giovedì 29 maggio 2014

CONGEDO DA UN AMICO

14 marzo ----
Al mio amico *****,
credo sia arrivato il momento di essere sincero, di aprirsi completamente e di non trattenere più nulla, di liberarsi di ciò che ha oppresso. Sì, credo sia necessario, assolutamente necessario, indispensabile. 
Quello che sto per fare è un cambiamento, una decisione importante e forse potresti dire che non è giusto, che non ha senso, ma, ti prego, non pensare a questo, ormai ho deciso così ...
Ma prima di tutto, prima che tutto cambi, ti voglio dire poche cose, poche cose che posso riassumere in ancor meno parole: ciao, grazie, scusa. 

Ciao. Ciao perché questo è un saluto affettuoso, come sempre, come quando ti saluto fuori da scuola, quando ci incontriamo la mattina, quando ci si incrocia in centro. Un saluto caloroso, un addio fraterno, un arrivederci devoto. Ciao, però, è anche un augurio, un augurio per una vita migliore, per una vita che ti dia tutto quello che hai sempre voluto. 
Ciao, ciao a te che mi eri sempre vicino, a te che hai ascoltato, che mi hai parlato, a te che sei te e nessun altro!

Grazie. Grazie di tutto, grazie di ogni attimo, di ogni istante; grazie per te, perché ... perché nulla, solo Grazie! Come te non c'è nessuno, non esiste nessuno che sia anche lontanamente paragonabile a te. Tu, giorno dopo giorno, mi hai reso migliore, mi hai aperto una nuova visione del mondo, le parole che ci siamo scambiate sono state per me un confronto costruttivo. Sei stato importante, fondamentale! Grazie per avermi parlato dei tuoi amori, per avermi chiesto consigli, per esserti confidato, per aver discusso con me, per avermi permesso di conoscerti.
Scesa. Forse è la parola che dovrò spiegarti più attentamente. Scusa per questo e per il resto, per quello che sto facendo e che sto per fare, scusa per quello che ho fatto, per i tagli, per questa stramba idea, perché mi sono innamorato di te, perché ho imparato e mi sono educato a vederti solo come un amico, perché poi ti ho fatto sentire in colpa, come se effettivamente fosse colpa tua (me lo ha detto Sara:quando ci siamo sentiti io e lei mi ha raccontato tutto quello che le hai detto). Scusa per tutto. Ora vorrei solo poterti stringere la mano, come due persone che, dopo un incontro - e il nostro è stato davvero un lungo, intensissimo incontro, si congedano, l'uno dall'altro con una salda stretta di mano. Scusa. Ti ho voluto bene, davvero molto bene, ti ho amato in realtà, ma ora ti saluto come un amico, come un amico con cui hai condiviso pomeriggi all'allenamento, mattinate a scuola, domeniche alle partite, qualche sera in giro per la città.
Ciao, grazie, scusa.
Addio amico mio, 
addio amore mio, addio.

*****

martedì 27 maggio 2014

IL MOMENTO

È il momento, tutto culmina in questo, giorni e notti bruciati, sudore e fatica, sacrifici, tutto per arrivare a questo. Le luci lampeggiano, una, due, tre, quattro volte, poi un campanello attraversa i corridoi. Le luci diminuiscono la loro intensità e tutto scende nella penombra. Tutto è in silenzio, tutto attende. Una sola luce è ancora accesa, sfolgorante. Un piccolo cerchio di luce immerso nell'oscurità. Il parquet nero scintilla là dove è baciato dal fascio, tutt'attorno tutto è vuoto. I respiri pian piano rallentano e i battiti del cuore diventano sussurri profondi.
È il momento, quando tutto può cambiare e quando tutto può finire, per un nuovo inizio. È il momento. Hai faticato, hai sudato sacrificando ogni tuo istante, ogni tua forza, ogni tuo sogno. È il momento.
Cammini, il passo è leggero ma deciso. Le mani sono strette in due pugni nervosi. Le braccia rigide lungo il corpo. Il capo basso, osservi il cammino fino al cerchio di luce, cerchi un percorso sicuro, ma non si vede nulla, solo quel cerchio di luce: l’arrivo di tutto, l’inizio e la fine di tutto.
La luce è accecante, il faro puntato negli occhi ti impedisce di vedere la platea, le guance e la fronte iniziano a sudare: è ora.
Un pianoforte, quasi sottovoce, inizia a riempire l’ambiente, le note si susseguono armoniose, soffici, dolci. È adesso, inizi a cantare, il microfono che hai sulla guancia afferra ogni tua parola e la restituisce alla sala. La voce e il pianoforte vanno insieme, si accompagnano a vicenda, come se l’uno fosse indispensabile per l’altro e viceversa: l’uno senza l’altro non esiste. Le parole fluiscono da sole, sanno quando devono uscire, tu non devi fare altro che mettere te, entrare nella musica e lasciarti coinvolgere, lasciarti riempire. Le note e le parole sembrano compiere una danza perfetta. Poi è l’orchestra:il pianoforte e la voce tacciono, pochi secondi, per riprendere poco dopo, ma ora ad accompagnarli ci sono violini, arpe, viole, flauti, violoncelli, contrabbassi, oboi. L’emozione è la voce, ogni parola abbraccia mille note, ogni parola è abbracciata da ogni suono, la sinfonia di colori si condensa e una cosa sola è il risultato, non ha un nome preciso, ma quei suoni e quella voce sono una sola cosa, una solo unica e indissolubile cosa, una magia immutabile.
La platea è in silenzio, ascolta attenta, lei è partecipe silenzioso di quella magia sensazionale, di quell'incanto straordinario. I colli sono rivolti al cerchi di luce, le orecchie accolgono i suoni come in un abbraccio continuo, le membra si irrigidiscono nell'attenzione, i muscoli della bocca si serrano in una morsa nervosa: tutto su quel palco, non c’è null'altro, ci si dimentica di tutto perché tutto è lì, è un canto, una musica magica.
Tu continui a cantare, la tua voce viaggia con le sue compagne, note di mille strumenti. Tu continui a cantare, apri il petto per prendere fiato, alzi una mano lontana, emozionandoti; il tuo cuore pulsa incessantemente con ansia, mentre il tuo volto non nasconde i tuoi sentimenti, mentre i tuoi piedi sprofondano pian piano nel parquet, come se tutto si stesse sciogliendo. Continui a cantare, i silenzi e le parole, le note e le pause.
Sta arrivando, presto dovrai faticare per l’ultima volta, e quell'ultima fatica sarà tutte le precedenti e una sola, sarà quella che farà finire tutto, ma che stabilirà una nuova partenza.
I suoni crescono in intensità, il crescendo finale, la musica, che già riempiva il teatro, adesso inizia a premere sulle pareti, la sua potenza è troppo grande, è troppa l’energia, ma tu la segui, la rincorri, la raggiungi.
I muscoli sono tutti tesi, il cuore sembra fermarsi, le braccia sono aperte, il viso è rivolto al cielo. Ora è sparita la platea, ci sei solo tu e la musica, anzi solo la musica: ora tu sei parte della tua musica, null'altro.
Silenzio.
Grazie. Solo una parola esce dalle tue labbra mentre la platea applaude, le luci si stanno accendendo, non tutte, ma adesso il faro è spento e lui vede tutti, vede quei volti, qualcuno è emozionato, qualcuno è colpito, a qualcuno è solo piaciuto, ma qualcuno è cambiato, tu per primo. 

