giovedì 28 agosto 2014

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‘Cosa lasciamo al mondo? L’impronta che ognuno di noi fissa sul suolo del mondo c’è, ma non si vede, forse perché la Terra è uno spazio troppo grande? Forse perché la nostra impronta è in realtà un nulla? Forse non la lasciamo questa famosa impronta … la scienza ci dice che ne lasciamo una, misurabile e in un certo qual modo definibile: ciò che mangiamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che utilizziamo, tutto ciò che viene a nostro contatto in qualche modo è un segno che noi lasciamo, probabilmente non c’è ‘l’etichetta’ su quello che lasciamo e nessuno saprà che sono stato proprio io a lasciare quel segno, ma qualcosa rimane … ma è l’unica impronta, questa, che io posso sognare di lasciare su questo mondo? No io non ci credo, non credo affatto che questo sia quello cui sono destinato! Io non ci credo! Io credo che lascerò qualcosa, che io debba lasciare qualcosa …
Ho letto Dostoevskij, e si parla di coloro che ‘hanno il diritto di commettere delitti’, poiché sono personaggi grandi, e il delitto, per loro, non è altro che come una formica, fondamentale per la sopravvivenza del formicaio (=l’opera), ma irrisoria rispetto alla grandezza di questo formicaio! L’esempio è Napoleone!
Ebbene io voglio essere un Napoleone, voglio che la terra tremi sotto i miei piedi, che la gente dica il mio nome, non con paura, ma con rispetto! Voglio che le persone sappiano la mia vita, mi conoscano, abbiano il desiderio di sapere tutto di me, voglio combattere per tenere nascosta la mia privacy, voglio … voglio il mio nome scritto sulle insegne, voglio il mio nome diffuso come una macchia d’olio, e vorrò non poter riposare in pace, quando i miei giorni saranno finiti, perché mi rimpiangeranno, ancora vorranno che io rimanga con loro!
Sono egocentrico, sono pazzo, forse, ma voglio la fama, la gloria, il ‘trionfo’ dei cesari, le lodi dovute a un divo … pazzia? Forse, sì forse è pazzia … non è giusto, l’ambizione non è cosa buona, ma posso io rinnegare ciò che nel mio cuore grida, urla come un lupo alla luna, e intanto proprio il mio cuore si strazia, si dispera per ogni successo dell’altro … sì sono geloso, invidioso, avido, ma non riesco a controllare questo, non riesco … non mi riesce! Io mi odio per questo, ma nello stesso tempo … non posso farci nulla … so che è un errore questo mio morboso pensiero, ma è incontrollabile: la sera, prima di dormire, mi faccio l’elenco delle cose in cui fallisco, delle cose in cui ‘devo’ essere perfetto, l’elenco della mia gloria. Ma forse propri questi sogni sono d’intralcio a ciò che essi stessi contengono. Mi perdo nei voli della fantasia e non stringo nulla, non possiedo niente, rimango un miserabile. Un miserabile. Proprio ciò ch
e odio di più, in realtà e ciò che sono a causa di questo mio odio! È un circolo vizioso, e mi pare infinito, incontrollato e incontrollabile.
Disperazione!
Ah! Che odio in questi momenti in cui prendo coscienza che tutto quello che ho non è aria, non fumo, ma direttamente nulla!
Ma io sarò qualcuno, devo essere qualcuno, altrimenti mi logorerò in eterno e nella tomba, invece che non riposare per i richiami di quelli che mi ricordano, sarò talmente miserevole e miserabile che nemmeno i vermi oseranno attaccare la mia carne!
Odio!
Odio! Odio!
Questa è una malattia, forse, molto probabilmente, ma non so se ho il desiderio di guarirne, in fondo è piacevole anche questa sofferenza. Mentre scrivo ciò mi ritorna ancora in mente Dostoevskij, un po’ mi sembra di rileggere le parole dell’inizio delle ‘Memorie del sottosuolo’ … ma io non sono il sogno di un grande scrittore, io sono proprio io, sono un essere vivente in carne ed ossa che si strugge.
Io mi struggo per la mia orrenda esistenza, che in realtà (e di questo me ne accorgo nei pochi momenti di lucidità che questa ‘malattia’ mi concede) non è affatto orribile: sono amato (credo) e potrò evolvere.
Ma comunque il desiderio irrazionale mi pervade e mi stravolge. Non è giusto! La consapevolezza di avere un problema non è affatto un passo in avanti verso il suo superamento, se tale problema è in realtà così amabile agli occhi!
Ma anche questo, in fondo, è frutto di quel desiderio insano, figlio di questa mia malattia che mi colpisce da qualche tempo.
Disperazione!

Ah! Che piacere questa disperazione che mi strugge!’

