveva fatto? Cosa aveva spinto quella megera a maledirlo in quel modo orribile? Quale cosa scontava con quella condizione?
Odiava quella sensazione: avrebbe preferito essere felice di essere felice con la gente, e invece no, perché qualsiasi cosa facesse nel mondo lo condannava a quelle lacrime.
Spesso aveva riempito pagine e pagine con interrogativi simili, tormentandosi alla ricerca di una qualche misera risposta. Non c'era, non c'era da nessuna parte quella stramaledettissima risposta: era condannato, non c'era nulla da fare per lui.
Nell'oscurità affiorò un'ombra. Un'ombra nel buio? Sì, un'ombra nel buio! Com'era possibile tutto ciò? Un'ombra, sì, un'ombra avanzava nell'oscurità: le lacrime erano adesso lontane e nell'oscurità di quegli occhi serrati non c'era spazio nemmeno per quelle solite lucettine (che potrei definire stroboscopiche!) scintillanti. In quella tenebra solo un'ombra, un volto che non ricordava di avere visto altrove, un volto che non conosceva, forse, ma che gli era familiare. Ma cosa vedeva? Non vedeva niente, in effetti; semplicemente sapeva che quello era un volto buono, che quella silhouette era uno sguardo gentile nella notte. Gentile? Sì, gentile.
A poco a poco scomparirono le domande.
Dopo un po' Francesco dimenticò anche l'ombra che era emersa nei suoi occhi serrati. Non c'era più niente: l'odio per quella sensazione terrificante, anche quello era scivolato via, e perché? Perché era evaporata la sensazione terrificante stessa! Se n'era andato tutto. Rimaneva solo lui.
Quello che si potrebbe definire "attacco" (di panico, o di qualsiasi altra cosa) era finito. Tutto finito. Le vertigini se n'erano andate e rimaneva solo un vaghissimo ricordo.
A poco a poco aprì gli occhi. Si sentì molto coraggioso. Era addirittura riuscito ad aprire gli occhi. Si sentiva la pelle attorno alle palpebre bruciare: sentiva sulla carne il rossore dell'irritazione, sentiva il rossore delle lacrime che si essiccavano all'aria. La fronte, che aveva stretto per cercare di non riaprire più gli occhi, gli dava fastidio. I denti li aveva stretti troppo forte e sentiva le gengive come perforate da mille chiodi. La mascella stretta era l'ennesimo dolore fisico di quel momento.
Quando ebbe aperto gli occhi scoprì di essere ancora in grado di respirare. Un filo di aria sbottò fuori dalle labbra strette e la bocca, impastata, ricominciò a liberarsi della troppa saliva, del troppo calore accumulati nel pianto.
Ritornavano, adesso, le domande: perché sentirsi così? Perché quell'insensato bisogno di piangere?
Con la forza che trovò sotto i polpacci - ce n'era ancora un po' laggiù - si tirò su in piedi e andò in camera sua; qui si sdraiò e guardò il soffitto. Ritrovò i ricordi di quando era bambino, di quando, addormentandosi, vedeva fluttuare sulla propria testa un mondo meraviglioso, fatto da creature leggere e profumate, simpatiche e gentili. Gentili? Sì, gentili. Quel mondo erano le sue fantasie, quelle fantasie che da tanto e tanto tempo si portava dietro, quelle fantasie che tanto amava e in cui continuava a rifugiarsi quando ce n'era bisogno.

Perché quell'insensato bisogno di piangere? Qui, nella città delle fate, Francesco non se lo chiedeva più, perché qui Francesco non piangeva.