giovedì 22 maggio 2014

COME UN GABBIANO

"Dopotutto non mi è chiaro cosa sia una famiglia. Tante parole sento girarmi attorno: confuse, incoerenti. No, continuo a non comprendere cosa significhi famiglia. Mia mamma dice che famiglia è padre, madre, figli. Lei è cristiana, come me, ma lei crede che una famiglia sia tale con i figli. Le ho chiesto 'ma allora quelli che non possono avere figli?' e non sa, è stata confusa nel rispondermi. Io sono cristiano, ma io credo che la famiglia sia amore, un amore strano e curioso, che non è simile a nessun altro, ma che sia amore. Sia una complicità tra membri, una complicità insita nelle persone naturalmente, qualcosa che sfugge a qualsiasi altra persona che osserva da fuori, sì perché ogni famiglia ha un proprio amore. Io sono cristiano. La religione del Dio-Amore. Lei è cristiana. La religione di Dio-Amore. Ma allora perché abbiamo idee diverse di famiglia? Io penso che famiglia siano due persone che si amano. Lei dice che però i bambini o li dà la Natura - meglio dire 'il Buon Dio'-, o nulla. Ma allora non ha senso che i bambini li abbiano coppie terribili e inaffidabili, che i bambini siano soli al mondo, rinchiusi in orfanotrofi, che i bambini siano maltrattati dal loro stesso sangue. Perché un bambino non può avere due madri, perché non due padri? 'Il bambino ne rimarrebbe traumatizzato' mi dice qualcuno, beh io ti rispondo:'E questo è colpa di quelli come te! Se già la pensi così sicuramente guarderai quel bambino o con schifo, o con stizza, o con compassione, e allora sì, il bambino si chiederà: 'Cosa non va in me?'
No io voglio credere che la famiglia sia qualcosa di oltre. Non penso siano mamma e papà, figli e figlie. Mi rattrista un po'. Mi abbatte e mi sfianca. 
Sono cristiano, o almeno ci provo, però sono anche omosessuale. Già, sono omosessuale e quindi mi interessa, e anche a me appare scontato che io difenda una diversa idea di famiglia - anche se ci sono omosessuali che sono convinti di non avere il diritto a figli e patria podestà - però penso che gli omosessuali non meritino questa discriminazione, sì perché secondo me sarebbe proprio una discriminazione! 
Però penso. La storia mi insegna che - per citare impropriamente Mia Martini - gli uomini non cambiano. Sicuramente se ci rifletto mi spaventa che queste nuove famiglie dovrebbero vivere in questo mondo. Ma non è giusto! Perché ci sono gli stupidi, quegli ignoranti e odiosi, solo per questo tanti non possono essere felici?! Mi dispiace. Mi piange il cuore.
Ecco, mi ritrovo qui triste! Per colpa di questi ignorantoni io mi devo rattristare?! Mi sento come gli animalisti - ma anche una qualsiasi persona con un minimo di sensibilità - davanti a un gabbiano impantanato in una lordura di petrolio puzzolente. Vedo questi agitarsi in mezzo a persone che tentano di sottrarre loro un altro pizzico, l'ennesimo, di felicità. Mi dispiace. 
Rifletterò ancora però."

martedì 20 maggio 2014

1^ LETTERA A G.