BELLO .. E BASTA

Il 28 agosto del 1749 nasceva un grande della letteratura tedesca e mondiale: Johann Wolfgang Von Goethe. Questo il mio regalo per il suo compleanno.
J.D.

Camminava lungo il margine del bosco, non lontano dalla casa, proprio dove la montagna inizia a salire verso le altezze più vertiginose. Qui la montagna si apre, dietro quella pianta di mirto, in una grotta, un anfratto stretto e scomodo, che anche i pipistrelli rifuggono ed evitano. Lui camminava verso casa, ma quel giorno qualcosa gli urtò l’orecchio, un rumore leggero, come una goccia d’acqua che cade in una bacinella. Si avvicinò alla pianta di mirto e la scostò, liberando il passaggio verso l’oscurità più opprimente. Di nuovo quel suono, allora inspirò e fece un passo sotto la volta di roccia fredda e il suo occhio fu abbracciato dalle tenebre. Da dietro di lui qualche raggio arrivava ancora oltre la soglia della grotta e fu questa la sua via in quell’oscurità sconosciuta. Di nuovo quel rumore. Questa volta il rumore si era fatto più intenso, più vicino e lui si guardò intorno e notò, proprio un passo davanti a lui, a malapena sfiorata da un raggio di luce, una pozza di acqua. Era nera quell’acqua ai suoi occhi, eppure lui sapeva per certo che quell’acqua era limpida; non l’aveva toccata, quell’acqua, ma lui sapeva che era fresca. Si chinò, per attingere da quella fonte naturale, nascosta nella pancia della montagna, e immerse le sue mani, unite a coppa, in quel liquido che ora, effettivamente, scoprì freddo. Bevve. Poi si appoggiò, inginocchiato com’era, con le mani ai bordi di quella pozza così affascinante per la sua giovane mente e avvicinò il suo viso all’acqua. Ecco che allora la luce, quella poca luce che riusciva a penetrare le tenebre, sbatté violentemente sul suo viso rinfrescato, lo accecò e lo lasciò per un attimo come gli agnellini appena nati, timoroso di aprire gli occhi.
Pochi li aprì, la luce che lo baciava dolcemente, e fissò il suo sguardo su quell’acqua fresca e limpida. C’era un altro, dall’altra parte, che lo fissava, lo scrutava, indagava i suoi occhi verdi. Lui tentava di capire chi fosse quell’altro, ma non gli riusciva di comprendere da dove venisse. A un certo punto smise di scervellarsi sulla possibile identità dell’altro e lo osservò, attentamente: i suoi lineamenti erano proporzionati, i suoi capelli avevano un gradevole ciuffetto ricciolo che gli copriva la fronte e in parte un occhio, la sua bocca era aperta in segno di stupore; indossava un bel gilet, di velluto, sopra una camicia, larga e vaporosa, elegante, corti calzoncini al ginocchio. Era bello, tanto bello. C’era qualcosa in lui di affascinante, di seducente, qualcosa di straordinariamente sensuale in quel suo sguardo stupito e incuriosito. Era bello, inspiegabilmente bello. Bello e basta. Lui si rese conto che qualcosa in lui si agitava, una sensazione di calore e gelo al tempo stesso, un’emozione! Un sentimento! Sì! Non sapeva cosa fosse, non avrebbe saputo spiegarlo a nessuno: era giovane e non sapeva cosa fosse Amore.

Caravaggio, Narciso

martedì 26 agosto 2014

DOVUNQUE C'E', MA COS'E'?

 Filosofi e pensatori, tutti si sono posti almeno una domanda su uno dei misteri più belli (perdonate se sembrerà un gioco di parole): la bellezza.