sabato 6 febbraio 2016

FOGLIO SULLA SOLITUDINE #2

Non sono solo. Me lo hanno raccontato e sto iniziando a crederci. Non sono solo. Continuo a sentirmi solo, questo sì, e continuerò finché esisteranno barriere necessarie tra me e certe persone cui sono particolarmente legato. Sì, oggi la solitudine è questo, è sapere che qualcuno c'è, ma non poter apprezzare appieno questa presenza, perché altrimenti tale presenza scomparirebbe, diverrebbe assenza. Oh, che confusione, ma è così: vicino a me stanno persone buone e gentili, e qualcuna ormai è veramente significativa (che parola assolutamente inappropriata: non esprime minimamente l'importanza che hanno queste persone!), tuttavia queste persone sono sempre divise da me dalla mia insensata necessità di loro, dal mio malato bisogno di sentirli nella mia vita.
Non sono solo, e questo è vero, perché è così, perché ho scoperto che c'è una creatura straordinaria, anzi, ci sono più creature meravigliose che riescono a scaldarmi il cuore, riescono a lanciare i loro raggi di luce fino al mio covo scuro. E ringrazio per questi incontri miracolosi, ma la solitudine continua a regnare, perché ci sono tre persone, le tre più vicine, che non riesco a lasciare entrare: se entrassero completamente scoprirebbero qualcosa che li allontanerebbe. Come ne posso essere così sicuro? Perché ciò che nascondo è una scintilla, e loro sono come cisterne di liquido infiammabile: quella sola scintilla e tutto scoppierebbe, tutto andrebbe perso. Io, carne viva, mi brucerei, rimarrei scottato e niente più potrebbe rinfrescarmi, non stavolta. Perché così catastrofico? Perché so di non essere solo, ma so anche che quando azzardi, che quando pensi a te e non a ciò che fa bene o male agli altri, allora diventi davvero solo, anche quando sei in mezzo a tante altre persone.
Tengo per me un segreto, ecco cos'è la solitudine, è circondarsi di segreti, non perché si abbia piacere ad avere segreti, ma perché si desidera che gli altri possano vivere più o meno serenamente, non scossi da un qualcosa di solamente tuo. Il mio segreto, non lo conosco solo io: una parte l'ho raccontata a qualcuno, ma il centro di questo mio segreto, il nucleo più nascosto solo io lo conosco, è un brandello di me che a nessuno ho consegnato.
Ho riempito un'altra pagina di stupidaggini. Stupidaggini che sento, stupidaggini che provo e che mi palpitano nel cuore. Non ho dormito stanotte, perché ho pensato al mio fallimento: mi ero impegnato a vivere in maniera sana le relazioni che mi salvano dalla mia solitudine. Sono riuscito solo a immergermi nuovamente nel mio isolamento.
Ah. Sono solo, e sono stanco, anche se non sono solo e potrei correre dieci chilometri già adesso: sono solo nel senso che non sono con chi mi fa bene al cuore; sono stanco nel senso che le forze per portare a termine ogni mio obiettivo mi stanno a poco a poco lasciando.
Ah, qualcuno c'è e non sono solo, ma sono lontano.
Dimenticavo: perdonate la mia stupidità.