9 marzo ----
Caro G.
dopo molti giorni di silenzio ti scrivo, ma non ti narrerò nulla della mia vita odierna, di ciò che sto passando in questi giorni. No. Voglio concentrarmi su un ricordo che mi sta a cuore. Mi è tornato alla mente in questi giorni perché si è festeggiato la Festa di Ognissanti e dei Morti, e il mio pensiero non ha potuto resistere a tornare a quei giorni. In particolare un giorno
Quel giorno era estate, una fresca e assolata giornata di estate montana. Il cielo era azzurro e limpido, qualche nuvoletta si profilava dietro le maestose forme del Cervino e del Tantanè, ma sulla Becca il cielo era sgombro. Una lieve brezza soffiava ad alleviare il calore del sole vicino, e con la sua delicatezza accarezzava le distese di fiori profumati, gialli, viola e rossi, blu, celesti e rosa. Il profumo di erba e campo riempiva l'aria. In lontananza risuonava un campanaccio, mentre i rumori della strada, i rumori dell'uomo erano lontani.
Ero un bambino felice. Quel giorno fu anch'esso felice. Quasi ogni giorno, eravamo soliti passeggiare lungo una breve strada che dalla casa, nella piccola frazione, scendeva giù per i prati della fattoria; arrivati alla fine di questa strada si godeva di uno spettacolo meraviglioso: ai propri piedi si poteva osservare il paese in fondo alla valle, con le sue piccole case dai tetti di pietra, con i diritti piccoli campanili delle cappellette; dinnanzi si apriva lo spettacolo del Tantanè e dello Zerbion, alte e maestose cime sempre immerse nella propria pace; verso sud si apriva la bella vallata che tuttora conduce alla città che segna il limite della valle del Cervino; e poi c'era lui, proprio il Cervino, maestoso e quasi solitario, avvolto nella sua aura di serenità, come fosse davvero un animale che osserva attentamente noi, poveri, vivere sulle sue enormi carni di pietra.
Quella passeggiata, in quel giorno così sereno, la percorsi con la nonna, madre di mio padre. Una signora forte, aveva cresciuto due figli e aveva perso il suo amato marito quando il secondogenito - mio padre - era ancora un bambino. Nella vecchiaia ci aveva viziati, sì, ma non aveva mai esagerato: era stata in grado di sgridarci quando occorreva, ma non aveva mai mancato di premiarci se ne fosse stata l'occasione. Amavo la mia nonna, una vecchina che sembrava sempre in bilico, ma che era poderosa.
Quel giorno camminammo lungo la strada sterrata e giungemmo dinnanzi allo spettacolo della natura con delle goccioline di sudore che ci scendevano dalle tempie. Mangiammo la merenda: aveva portato con sé una piccola brioche, perché potessi riposarmi e saziarmi. Lei stette a guardarmi e prese solo un piccolo pezzo della soffice tortina, sotto mia proposta - fosse mai che non offrissi qualcosa, altrimenti la mamma, anche se lì non c'era, che l'avrebbe potuta sentire?! -.
Allora presi un piccolo granello di zucchero e lo osservai tra le mie dita, piccole e delicate e curiose.
- Nonna, vuoi sapere da dove viene lo zucchero?
Mia nonna mi osservò pochi istanti, ma ora so che ragionò, cercò di capire cosa volessi dire, e cosa volessi sentir dire.
- Certo!
Mi aveva dato il via: iniziai.
- Vedi nonna, lo zucchero viene da questi sassi - e presi in mano uno di quei sassi bianchi e luminosi, a tratti quasi pezzi di vetro colorato, che così spesso e facilmente si trovano in montagna - e solo dopo un lungo lavoro è possibile mangiare lo zucchero! - presi ad indicare, man mano che spiegavo i procedimenti per la produzione, le varie vette che mi si paravano d'innanzi - Innanzitutto si raccolgono le pietre che vengono, con grandi camion, trasportati fino a quella montagna; lì tutto viene fatto in pezzi grossi così - e le parole furono accompagnate da gesti di spiegazione - e poi, sempre con camion, arrivano lì, qui vengono lavati tante volte e bisogna pulire bene i sassolini, se no … :non diventa bianco! Poi bisogna sminuzzare ancora i sassi e diventano più piccoli; allora è necessario rilavare i sassi che ora sono bianchissimi. Si deve trasportare tutto là, dove i sassi si mettono sotto la neve e ci devono rimanere per tanti giorni. Dopo questo periodo bisogna che, dopo essere stati trasportati tra quelle due montagne, i sassi siano ancora più ridotti e lavati, poi, finalmente, dopo ancora qualche giorno sotto la neve, lo zucchero è fatto!
Mia nonna, amorevolmente, era rimasta attenta, concentrata, tentava di capire la mia spiegazione e la comprese, mi fu in qualche modo grata della spiegazione che gli avevo fornito, perché in qualche modo l'avevo istruita.
Sono ancora grato alla mia nonna per quel giorno, per quegli attimi che passammo insieme dinnanzi a quelle mute sentinelle, così nascoste da apparire evidenti. Ho pochi ricordi con la mia nonna, perché ella morì che ero ancora piccolo, ma questo è senz'altro il migliore e il più completo. Ricordo il sorriso e le sue rughe, ricordo la sua mano nella mia e la sua debolezza-delicatezza. Quando penso a lei non posso che farmi qualche domanda, e spesso non trovo alcuna risposta, perché non solo le domande che mi pongo sono non facili a rispondersi, ma anche il mio pensiero corre sempre, inesorabilmente, rapido a quella donna.
Null'altro.
Spero in tue notizie al più presto.
Un caro abbraccio e un affettuoso saluto.
Il tuo amico, J.

giovedì 15 maggio 2014

QUINDICI MARZO CINQUEMILAQUATTRO

Questo è per festeggiare il compleanno di Arthur Schnitzler, che mi ispira. Uno dei miei racconti per un genio della letteratura mondiale. Grazie e auguri, signor Schnitzler.                J.D.