Soprattutto dopo un violento temporale estivo l’aria della città è fresca e sana, un vero piacere: se l’acqua giunge a confortare dalla calura graditissima, l’odore e l’aria che rimane quando l’acqua ha smesso di cadere, nelle anime grandi, lascia una certa sensazione goduriosa … ed è proprio in uno di quei momenti, quando l’asfalto restituisce all’aria sotto forma di goccioline fine la pioggia abbondante, che la nostra storia ha inizio. Forse Dante e Dostoevskij non saranno d’accordo, ma Aurora era davvero un’anima grande, uno di quegli spiriti grandiosi che talvolta camminano sulla terra: non avrebbe mai portato innovazioni né scientifiche né filosofiche, mai sarebbe divenuta una generalessa capace di sottomettere mezzo mondo, neppure avrebbe rappresentato l’origine di una nuova religione, ma ella era davvero uno spirito grande, un’anima elevata. Mentre un cinquantenne in canotta e calzoncini sciabattava nelle sue infradito lei sedeva davanti alla vetrina: si era fermata lì aspettando che il temporale finisse, tanto non doveva fare nulla, non aveva impegni.
Mentre pioveva aveva osservato un bambino che si era messo a correre felice sotto l’acqua violenta che cadeva sul sagrato della chiesa che le stava davanti: il viale era semideserto e la piazza che si apriva tra lei e l’edificio sacro era, fino a poco prima della tempesta, ingombra di gente. Il bambino era contento, allegro come non mai, probabilmente era uno dei sogni della sua ancor breve vita. Era solo, nei suoi sandali sporcati qua e là dall’erba, correva di qui e i là, senza apparente ragione per scegliere ora la destra ora la sinistra; era come se volesse prendere ogni singola goccia, come se tentasse di non perdere nemmeno una di quelle lacrime del cielo. Gli occhi erano praticamente chiusi, strizzati per non far entrare l’acqua dentro, la bocca spalancata verso le nubi e le braccia aperte come fosse un aereo.
‘E se andassi anche io? – si diceva Aurora tra sé – probabilmente mi prenderebbero per matta! Ma che importa poi? Che pensino pure ciò che vogliono! No, forse è meglio evitare … ma perché, in fin dei conti sono fatti miei di quello che faccio! No, meglio rimanere qui seduta … aspetto … aspetto che smetta di piovere’
E intanto la pioggia cadeva, violenta e fresca, le gocce si precipitavano giù veloci e si abbattevano in tanti piccoli tuffi per terra.
Una donna poi era venuta a richiamare il bambino; questi parve non sentirla per un po’, poi fu obbligato a seguire il suo ordine e rientrò dalla madre.
‘Ma non smette più di piovere?’
E finalmente, dopo qualche minuto, smise e agli occhi di Aurora si presentò la scena che è descritta poco sopra.
Si alzò, tra la pianta nuda del piede e i sandali penetrò dell’acqua: era tiepida, scaldata dall’asfalto rovente del marciapiede.

Un vocio sostenuto invadeva il lungo corridoio, riempiendo l’ambiente di vita e animando quelle antiche pareti. È curioso come anche coloro cui importa poco e niente di antiche e preziose tele in alcuni luoghi rimangano in un certo modo scioccati: dura un attimo, poi magari si riprende a essere indifferenti, ci si mette a gridare e a sbraitare da una parte all’altra, ma c’è sempre quell’attimo, quell’istante in cui tutti i sensi si annullano improvvisamente e rimane solo ciò che si ha davanti agli occhi, tutto si cancella e scompare per un momento a favore di un inaspettato spettacolo.
I busti antichi si allineavano ordinati, ognuno sulla sua colonnina, ognuno con il suo bello strato di polvere sopra, ognuno con la sua piccola targhetta al fianco, o subito sotto l’ascella. I vetri si affacciavano sulla via sottostante e di lì si osservava l’immane ressa di gente che premeva per accedere a quel tempio particolarissimo dove erano raccolti secoli e secoli. Le porte che si aprivano verso i saloni e le sale erano spalancate, pronte a vomitare gente nel corridoio o a inghiottirne all’interno. Gauthier era arrivato in città da due giorni e si era dedicato a ‘esplorare’ le strade, ad andare in cerca delle meraviglie evidenti, ma allo stesso tempo sconosciute dei vicoli e delle piazzette più nascoste. Poi si era finalmente deciso a dedicarsi ai musei, alle gallerie, alle collezioni e allora eccolo lì, con il suo opuscoletto preso all’ingresso, gli occhiali inforcati per cogliere meglio ogni dettaglio minuto: si era concesso quattro ore per quell’impresa. ‘Esagerato!’ potrebbe pensare qualcuno, eppure per Gauthier quattro ore erano anche poche: il francese aveva un modo tutto suo per affrontare un museo, un modo particolare.
Inspirò e mosse il primo passo.
Ogni tela, ogni scultura antica, ogni pittura, ogni pennellata, ogni cesellatura, tutto si incise profondamente nella sua memoria, anzi, sarebbe meglio dire che ogni tela, ogni scultura antica, ogni pittura, ogni pennellata, ogni cesellatura, tutto si incise profondamente ed eternamente non nella memoria, ma nel suo cuore: quelle opere d’arte, se per chiunque erano solo oggetti da osservare e – qualora piacciano – lodare, per lui erano amanti, donne cui rimaneva legato da una passione effettiva, corporale, sensuale; ma non erano compagne di una notte, non erano passioni passeggere, lussuriose e peccaminose, no!, erano amori ‘completi’, amori veri.