giovedì 4 febbraio 2016

PRIMO DICEMBRE DUEMILAQUINDICI - sogno

Be', come iniziano non l'ho mai capito: l'unica cosa certa (forse) è che ti sei svegliato e anche dalla notte hai un ricordo da conservare. Un ricordo che, a ben pesarci, è fatto di una materia ancora più fragile del solito, perché se già di per sé i ricordi sono quasi inconsistenti, i sogni sono ancora più diafani, impalpabili, inconcepibili anche. è bello che siano così eterei, fatui, tuttavia proprio perché sono fatui, io spesso mi irrito, perché non è giusto che cose così meravigliose vadano smarrite da qualche parte nell'insensatezza di una memoria che non vuole ricordarsi determinate cose! E allora si prova a fare così, a prendere un qualche supporto - i tecnologici hanno i computer, mentre qualcuno, più poeta nel cuore, forse, non può rinunciare alla meraviglia della carta e di una penna che scricchiola un poco mentre lascia giù i proprio inchiostro - si prova a descrivere con le parole di questo mondo ciò che è venuto da una realtà completamente differente, lontana dai giorni e dalle vite quotidiane di tutti noi.
Ecco, ci provo, provo adesso ad appuntarmi lo spettacolo perfetto e straordinario che ho vissuto in qualche attimo - indeterminatissimo - questa notte. Oggi è il primo dicembre. L'inizio di un mese così santo e importante, il mese della preparazione e, in fine, della gioia più grande. Oggi è il giorno di iniziare a dirsi: è vicino, il Natale, e festeggeremo un Bambino che ha cambiato - questo lo possono ammettere tutti, senza alcun problema - l'intera storia dell'umanità. Oggi è dunque un giorno in cui il mio spirito si allunga tutto, tutto proteso verso un certo evento che attendo con qualche ansia - mi si dica che sono un bambinetto, ma è così!
Stanotte ho dormito poche ore rispetto al solito. Tornato tardi da una sera in cui abbiamo provato una bella canzone su ciò che davvero può contare nella vita, mi sono rannicchiato nel lettuccio con i piedi freddi, gelidi anzi, l'uno stretto all'altro, pallidi. La luce sul comodino l'ho spenta lanciando, tipo foca, una mano. Buio. Ero talmente stanco che mi sono addormentato subito - mi pare. Questa è proprio una cosa che odio, il fatto di non essere mai al cento per cento sicuro di qualcosa. Tutto quello che dico deve essere sempre preceduto, intervallato e seguito da un megagalattico "forse"!
Ho, però, trovato un modo per tentare di raccontare il mio sogno. Poche parole. A volte purtroppo aggiungerò, ma questo accadrà solo perché adoro perdermi nelle descrizioni.. adoro smarrirmi e perdere tempo. Ecco tutto.

Un messaggio. Cosa c'è scritto? Non lo so. Mi deve parlare. Ci incontriamo .. quando? Boh! Ci incontriamo, e basta. Siamo lì e parliamo. Di che cosa parliamo? Boh. Sto bene, incredibilmente bene. Sei qui e io sto bene. Parliamo. Di cosa parliamo?
Si stringe a me, mezzo spogliato. Solo slip chiari contro il mio corpo, contro la mia gamba sinistra. Il suo petto sente la mia carne. Io ho su i pantaloni del pigiama blu. Lui solo un paio di slip chiari. Il corpo nudo. Bello.
Lo respingo. Lo respingo e ..
Mi sveglio.

Mi riaddormento. Si stringe ancora a me, come prima, ancora ho i miei pantaloni del pigiama blu. Stavolta, però, non sono affatto imbarazzato: lo lascio fare. è con me. Il suo corpo sul mio. Siamo soli. Io e lui. Insieme.