15 marzo 5004
Caro diario,

oggi sono stato in gita e non posso non dire di essermi divertito, ma questa gita mi ha fatto anche riflettere …
Siamo partiti prestissimo stamattina, all’alba eravamo già tutti seduti nell’astrobus e la maestra stava facendo l’appello. Chiamato l’ultimo, Zago, l’autista ha messo in moto e ci siamo sollevati sopra la scuola: che bello vedere tutti quelli che non erano venuti con noi camminare tristemente verso le aule per un’altra noiosissima giornata!
Dopo pochi attimi tutto era già diventato troppo piccolo sotto di noi perché si potesse ancora distinguere qualcosa, ma sopra di noi, a poco a poco, si apriva lo spazio infinito, l’immensa vastità sporcata da qualche stella solitaria, oppure illuminata qua e là da millenarie esplosioni. Mentre continuavamo ad allontanarci da casa Mic mi ha spiegato come si è formato il circolo di asteroidi – lo sa solo perché suo padre è astro geografo – e mi ha detto che il circolo è una delle zone più pericolose dell’universo e che solo i piloti più esperti dell'aeronautica spaziale che fanno parte dei Primi Soldati possono attraversarlo! Caro diario, mentirei se non ti dicessi che spero, un giorno, di poter attraversare quella schiera infinita di sassi e sassi e sassi, per l’eternità in corsa uno dietro l’altro.
Poi siamo entrati nel Sistema Csed, ovvero un sistema di otto pianeti che girano attorno ad una stella, ogni pianeta con un’orbita diversa: che bella vista! Uno dei pianeti sembra una pallina di pongo, macchiata da mille tonalità di arancione e rosso!
Ma noi eravamo diretti al pianeta G-Csed e ormai mancava poco, molto poco. Quando fummo abbastanza vicini, la maestra prese il microfono dell’astrobus e iniziò a parlare con quella sua voce monotona e un po’ irritante: “Stiamo per entrare nell’atmosfera di G-Csed, la quale ha subito numerosi cambiamenti nel corso degli anni, infatti ad oggi non rimane che un sottile strato di azoto quale atmosfera del pianeta. Ma oggi siamo qui perché sono state rinvenute numerosissime testimonianze di una civiltà estremamente avanzata sotto il profilo tecnico e tecnologico, una civiltà che è stata in grado di lanciare anche qualche sonda nello spazio, ma mai in grado di superare i limiti del Sistema Csed. Proprio ora stiamo atterrando alla Stazione Aerospaziale di G-Csed e saremo ospiti dei nostri compatrioti che qui fanno ricerca archeologica. Visiteremo il museo che è stato allestito con i numerosi reperti ritrovati e saremo guidati da un ex allievo della vostra stessa scuola …” La maestra terminava il suo sproloquio e noi toccavamo di nuovo terra; dalla porta dell’astrobus entrava il professor Mar, ex allievo della nostra scuola, dicendo: “Buon giorno e benvenuti a G-Csed. Oggi sarete miei ospiti e vi guiderò alla conoscenza di una civiltà che è misteriosamente sparita!” e a queste parole un ‘ohhhhh’ stupefatto riempiva le bocche di tutti noi.
Porca miseria! Devo interrompermi: mamma vuole che l’aiuti con la cena … continuerò dopo!
Eccomi! Ho appena finito di mangiare e sono pronto a riprendere il discorso, dunque … eravamo rimasti a … ah, sì!: il Museo di G-Csed!
Allora, il museo è un enorme edificio che si articola in infinite sale, in ognuna delle quali sono state raccolte le diverse testimonianze a seconda della categoria: c’è l’ala della vita familiare, l’ala della guerra, l’ala della scuola, l’ala del lavoro, ecc …
Mar ci ha portati subito nell’ala della guerra, infatti sapeva che noi non parliamo di guerre se non quando in storia si affrontano i capitoli delle Guerre Universali Intergalattiche; una volta arrivati al padiglione detto ‘Casa delle Armi’, ci ha raccontato di questi conflitti che, secondo quello che dicono gli storici – io non sono convinto di crederci – costarono la vita a milioni, MILIONI di persone!
Bah … non so se mi fido, comunque vi ha mostrato questa sorta di macchina NON volante che ha delle ruote – pensa te che roba strana! – che toccano terra e la fanno muovere!, e poi hanno delle cose sopra, come dei razzi a onde-Chi, ma che non sparano onde-Chi! Puoi certo intuire quanto fossi affascinato dal vedere tutti questi oggetti stranissimi e  - forse sembrerà sciocco – dopo tutto quello che avevo visto là dentro, solo in quella sala, pensavo di avere visto tutto il possibile immaginabile e inimmaginabile … assolutamente no! Ora capirai cosa intendo: finito il giro in mezzo a tutte quelle armi rozze, Mar ci ha portati in una stanza spoglia e ci ha fatto una sorta di discorsetto, questo il succo: “Ora avete visto qualcosa per noi molto difficile da comprendere, avete osservato armi assurde e inefficienti, balorde in un certo senso – qui ridemmo tutti, anche la maestra! – ma ora è bene che vi avvisi che ciò che state per vedere è qualcosa di ancora più strano e, in effetti, anche più terribile. … Noi non siamo certi di come questa civiltà ebbe fine, ma ovviamente gli studiosi hanno avanzato numerose proposte e ipotesi. Ad oggi una delle più accreditate è la seguente: successe un conflitto  tra gli abitanti di questo pianeta, un conflitto che non fu però economico o politico, bensì fu, e qui sta il mistero vero e proprio, spirituale …” e non terminò la frase, la lasciò così, a mezz’aria, non spiegò il termine spirituale, ma si limitò ad aprire la porta dietro di lui e a introdurci in un’altra enorme sala del Museo di G-Csed.
Qui non c’erano armi, solo curiosi oggetti di metallo o di ‘legno’ – non so cosa sia, ma Mar ha detto così e la maestra ha annuito – con forme e incisioni strane, modellati in pose assurde e insensate, senza seguire principi matematici o geometrici: strani contenitori scintillanti con una base larga e un collo sottile, inutili oggetti con sette bocchette rivolte verso l’alto – in realtà mi ricordavano molto un appendiabiti della nonna! –, assurdi incastri di ‘legni’ disposti a formare X, e così via … tutti guardavano estasiati, e allo stesso tempo un po’ timorosi, quegli artefatti così … così … così! Poi, dopo averci lasciato del tempo per esplorare un po’ in giro, Mar ricominciò a parlare: “Gli strumenti che vedete qui raccolti sono, per gli studiosi, oggetti utilizzati per attività particolari, proprie di questa civiltà, dette religioni  – tutti eravamo a bocca aperta e occhi spalancati, ansiosi di conoscere il significato di quella parola .. – una religione sarebbe un  sistema di riti e attività legati all’adorazione di una divinità .. – noi eravamo sempre più ammaliati e incuriositi – ovvero un’entità che questi esseri ritenevano essere onnipotente. La  spiritualità di cui parlavo prima, dunque, sarebbe questa credenza che il corpo non è ‘solo corpo’, ma anche qualcos’altro: spirito. Gli studiosi sono certi che di queste religioni ne esistessero parecchie, ognuna diversa dall’altra, e che tutte, o quasi (alcuni riti suggeriscono il cannibalismo e dunque la religione con tali cerimonie non rientrerebbe in questa categoria), professassero il bene e l’amore. E qui sta l’ennesimo mistero che avvolge questo pianeta: questa civiltà, come ho appena detto, avrebbe avuto fine per un conflitto tra queste religioni, le diverse idee religiose di ciascuno avrebbero provocato scontri e attriti insostenibili e alla fine tutto si sarebbe distrutto sotto le lotte intestine a questa civiltà … ma allora come è possibile che queste religioni, a quanto pare testimoni di pace e amore – e puoi immaginare, caro diario, come sia rimasto colpito da queste parole di Mar! -, abbiano dato origine all’odio, alla guerra, alla fine di tutto?”
Ora scusa … mamma dice che è ora di dormire, vado a lavarmi i denti.