William ricordava bene, dopo averle viste tante e tante volte, quelle linee e quelle forme straordinarie … in particolare gli era rimasta impressa un’immagine, una sorta di ‘quadretto’ che avrebbe ben potuto diventare una di quelle fotografie che fanno diventare arcinoto un reporter. Davanti a una capanna - una di quelle che nella foresta si costruiscono provvisoriamente, perché si vive in viaggio, sempre in movimento – vicino a un mucchietto di foglie larghe e chiare, una donna, nuda completamente eccetto che per una sorta di straccio – ricordo di un contatto con gli ‘occidentali’ – drappeggiato in maniera scomposta sul pube, con a fianco un bambino - non più di otto anni – senza nulla addosso, con un’aria imbarazzata, mentre si mangiucchiava un ditino sottile. La donna aveva i capelli corti, rasati, la sua pelle marrone chiaro era stranamente pulita, nonostante fosse esposta alla natura più superba … il suo collo era lungo e liscio, il suo sguardo fisso e serio, indagatore, ma anche rabbioso, arrabbiato. La bocca era serrata nel silenzio, ma l’impressione era che la sua lingua avesse in realtà troppe cose da dire! Il seno di lei era cascante, pendeva dal suo petto, attirato dalla terra e nulla resisteva alla forza attrattiva del pianeta. Il suo bacino era ampio, ma magro, non troppo – fortunatamente – ma magro … le sue gambe erano storte, i piedi nudi affondavano nell’erba bagnata.

Il bambino era nudo, la sua vergogna non era coperta come quella della madre. La pancia era gonfia e l’ombelico sporgeva. Un po’ di bavetta gli usciva dal lato della bocca mentre si ciucciava il ditino. I suoi occhi erano un po’ spaventati, ma in realtà anche curiosi, intelligenti, vispi.  William li aveva osservati a lungo, appena arrivati al villaggio e nonostante la povertà, la miseria della scena era rimasto senza fiato, immobile, in silenzio.

giovedì 21 agosto 2014

QUANDO A PARLARE SONO I GIOVANI

Quando a parlare sono i giovani spesso si ha l’impressione che non siano abbastanza ‘non giovani’ per esprimere un’idea degna di attenzione. Insomma è come se la loro età (anche se sarebbe meglio dire il loro status) non permettesse loro di avere una mente adatta a ragionamenti di senso compiuto. Pare quasi che la gioventù non possa concepire altro che idiozie.
È curioso che quando a parlare sono i giovani gli ‘adulti’ fanno esattamente ciò che rimproverano, cioè fanno entrare le parole da un orecchio e le fanno immediatamente uscire dall’altro, senza nemmeno tentare di fissarle per qualche istante nella mente.
Ovviamente non tutto il ‘mondo adulto’ appare sordo alle parole dei giovani, perché altrimenti sarebbe davvero come vivere vite separate, ma parallele, tuttavia ai giovani pare che queste persone ‘udenti’ vadano via via scomparendo, lasciando il posto ad un’orda di gente che necessiterebbe di un apparecchio per l’udito!
Ma perché sarebbe importante ascoltare questa gioventù?
Be’ perché forse la gioventù ha qualche idea stramba che in realtà potrebbe risultare utile alla vita reale, perché spesso è dai sogni infantili che ritornano alla mente dopo molti anni  che nascono grandi invenzioni e straordinarie creazioni, perché forse sono proprio i giovani a dover poter decidere cosa sarà del domani che in fondo apparterrà a loro. E infatti, su quest’ultimo punto, sembra ci siano maggiori problemi di sordità: tutti i ‘grandi’ sembrano sicuri di cosa desiderano i giovani, senza, però, provare a conoscere davvero i loro sogni, senza preoccuparsi realmente delle loro paure, delle loro domande.
Quando a parlare sono i giovani torna spesso comodo tappare le orecchie, perché a volte le denuncie che questi cuori sentimentali fanno sono un po’ fastidiose, perché a volte le proposte che questi animi ribelli avanzano sembrano rivoluzioni. Ma i ‘grandi’ potrebbero imparare che non è con la sordità che questi desideri si plasmano, anzi: sogni rivoluzionari e sovversivi, se inascoltati da giovani e ragazzi, divengono scopi di una vita, diventano pensiero fisso di adulti malati e arrabbiati, disposti a tutto!
Quando a parlare sono i giovani non è mai tempo perso, perché son
o le discussioni dei giovani che potranno modellare idee di domani, sono le conversazioni dei giovani che creeranno i caratteri di domani, sono i litigi di oggi che creeranno le speranze di domani!