martedì 2 febbraio 2016

VENERE 1^ parte

Durante la notte si era rigirato in continuazione senza riuscire a prender sonno, oppresso da mille perplessità, da infinite ansie. I piedi si erano mossi tutta notte tormentandosi a vicenda, sfregando l'uno contro l'altro, raschiando con le unghie i polpacci e le lenzuola. Talvolta accavallava le gambe, ma dopo poco doveva cambiare posizione, per non grondare infinitamente sudore.
Il sonno giunse solo quando l'ora del giorno era molto vicina: fu un sonno improvviso e brevissimo, quasi un battito di ciglia; non fece nemmeno tempo ad accorgersi che era addormentato che il suono della sveglia lo obbligò ad alzarsi.
Rassegnato, stanco solo di essere stanco, sollevò pesantemente la testa dal cuscino caldo e accese la luce. Ritrovò il consueto disordine della sua camera, lo stesso disordine di quando la luce la aveva spenta, la sera prima. Sul tavolo crescevano quattro pile di libri (tutti i suoi libri di scuola): un piccolo libriccino sopportava il peso di altri libri di storia e letteratura, e il tutto pareva estremamente instabile, traballante, pronto a collassare da un momento all'altro; una delle pile, invece, pareva più un'antica zigurrat. Si trascinò al tavolo e ricordò di quali libri avrebbe avuto bisogno quel giorno: filosofia, filosofia, greco, italiano, scienze, greco … che giornataccia!
Dopo aver svuotato la cartella, la riempì: aggiunse qualche foglio bianco (magari avrebbe trovato la voglia - poiché di tempo ce n'era abbastanza - di disegnare).
In cucina qualcuno stava già facendo colazione; scese anche lui e lasciò dietro di lui la luce accesa e la porta chiusa.
Dopo la solita colazione silenziosa (un bicchiere di latte accompagnato da un paio di inconsistenti 'buongiorno' o 'ciao'), andò in bagno: eccola là, quella solita faccia sbattuta, quell'espressione monotona e annoiata, noiosa e banale, attraversata da profonde occhiaie stanche. La pelle, biancastra, smunta, rimaneva attaccata quasi per miracolo a quella faccia stufa. Sì, era proprio la solita faccia da zombi che quello specchio gli offriva ogni mattino, ed era ora di compiere quell'incantesimo che tutte le mattine produceva il miracolo: aprì l'acqua e la lasciò scendere un po'; mentre aspettava che si scaldasse, si lavò i denti, sfregando ben bene per cancellare l'alito della notte insonne. All'ultimo risciacquo, subito dopo lo sputo, il dito che aveva lasciato sotto il getto avvertì il caldo di cui aveva bisogno. Con le mani giunte raccolse dell'acqua e poi, finalmente, v'immerse la sua faccia: una delle sensazioni più piacevoli che il Buon Dio abbia concesso agli uomini; il calore passa dall'acqua alla pelle e dalla pelle quel calore scorre, con il sangue, nelle vene. Un brivido, allora, sconvolge ogni nervo e la goduria è infinita!
Probabilmente avrebbe passato l'intera giornata così, ma presto la coscienza si ripresentò e sussurrò sottovoce al suo cuore di smettere di sprecare tutta quell'acqua.
Risollevo il capo e … miracolo: le occhiaie c'erano ancora, ma ora non attraversavano il viso con la crudeltà di poco prima; la pelle s'era rinvigorita e adesso il colore non ricordava più il vomito pallido dei neonati, quei rigurgitini di latte donati, così affettuosamente, ai maglioncini delle madri. Un po' di stanchezza sembrava essersi sciolta nell'acqua calda, sembrava essere scivolata via nello scarico, giù con il dentifricio e lo sputo. Ah … un miracolo davvero.
Tornò in camera sua, dove, ad accoglierlo, trovò quell'odore caldo e vivo, l'odore di una notte e di sospiri affannati, quell'odore di calore, ansie e dubbi.
Non ci volle molto tempo perché fosse pronto … quando uscì di casa il sole a malapena iniziava a sbirciare da oltre l'orizzonte. La nebbia gravava umida per le strade e le persone si muovevano bardate contro il gelo dell'inverno. I fari delle automobili tagliavano a fatica quella coltre bagnata. Bastavano pochi passi e un sottile strato di goccioline si depositava sui vestiti, sui capelli, sulle guance.
Mirco camminava al solito, con la musica nelle orecchie. Le sue labbra si muovevano lentamente ricordando le parole che ormai conosceva come il proprio nome. Quelle erano le canzoni di tutte le mattine, quelle tracce che qua e là aveva ascete per i più disparati motivi e che aveva messo l'una dopo l'altra, per potersi dimenticare, quando le sentiva, di ciò che c'era attorno.