P.S.
Ho dimenticato di scriverlo prima: Mar ci ha anche riferito che il pianeta che noi chiamiamo G-Csed quella civiltà lo chiamava ‘Terra’ … che strano, vero?!

Buona notte!

CHISSA'

"E dunque adesso che penso alla giornata appena trascorsa sono estremamente felice. Oggi ho avuto l'onore di badare a una decina di bambini. Li ho fatti giocare, correre alla luce del sole, ho creato per loro archi e frecce, abbiamo 'giocato alla guerra', o per meglio dire, una sorta di 'guardie e ladri', solo organizzato in un giardino stupendo, con un colle a dominarlo che usavamo come castello. Che bellezza! Poi abbiamo mangiato il pranzo. Dopo pranzo qualcuno ancora voleva giocare con arco e frecce, ma altri bambini si erano aggiunti alle varie bande: 'Al lavoro - mi sono detto - bisogna fabbricarne altri'; e allora che bellezza vedere quegli occhietti curiosi incantati sulle mie mani che facevano nodi e arrotolavano il filo ad un capo di un ramo un po' flessibile - ma non troppo!
Davvero un bel pomeriggio, decisamente, forse meglio della mattinata: prima di cena tutti i bambini correvano verso i genitori con un nuovo giocattolo, per nulla pericoloso inoltre!
Bene, una giornata davvero stupenda!
Ma non è stato questo il meglio, per nulla affatto quello che ho vissuto in tutta la giornata può eguagliare ciò che ho scoperto poco fa.
Abbiamo messo un film, un cartone animato, e tutti i bambini erano seduti sui tappeti con gli occhietti fissi sullo schermo luminoso. Tutti i bambini meno che uno. Sì lui era seduto sul tappeto, ma dava le spalle allo schermo e guardava il muro, osservava il muro: i suoi occhi, rapidi, si muovevano per tutta la parete avidamente, con rabbia quasi, in cerca di ogni minimo spazio di quella immensa superficie che io vedevo grigia nella penombra della stanza. Il bambino all'improvviso si alza e va verso il muro, inizia a toccare ora qui ora lì, con l'indice ben teso, schiaccia convinto e subito distoglie lo sguardo a osservare una nuova porzione di parete. Allora ho capito: là dove io vedevo uno sterile strato di intonaco lui vedeva pulsanti e pulsantini, forse addirittura di mille colori, e lui sapeva cosa doveva fare, sapeva quale fosse da schiacciare e in quale momento. Probabilmente stava salvando il mondo. Il bambino a un certo punto si fermò, disse qualcosa - sono sicuro che abbia detto qualcosa, magari non nella nostra lingua, ma lo ha detto! - e allora è sembrato sollevato. L'allarme a quanto pare era cessato. Si sedette di nuovo sui tappeti, ancora dava le spalle al televisore. 
Ora io non so cosa passasse per quel testolino biondo, cosa vedessero quegli occhi attraverso gli occhialini rossi, cosa abbiano toccato quei ditini morbidi, so però che ho provato gioia, so che sono stato felice. Attenzione! non ero allegro perché ridevo di lui, no!, semplicemente mi si apriva il cuore nel vedere quel bambino, mi si riempiva di gioia e diventava leggero, mi usciva dal petto. 
Adesso sono qui nella cameretta che mi è stata assegnata. Quel bambino probabilmente starà facendo disperare i suoi poveri genitori. Cosa provo? So solo che vorrei ancora che il cartone animato fosse ancora in riproduzione alla televisione, vorrei che tutti i bambini fossero lì davanti, con i musetti all'insù, e poi vorrei che il Bambino fosse tra loro, seduto con la schiena rivolta al televisore. Vorrei che quegli attimi si ripetessero all'infinito. Ripeto: chissà cosa pensava quel testolino biondo, chissà! Vorrei potere attraversare quei pensieri come si fa quando si entra in chiesa, entrare e camminare per la lunga navata.
Chissà cosa pensa quel bambino. Lui ha la sindrome di Down, è malato, eppure il suo mondo appare quasi... quasi... bello?! No, non lo so, non so nemmeno se è 'bello', so solo che pagherei tutto l'oro del mondo per riuscire a parlare con quel bambino, per dialogarci e capirlo, comprendere il suo mondo. 
Dormo, felice perché questa giornata è stata bella, ringrazio Dio perché mi ha fatto incontrare questo bambino."