In Italia la gioventù è spesso sfiduciata, ancora più spesso arrabbiata. I giovani non sono altro che piccoli adulti che si barricano dietro a muri di ira e sconforto, e spesso cedono a piaceri che divengono vizi, poi malattie, poi cause di morte. Fatalismo? No! Semplicemente una rapida rassegna di quella che è una situazione triste e trista: ci sono lacrime, ma ci sono odi ancora più abbondanti delle lacrime!
Cosa fare? C’è un rimedio immediato a tutto questo?
Certo che no! Non esistono i maghi, non esiste la bacchetta magica, non c’è la fata turchina che finalmente ci trasformerà da burattini di legno in bambini veri, ci sono solo dialoghi, incontri, crescita, esperienze.
Ormai non si tratta più di un periodo nella vita dei giovani in cui ci si ribella all’ordine costituito, non si tratta più dell’adolescenza che poi passa e va: la rabbia e la ribellione sono sempre più duraturi, sempre più ‘aggrappati’ ai cuori dei giovani, che paiono rimanere ‘giovani’ per più tempo.
Che mondo!
Ma in fondo tutto il mondo va così!
E, dunque, dovremmo noi rassegnarci a questo mondo, a questa realtà che – evidentemente – non funziona?!
No! Non dobbiamo, ma, soprattutto, non possiamo! Il mondo va forse giù per un pendio verso il baratro? La soluzione non è arrendersi alla discesa, ma tentare di tirare i freni, di sistemare davanti alle ruote degli ostacoli perché il baratro non ci inghiotta!


Quando a parlare sono i giovani … si trovano parole come quelle che avete appena letto. 