All'angolo, là, si sarebbe fermato e avrebbe atteso, come sempre, Dario. Lui sarebbe sceso dopo qualche  minuto, preceduto dal solito messaggio "Sto arrivando"; avrebbe aperto la porta di vetro con il solito sorriso eccessivo e il suo saluto si sarebbe sentito lungo tutta la via.
Intanto nelle orecchie cantava una voce di donna, una calda voce di madre che si struggeva per un amore eterno, ma impossibile; quella canzone gli era da sempre cara, ma era entrata solo recentemente nella playlist mattutina, solo quando la cantante era morta, per il dolore di milioni di fan.
Proprio mentre la canzone raggiungeva le sue note più strazianti e addolorate, il corridoio s'illuminò e dalle scale saltò giù Dario. La cartella parve a Mirco troppo leggera, ma, probabilmente, Dario non aveva intenzione di seguire granché le lezioni.
«Buondì» esplose sorridendo Dario, mentre, placidamente, Mirco si stappava le orecchie.
«Ciao ..» sorrise, ma era già stufo: non aveva proprio voglia di andare a scuola.
«Oggi che hai?» chiese l'altro mentre si incamminavano fianco a fianco verso il centrocittà.
«Una giornata inutile .. spiegano - lo disse come se non fosse affar suo il fatto che spiegassero - io cazzeggerò tutto il giorno mi sa: guarda il cellulare!»
«Io ho una verifica alla seconda, ma per il resto …: cazzeggio totale; ho anche due ore buche!»
«Fanculo!»
«Ti voglio bene anche io» rise rumorosamente.
Ormai s'erano avvicinati al parco immerso nel silenzio umido della mattina invernale. Degli alberi si vedeva qualche tronco nero, le chiome spoglie salivano, invece, invisibili, inghiottite da tutto quel bianco. A intervalli regolari le luci dei lampioni si sprigionavano faticosamente in sfere umide e l'effetto creato da quelle goccioline invisibili era strano .. un po' assurdo.
«Alla fine ieri a che ora sei andato a dormire?» chiese Dario, allegro.
«Ho guardato il film fino alla fine del primo tempo, poi sono andato nel letto e ho giocato con il telefono .. non so fino a che ora …»
«Io, invece, dopo averti scritto ho spento subito: ho dormito un sacco!!»
C'era eccitazione, tanta eccitazione nella voce di Dario, un'eccitazione assolutamente inopportuna: il suo amico camminava mogio, il parco sospirava in quei vapori gelidi e bagnati e lui, riposato e solare come sempre, parlava pieno di vita, incapace di cedere alla mestizia di ciò che lo circondava.
«Hai sentito Vittoria poi?» tornò all'attacco Dario.
«Mentre guardavo il film messaggiavamo un po' … le solite scemate; poi lei è andata a dormire e io dopo poco mi sono messo a giocare nel letto: sta un po' addosso ...»
«Ma va?!? è una cozza rompicazzo, è ovvio che ti stia 'un po' addosso'!!!» e a queste parole la reazione non poté essere altro che una grossa risata di Mirco.
«Non dire così - disse, cercando di rimediare alla sua stessa risata - a volte è un sacco dolce e tenera ..»
«… mmm - fece l'altro, pensieroso - sì: a volte è tenera … solo che sono più le volte in cui rompe i coglioni!»
Il parco era ormai finito e la strada tagliava il viale con il flusso di automobili di fretta. Oltre la strada il centrocittà si snodava fradicio.
Pian piano e luci oltre la coltre di nebbia cresceva e tutto s'illuminava di un biancore lunare; a poco a poco la luce dei lampioni diventava meno necessaria e, quando i due amici furono arrivati al lato opposto del centro, davanti alla scuola, i globi appesi tra un albero e l'altro nel viale si spensero, inutili.
Già qualcuno s'affollava qui e là in piccoli gruppetti, chi intento a ripassare prima di una verifica, chi a parlare della sera prima, chi a parlare di un nuovo pezzo di quella gnocca …: nessuno rimaneva solo, anche chi era isolato in un angolo in realtà stava messaggiando con qualcuno.
«C'è Sara! - disse Dario indicando un gruppetto di zoccolette per nulla infreddolite, orgogliose delle loro coscione avvolte in leggins improponibili - ma come cazzo s'è vestita?!»
«Non indicare! Già di figure di merda ne facciamo abbastanza …» lo riprese Mirco con un sorriso mentre andavano incontro a un gruppetto tutto intento a discutere dell'ultima eliminazione di Masterchef.
Quelle persone erano la classe di Mirco, dove ogni mattina Dario mollava il suo amico, almeno fino all'intervallo, quando si ritrovavano davanti alla macchinetta del caffè.
«A dopo!»
«In culo alla balena, per la verifica!»

«… speriamo che non caghi!!»