martedì 13 maggio 2014

IL FIGLIO DELL'UOMO

Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?"
                             - dal Salmo Ottavo

Sulla Terra sbocciavano i primi fiori nelle terre d'Europa e del Nord America, mentre in Brasile e Sud Africa si affrontavano i primi venti autunnali. Ma, sopra tutto questo, tutto era stabile, a ogni latitudine, a ogni longitudine, nei cieli tutto era uguale. Sopra il Mediterraneo, sopra la valle dell'Indo, sopra le foreste del Rio delle Amazzoni, sopra i monti dell'Himalaya e sopra le steppe dell'Asia, tutto era luce e pace, tutto era armonia e perfezione. Le anime dei beati cantavano e innalzavano le lodi a Dio Padre, l'Onnipotente; i Serafini glorificavano il Nome di Cristo; lo Spirito viveva in tutti e tutti vivevano nello Spirito. 
Un angelo era seduto là, proprio in quel punto da cui si vede tutta la Terra, si vede tutta l'esistenza terrena. Era solo e osservava gli Uomini, osservava i giorni e le generazioni, incuriosito. 
«Cosa guardi?» gli domandò Dio
«Guardo - rispose l'angelo - e tu sai cosa, poiché a te nulla sfugge »
«Dici il vero, ma dimmi comunque, cosa guardi?»
«Guardo il tuo Creato, l'opera meravigliosa delle tue dita; e allora osservo il cielo e le stelle, mi perdo in quelle luci affascinanti che scintillano nell'immensità del cosmo che tu, TU solo hai ordinato!»
«Angelo! non scherzare con colui che ti creò e di' cosa stai osservando»
«Osservo le tue opere sulla Terra, osservo le piante e la natura, gli animali e le stagioni, la perfetta armonia delle cose che corrono l'una dietro l'altra, gli attimi che scorrono verso il domani!»
«Ti ammonisco una seconda volta: non scherzare con colui che precipitò gli arroganti! di' cosa stai osservando»
«Perdona me, Creatore, ho scioccamente tentato di nascondere a te qualcosa, a te che scruti nell'intimo delle creature e che conosci ogni pensiero ed emozione: io osservavo gli ultimi da te voluti, quelli che creasti alla fine, che ponesti sulla Terra come custodi, osservavo quelli che ti tradirono, che ti tradirono non una, non due, non tre, ma infinite volte, e che continueranno a tradire,a tradire, e ancora a tradire! Dio, io osservavo loro e mi interrogavo, sono dubbioso!»
«Angelo, continua a parlare a Colui che, Solo, è Tre Persone»
«Perché li ponesti al di sopra del Creato, perché donasti loro il tesoro della Terra, perché non li gettasti con l'Angelo Decaduto, quando per la prima volta cedettero alla presunzione? Perché?»
«Io creai luce e tenebra, creai cieli e terre, acque e montagne, foreste e praterie, volli il sole e le stelle, volli aquile e delfini, volli piogge e venti, volli leoni e volli gazzelle: diedi al mondo regole e principi, poi creai l'Uomo. A lui concedetti grande onore e il mio rispetto, lo amai e gli diedi una compagna, la Donna, e allora fui contento anche io quando vidi il sorriso sulle mie creature. A loro imposi una sola regola e loro riuscirono a violarla. Li condannai. Li cacciai. Eppure soffrii quel giorno: vidi le mie creature più amate allontanarsi dal mio giardino, li vidi piangere per la fame, udii la Donna gridare nel dare alla luce un giovane Uomo, fino nell'alto dei cieli risuonarono i colpi della zappa dell'Uomo sulla dura terra. Soffrii, mi resi conto di amarli comunque, nonostante tutto io continuavo ad amarli. Concedetti un'altra possibilità: ma ormai il giardino era perduto, purtroppo la corruzione era già entrata nel cuore di quelle mie sublimi creature. Nelle generazioni continuarono a sfidarmi, continuarono a tentarmi, loro, i creati mettevano alla prova me, testavano il mio amore. E oggi, dopo tutto questo tempo, non posso, ripeto, non posso non amarli. Ogni volta che uno di loro piange, soffre davvero, allora anche la mia guancia è rigata da una lacrima; quando un uomo calpesta un suo simile, lo umilia, lo inganna, allora il mio cuore si stringe, come stretto in una morse insopportabile. Io che tutto so, che tutto conosco, che tutto comprendo e che tutto ha creato, Io, l'Onnipotente, il Signore della Storia e della Vita, Io non so perché continuo ad amarli. Forse è per quel bambino che si avvicina a un'altro bambino, il quale piange perché è preso in giro dai compagni, e gli offre metà del suo panino con la cioccolata; forse è per quel ragazzino che non ha paura di intromettersi in una rissa per difendere uno che nemmeno conosce da ingiuste botte, volute dal razzismo; forse è per quella donna che, senza che nessuno lo sappia, dà ogni giorno al clochard che sta davanti all'ufficio del fidanzato parte delle sue mance da cameriera; forse è per tutte queste piccole speranze che spesso passano in secondo piano, che vengono ignorate e dimenticate solo perché non sono così eclatanti come un omicidio o checchessia! Io li amo»
«Dio, perdonami se continuo a chiedermi perché»
«Angelo, le stesse domande che ti poni tu quassù, nell'alto dei cieli, anche laggiù, sulla cruenta polvere della Terra, qualcuno se le pone. Vedi, angelo, anche sulla Terra ci sono persone che riescono e vogliono ascoltare la mia voce, perché le mie leggi e le mie regole non sono state cancellate: amore, pietà, gioia, comunione, tutte sono ancora laggiù come lo sono quassù, solo, purtroppo, qualcosa si è rotto, l'antico equilibrio si è spezzato e l'odio, l'invidia, il male è entrato nei cuori degli Uomini ...
Loro possono vincere queste bestie oscene, queste ingannatrici crudeli e quando lo faranno io sarò lì, perché io li amo sarò sempre pronto a riabbracciarli!»