martedì 19 agosto 2014

IL GABBIANO

Rafi sedeva un po' stufo e ormai non ascoltava più nemmeno una parola. Di cosa parlava quell'uomo? Iperbole? No, forse è una parabola. Boh.
Rafi aveva iniziato bene: la parte alta della pagina era un'ordinata sequenza di numeri e simboletti, tutti attentamente disposti l'uno dietro l'altro; poi la mano era diventata più affaticata: i sette si confondevano con i quattro, i più diventano via via uno scarabocchio cruciforme irregolare, spesso a dire il vero più simile a una T maiuscola. Qui c'erano i primi disegnini. Ancora si scendeva e il foglio diventava il palcoscenico per una sfilata di strane facce buffe, con nasi enormi, occhi a palla, labbra gonfiate come canotti; qui ogni tanto una parola faceva capolino tra capelli arruffati e manine con quattro grasse dita: BASTA!
- Che ore sono? - chiese Giada al vicino.
- Mancano due minuti - le rispose Rafi dopo aver sbirciato il cellulare nascosto nell'astuccio.
E i due minuti passarono, anche se sembrarono secoli, e la campanella, quel suono soave e amato da migliaia di migliaia di studenti, suonò. Si alzarono tutti e uscirono quasi tutti; Rafi rimase in classe, lui, Giovanna, Antonio. In tre. Il professore uscì dopo pochi attimi, giusto il tempo di raccattare tutti i suoi fogli e i suoi registri. 
- Pensavo di ucciderlo! - esclamò Giovanna
- Avessi sentito ancora una volta la parola 'ascissa' mi sarei buttato dalla finestra! - rispose Antonio, e insieme a Giovanna rise di gusto, fu una risata grassa, di quelle che sono fondamentali per liberarsi da quello strano tipo di stress che si accumula quando i professori parlano e parlano e parlano in continuazione in una lingua che sembra straniera, di cose che sembrano assurde.
Rafi non rise, ovviamente. Era da un po' che non gli riusciva di ridere, di essere davvero felice e di godersi una bel AH AH AH! Cosa gli succedeva? Sicuramente se avesse rivisto la maestra Pina, che gli aveva insegnato matematica alle elementari, lei lo avrebbe ricordato come un discolo, un birbante confusionario, estroverso, divertente, vivace. Dov'era quel bambino? Oggi Rafi era solitario, silenzioso, introverso per la maggior parte, amava in particolare quei pochi momenti in cui in casa rimaneva solo, il silenzio che saliva dal pian terreno alla mansarda. 
'Quel bambino non sono più - avrebbe probabilmente risposto  Rafi - sono cresciuto ormai!' già perché sicuramente Rafi era cresciuto, se molte cose nella vita sono incerte, Rafi di questo era maledettamente sicuro, era l'unica sicurezza che in quel periodo aveva. 
Passò l'intervallo in silenzio, seduto al suo posto, scorrendo con il pollice la schermata del suo smartphone, controllando le notifiche di Facebook e Twitter, osservando le innumerevoli foto che qualcuno aveva pubblicate su Instagram. 
Stava per suonare il campanello per la seconda volta quando un ragazzo si affacciò alla porta della classe e si guardò un po' attorno: non ci mise molto a individuare la persona per cui era venuto.
- Rafi, puoi venire un attimo con me? - gli disse Carlo, un ragazzo della sua stessa età che frequentava la sezione che non faceva latino, ogni volta che lo vedeva il cuore gli si fermava per qualche attimo: era davvero carino. Con Carlo aveva anche partecipato a degli incontri in cui si parlava di attualità e Rafi era rimasto affascinato da quel ragazzo così pieno di genialità, così brillante. Ovviamente durante quegli incontri Rafi aveva sempre taciuto e ascoltato quel che veniva detto dagli altri, ma, inaspettatamente, un giorno Carlo gli si avvicinò alla fine di un incontro e avevano iniziato a parlare, a conoscersi a poco a poco Rafi era stato obbligato a raccontare al nuovo amico le sue idee. Decisamente era nata un'amicizia, di quelle che si vedono raccontate in serie TV americane che girano sulle nostre televisioni. 
Era un'amicizia curiosa, in cui spesso e volentieri uno dei due - ovviamente Rafi - taceva ogni suo pensiero pur di ascoltare le parole dell'altro. Non credo che a Rafi sia mai venuto il dubbio che fosse più che amicizia, che fosse un altro genere di affetto. 
Rafi raggiunse Carlo rapidamente, dopo aver lestamente messo in tasca il telefonino.
- Ciao Carlo! - sorrise Rafi
- Ciao Rafi, ti devo dire una cosa importante - il suo sguardo era cupo mentre parlava, non guardava negli occhi Rafi, ma muoveva il suo sguardo ora sulla sua maglietta, ora sulla finestra del corridoio, ora, imbarazzato, verso il bagno, si muoveva impacciato - cosa hai adesso? 
- Filosofia: arriverà sicuramente dopo; cosa mi devi dire?
- Vieni con me - e si incamminò ansiosamente giù dalle scale, scansando i tanti studenti che salivano verso le loro aule con bicchierini ricolmi di caffè e tè. 
Camminarono l'uno dietro l'altro e Carlo condusse Rafi vicino all'entrata della palestra, là dove c'è una sorta di piccola nicchia formata da due pilastri che sorreggono le pareti. 
- Allora - disse Carlo inspirando profondamente - devo dirti qualcosa, una cosa importante
Rafi tacque e guardò con un timido sorriso Carlo, invitandolo, pur tacendo, a proseguire.
- Bene, è da un po' che ci penso e ... beh stamattina alla prima ora abbiamo letto un articolo che parlava delle nuove famiglie, pubblicato uno sconosciuto su un giornale online ... mentre leggevamo mi sei venuto in mente tu che una volta mi hai detto che la famiglia per te non dovrebbe essere una prerogativa di un uomo e una donna e basta. Da questo pensiero mi sono fatto tutto un viaggio mentale e penso che se adesso tentassi di ripercorrerlo interamente probabilmente mi ritroverei una conclusione opposta a quella che ti sto per dire. In questi anni ti ho conosciuto solo perché ho voluto provarci e in questi ultimi giorni mi sono accorto che quello che ci lega è qualcosa di ben più forte di un'amicizia, è un legame più saldo e mi pare più profondo. Ecco, io non so se questo sia ... ecco non so se questo sia amore, ma io penso di essermi innamorato, innamorato di quei tuoi pensieri contorti che nei tuoi infiniti silenzi ti sei costruito, di quei tuoi sguardi che, se uno prova solo a decifrare, risultano più loquaci di mille  e mille parole, mi sono innamorato di quel rossore che ti affiora sulle guance quando qualcuno dice una parolaccia, di quella delicatezza con cui chiudi sempre il tuo astuccio. Rafi io credo di amarti.
Non si può esprimere la tempesta di emozioni che si scatenò nell'intimità di Rafi, in un certo senso tutto in lui si inceppò, come se fossero arrivate troppe informazioni e da qualche parte si fosse creato un ingorgo. Rimase in silenzio. Gli occhi sbarrati.
- Perché non parli? - disse ansiosamente e agitato, imbarazzato pure, Carlo.
Ancora Rafi non parlò e rimase immobile  e silenzioso, ancora imbambolato. Le lacrime iniziarono a spingere dietro agli occhi di Carlo e mancava poco che iniziassero anche a scendere copiose sulle guance quando Rafi parlò:
- Carlo ...
Rafi baciò Carlo, Carlo, felice, si lasciò baciare e baciò.