giovedì 8 maggio 2014

MAI NULLA!

"Non c'è una sola volta, una sola! Mai mi è concesso di vincere, di vedermi per una volta al centro, mai mi capita di ricevere le lodi e i complimenti, mai! Sempre e comunque io sto a seguire, sono in coda, e anche se sono stato bravo, se ho fatto davvero bene, beh allora c'è qualcuno che deve essere comunque più apprezzato, più lodato. 
Non mi vergogno a dirlo: io voglio essere al centro di tutto, voglio ricevere complimenti, addirittura voglio potermi sentire imbarazzato per tali complimenti; io sono alla ricerca della gloria, della fama, voglio che qualcuno si ricordi il mio nome. 
Mai una volta in cui qualcuno mi riconosca qualcosa oltre ogni altro. Mai che il complimento rivolto a me sia più di quello rivolto ad altri. Mi dicono che sono bravo e talentuoso, ma forse, per quel caso, quella occasione, quella situazione, è da lodare molto di più quello che ha fatto lui. E allora cosa mi resta? 
Poi, ci sono quelli che, non solo ricevono complimenti, ma pure non li meritano, eppure loro sono lodati.
Ancora, ci sono quelli che non sono in grado di riuscire in nulla, e a loro nessuno fa complimenti, ma loro si lamentano e a loro si guarda con compassione, li si aiuta, li si sostiene. 
A me non rimane nulla, mai nulla. Un'intuizione, se è a me che è venuta, è nulla, perché tanto sei un buffone, parli parli e sei isterico, logorroico. Ebbene io sono logorroico, sono isterico, parlo e parlo! Cosa vuoi? Che io stia zitto, non riesca e poi abbia la tua compassione?! No io voglio il mio trionfo, voglio la mia gloria, voglio raggiungere le vette più alte del cielo e voglio leggere il mio nome quando non me lo aspetto! 
Sono un ragazzino sciocco e arrogante? Forse, eppure io non posso non volere questo, mi accorgo pure che sia un'idea malata, eppure è l'idea che mi ronza sempre in testa, come fosse una zanzara in una sera d'estate: ronza e ronza, ti tormenta, e poi - come se non bastasse - ti punge, e tu meni una sberla su di te, ma lei l'hai mancata, e ritornerà all'attacco, dopo aver ancora ronzato un po'. Ecco! Proprio una zanzara è questo mio desiderio, questa mia somma aspirazione. Che posso dire, voglio brillare! 
Voglio, ma spesso, come adesso, penso che nessuno mi voglia vedere brillare, nessuno mi ricorderà, nessuno si complimenterà e rimarrò solo, qui, a perdermi in un desiderio vuoto e insensato, a odiare, forse, quelli che sono ritenuti meglio di me. 
Ma questo era solo l'ennesima sfuriata, il millecentotrentamilionesimo sfogo inutile, cui nessuno baderà. Forse è vero che sono destinato al silenzio, e anzi, addirittura alla vergogna: 'sei un arrogante, immodesto, che crede di essere chissà chi e invece sei nessuno'. Li sento già parlare nella mia mente, ma ripeto: questo era solo l'ennesima sfuriata, il millecentotrentamilionesimo sfogo inutile. Va be'...
Peccato."  