martedì 12 agosto 2014

UNA STORIA parte prima

Ti racconterò una storia. Non ti chiedo di chiudere gli occhi, perché basta solo che tu ti lasci guidare da queste parole per immaginare. 
La mia storia - mia perché te la racconto io, non perché mi riguardi in qualche modo - inizia in una grande città, che in effetti anche io ho visitato, una città famosa in ogni angolo del mondo - in effetti penso che anche le tribù sub-sahariane sappiano di questa città - ovvero Rio de Janeiro. Ma fidati se ti dico che quella città è davvero enorme, talmente vasta che è opportuna la distinzione di due diversi tipi di città: la Rio 'vip' e la Rio delle favelas. La prima è una città di immensi grattacieli che si arrampicano sempre più in alto verso il cielo, aggrappandosi spesso a quelle montagne di roccia nuda che caratterizzano il paesaggio ; è una città di persone ricche o benestanti, che giocano in borsa, che hanno uno studio legale o medico ben avviato, che insegnano in qualche importante facoltà del Brasile, che hanno ereditato chissà quale ingentissima somma di denaro dal nonno che allevava nel centro del paese. Le strade qui sono quasi lucide, hanno una strana luce, un'atmosfera particolare e non importa di tutti quei mendicanti che dormono a ridosso di qualche vetrina di banca, che si coprono di cartoni e stracci, che raccattano un misero pezzo di hamburger nei bidoni della spazzatura, che ringraziano con uno sguardo quasi severo coloro che per carità - o perbenismo - cedono loro qualche spicciolo o il loro avanzo. Questa la Rio 'vip'. Poi c'è la Rio delle favelas, quella di baracche troppo piccole per otto persone, quelle che non hanno acqua né scolo, che sono così spesso soggette ad incendi improvvisi, che accolgono droga, alcool, criminali, che custodiscono le piccole gioie di bambini che si rincorrono in mezzo ad adulti armati di pistole, senza problemi, senza preoccupazione. Questa Rio è quella, anche, di edifici che sembrano i nostri condomini, ma che all'interno nascondono realtà contraddittorie, curiose a volte: all'interno A abita un commesso di una delle banche della Rio 'vip'; all'interno B, invece, sullo stesso pianerottolo, vive una vedova con quattro figli che vive della carità della chiesa; all'interno C, poi, abita una coppia di anziani che vive con una misera pensione, ma vive. 
Ma torniamo alla mia storia, e allora torniamo nella Rio 'vip', nelle grandi strade trafficate, sui bei marciapiedi piastrellati, davanti agli innumerevoli negozi delle griffe europee, torniamo in quella parte di Rio de Janeiro che si affaccia sulle belle spiagge, scegli tu quale: Ipanema, Leblon, o l'arcinota Copacabana? Scegli tu, per la storia è uguale.
Scelta la spiaggia, muoviti da lì, procedi lungo i bei marciapiedi decorati con onde grigio scuro e bianco, sotto le file di palme che decorano la strada, costeggiando il mare da una parte e i grandi alberghi dall'altra. 
Cammina pure, procedi respirando con calma e osserva la spiaggia: cosa vedi? Ovviamente vedi una delle immagini più famose del Brasile: giovani muscolosi e abbronzati, con quegli occhiali tecnici che ormai così pochi usano nella nostra vecchia Europa, che giocano a pallavolo. Non giocano a calcio, quello è un gioco che non si fa spesso in spiaggia, no, giocano a pallavolo: la pelle sudata è coperta dalla sabbia che ha catturato quando è stato possibile recuperare una palla solo gettandosi sui granelli caldi.
Respira, prendi prepotentemente, avidamente una boccata d'aria, respira l'aria dell'oceano che in lontananza - perché la spiaggia è davvero immensa - senti arrendersi in onde davanti alla resistenza della terra ferma. 
Respira e cammina: hai indosso un paio di infradito, e la sabbia, che un po' si è accumulata anche sul marciapiedi, ti si insinua sotto il calcagno, tra la tua pelle e la plastica delle Havaianas.
Man mano che procedi, incontri un chiosco di bevande e panini, ma la 'specialità' che ogni turista come te deve provare, è il cocco! Costa poco, solo cinque reais - un real vale trenta centesimi di euro! -. Il 'barista' prende una grande sfera verde, ammaccata qui e là di segni marroni, un grande machete e tac, tac, tac: tre colpi, violenti, ma sicuri aprono un triangolo ad una estremità. Il 'barista' ci infila una cannuccia e sei servito.
Il latte di cocco è fresco, vero? Scende con il massimo tuo piacere giù per la gola e quando la sorsata è finita, sei soddisfatto, dissetato! Indubbiamente è dolce, quasi appiccicoso, ma non è nauseabondo, è ... piacevole.
Riprendi a camminare, con il tuo cocco in mano, le infradito ai piedi, la brezza dell'oceano sul volto. 
Ora inizia la storia.

CONTINUA ...

martedì 5 agosto 2014

3^ LETTERA A G.

20 luglio ----
Troppo distante G.
dopo nemmeno ventiquattro ore sono di nuovo qui con la penna in mano e indirizzo queste pagine a te. Scrivo di nuovo solo perché purtroppo non mi è possibile impedire che tu legga tutto ciò che ti ho scritto nella precedente lettera. In effetti vorrei che tutte quelle parole non te le abbia mai spedite! Non perché dicano il falso, né perché io tema ciò che io ho affidato a quei segni neri, ma solamente e semplicemente perché non mi sembra giusto caricarti di tutti quei miei pensieri: io penso di averti finora sfruttato, abusato, ritenendoti un amico io ti abbia sovraccaricato di miei sfoghi spesso infantili. E questo mi dispiace. Semplicemente mi fa sorgere un pianto intimo, nel cuore e mi dispiace.
Ma ora sto, nel tentativo di cancellare i precedenti pesi, aggiungendo ancora carico su di te e – nonostante sia poco sopra – ti prego di dimenticarti di tutto e di pensare che io sto bene, di immaginarmi sereno e in pace, stravaccato sul letto a leggere qualcosa o spaparanzato al sole montano.
Mi piacerebbe sapere come vanno a te queste vacanze.
Ho appena immaginato come tu ti stia divertendo in qualche spiaggia con i tuoi amici e come la sera vi trasportiate di discoteca in discoteca a bere e divertirsi, a sentir remix di ogni genere e a farvi qualche bella ragazza che probabilmente non rivedrete mai più. AHAHAH! Vedo già: tu con il tuo cappellino scemo e gli occhiali da sole anche se ormai la notte è scesa da un pezzo! AHAHAH!

Ma io, anche dopo questa breve parentesi leggera, non riesco a non tornare il solito smielato e proprio questa tua immagine mi stupisce e mi sconvolge: come è mai possibile che io veda in te una persona a me così vicina e cara? Tu sei diverso da me, in tutto e per tutto, non c’è nulla di me che si possa ritrovare in te, nulla che ci possa accomunare, che ci possa unire, eppure …
Eppure so che sei l’unico cui io abbia detto certe cose, l’unico cui io abbia confidato certi pensieri, l’unico cui io abbia affidato certi miei segreti. E le nostre conversazioni, seppure rare, non sono mai, inspiegabilmente, su una ragazza o il tempo, no!, perché se anche il discorso inizi da lì poi si finisce sempre su altro, su i massimi sistemi, su questioni enormi, giganti, ‘filosofiche’ – come possono essere ‘filosofi’ dei ragazzi ancora troppo acerbi forse, come noi –
Le nostre parole non rimangono mai infime e vuote, discorsi banali e monotoni, ma in qualche modo – e lo dico con un certo orgoglio di me e di te – le nostre parole si elevano sempre. Ma questo è anche triste un poco. Sì, perché ogni nostra conversazione si compone di domande complesse e intime, e queste, spesso, non appena vengono pronunciate, diventano dolorose; non so come spiegarmi ma credo che tu abbia capito cosa intendevo dire: ogni volta che parliamo in un qualche modo, nel consolarci – soprattutto tu a consolare me –, ci rattristiamo, ma questa tristezza, una volta sopraggiunta, inspiegabilmente non ha bisogno di una seconda consolazione, una nuova comprensione, no!, rimane di per sé già consolata e anche – non so se è giusto dirlo, ma mi viene in mente solo questo modo – soddisfatta.

Ora mi impegno e torno ‘frivolo’, ritorno a occuparmi non giù di questioni elevate, ma di fatti più ‘terreni’.
Non so se ti dissi già, qualche altra volta, del mio desiderio, un giorno, di riuscire a comporre un libro. Questo è un altro dei miei più remoti desideri e quindi ho iniziato a scrivere, proprio qualche giorno fa, una sorta di racconto lungo, di romanzo breve.
Ho immaginato – poiché qualcuno disse che i giovani  scrivono solo di quello che conoscono direttamente – una storia d’amore tra due ragazzi che nasce in un liceo.
Ora che ci penso in realtà questo non è affatto qualcosa che conosco, visto che non ho mai ‘avuto una storia’ con qualcuno, ma tralasciamo.
Dicevo.
Una storia d’amore. L’idea mi è venuta – chissà poi perché – mentre ascoltavo una canzone e a poco a poco le immagini di questa storia si sono presentate da sole: ‘jeans aderenti’. Questo il titolo. So che molti consigliano di mettere il titolo alla fine dell’elaborazione – lo dicono anche per i temi – ma io credo – e lo faccio anche nei temi a scuola – che, se uno mette prima un titolo, poi sa di cosa vuole parlare e non rischia di perdersi immediatamente in storie secondarie e assolutamente incoerenti! Certo, se dal progetto si ‘disvia’, ma alla fine ci si accorge di aver creato qualcosa di notevole e non assurdo, be’ allora si torna all’inizio e si cancella il primo titolo; ma perché devo farmi problemi se è nato prima il titolo del racconto?!
Comunque.
In questi giorni sto lavorandoci su, ma penso che sarà un duro lavoro soprattutto perché ho ancora da dedicare parecchio tempo a fare compiti su compiti!
Ma sono determinato: la storia mi piace e mi ispira, è quello che in un certo senso ho sognato anche io e quindi forse riuscirò anche a concludere qualcosa, per una volta!
Ma ti farò di certo sapere come procede la stesura e appena potrò ti invierò qualcosa.
Ti abbraccio.

J.