martedì 6 maggio 2014

IL TRIONFO

Il sole era caldo, stranamente caldo in quella giornata di marzo. Sulla città i raggi di Febo Apollo scendevano lentamente e illuminavano dolcemente le molte case di Roma, svegliando anziani e giovanotti, donne e uomini. Per le strade qualcuno già camminava frenetico, qualcuno si precipitava in quella o in quell’altra locanda. I mercanti già preparavano le lo loro botteghe mentre nelle osterie iniziava a circolare il pane appena sfornato, con quella fragranza delicata, quel ricordo di campi fertili d’Egitto, campi baciati dal Nilo e dai suoi fertili fanghi, fanghi che hanno nutrito i virgulti giovani e biondi di grano.
Quando Roma fu tutta sveglia, il popolo si precipitò in strada, nessuno rimaneva chiuso in casa propria, tutti correvano verso la grande via, la Via Sacra, puntavano tutti al colle del primo re e cercavano di essere i primi ad arrivare. La Via Sacra era gremita di gente, qualcuno calpestava qualcun’altro, più debole, un altro si arrampicava su quel monumento agli Scipioni che vinsero Annibale, un altro ancora osava salire gli scalini che conducevano alla sacra casa di quelle venerabili vergini sacerdotesse, rischiando severe punizioni; qualcuno prendeva il carretto e vi saliva, come fosse un podio, per avere una migliore vista. Dovunque si udivano i venditori che offrivano focacce stantie, qualcuno offriva bei monili di Persia, alcuni vendevano qua e là morbidi tessuti d’Oriente.
Tutto il popolo, senza distinzioni di ceto, si era riversato ai margini della Via Sacra, quella stessa via che Romolo percorse quel primo marzo dopo aver sconfitto il popolo dei Ceninensi. Tutti accorrevano ansiosi. Ed ecco!, dal fondo della via, la via sulla quale numerose case di nobili patrizi si erano accumulate negli anni, ecco risuonare squillante il suono di una tromba dell’esercito, poi una seconda, una terza, una quarta. Suonano insieme la marcia. Ora si accompagnano ai tonfi profondi di un grande tamburo. Ora sono decine e decine, centinaia. Camminano rapidi, i soldati, ma compostamente; un passo poi l’altro, tutti uguali, l’armatura è ben fissata sulle spalle, gli elmi sono sollevati e gli sguardi fieri, gagliardi, nessuno indossa le armi: non si può entrare armati in Roma!
Il popolo esulta, i fiori sono lanciati verso i vittoriosi soldati, uomini che hanno speso mesi e mesi contro nemici lontani. I soldati salutano con gli occhi. Me ecco che qualcuno ei soldati inizia a canticchiare, sono cose oscene, ma è concesso … quasi tutto è concesso ai soldati trionfanti. Ma non sono loro ad avere trionfato, no! il generale è sulla bella biga dorata, trainata da quattro cavalli di Persia, bardati e corazzati. Le insegne militari svettano sugli alti pali, sorretti da muscolosi soldati. Il generale è circondato da uomini possenti, ma anche questi sono disarmati: nessuno può entrare armato in Roma! Il generale saluta sorridente, con la mano destra si regge alla biga, con la sinistra fa cenni al suo popolo, guarda ogni capo allegro che lo osserva. Dietro di lui vengono altri soldati. Molti soldati. Qualcuno ha in mano grandi ceste di vimini ricolme di monete, di ogni genere: oro argento, sesterzi e assi; a grandi manciate distribuiscono il bottino di guerra: ognuno allunga le mani sia per proteggersi sia, e soprattutto, per accalappiare la maggior quantità di denaro. C’è poi la sfilata dei prigionieri; un infinito stuolo di schiavi di guerra, catturati e costretti a terribili condizioni, orfani di patria, hanno viaggiato per miglia e miglia attraverso l’impero, cibandosi di poco e bevendo con i cavalli. Il popolo è esultante. Ognuno è felice.
Là, all’imbocco di quel vicolo, ci sono  tre donne, sono puttane – si vede -, sono vestite senza pudore, una di loro ha un seno all’aria, l’altra ha i capelli scompigliati e la terza è troppo truccata; hanno afferrato un uomo, un giovane figlio di mercante, vestito bene, avvolto in una bella veste bianca, sembra un ironico simbolo della sua, ormai poco duratura, verginità. Una delle donne afferra la mano destra del giovane e la conduce sotto le sue vesti, là dove si congiungono le gambe; l’altra si è avvicinata e gli lecca l’orecchio con la sua lingua svergognata; la terza ha capito: il giovane è delle sue compagne, lei non occorrerà … si allontana alla ricerca della sua preda.
“Viva il generale!” urla quell’uomo vicino al tempio di Giunone, alza le mani in segno di giubilo, ma deve presto rimetterle alla cintola, altrimenti … troppo tardi: un abile ladro gli si è fatto vicino fingendo felicità per la vittoria sui barbari, ma è lesto di mano e, preso il sacchettino di cuoio, è sparito. Coraggio povero sventurato, corri a lavorare per riparare la perdita; non disperare, è inutile: i tuoi sesterzi se l sta bevendo un furbone in una bettola! Smetti di girare e guardarti attorno sconvolto, come se servisse a qualcosa … sei solo stato un grande ingenuo!
“Io ti ucciderò, sporco Germano!” grida un bambino al suo compagno, brandendo nella destra una grande spada di legno – legno che è solo legno, nemmeno la forma è di spada, eppure nulla vede come gli occhi di un bambino -; il suo avversario incalza, il Germano, e continua a sferrare colpi di ‘spada’ con ferocia, ma ecco che il nostro romani si riscatta e riprende terreno, si rincorrono tra i soldati, quelli veri, come se quegli uomini alti e robusti, temprati da molte battaglie, fossero in realtà una fitta foresta in cui si combatte per la vita e la libertà.
“Quinto!” urla una matrona in lacrima, si sta facendo strada tra la folla, a suon di spintoni e calci, e nessuno la ferma o la sgrida: lei corre piangendo,ma non è triste, no!, lei corre verso l’amato, lo vede, è quel soldato che cammina per terzo nella fila, si sta guardando attorno, lui, alla ricerca di quegli occhi amati, con la speranza che, in sua assenza, credendolo perduto, non si sia risposata, la sua dolce moglie. La vede, abbandona la sua posizione e corre verso la donna, vita sua. “Ottavia!” “Quinto!”. Si ritrovano dopo tanto tempo, dopo molti mesi, i due innamorati, e gli dei solo sanno cosa si dovranno raccontare nelle loro prossime notti, quante storie si narreranno in quel letto così troppo a lungo rimasto freddo e vuoto.
Il cielo è sereno. Febo apollo guarda amorevole la città dei Quiriti, osserva affettuoso l’Urbs dai sette colli, distribuisce generoso i suoi raggi caldi e si rallegra nel vedere la gioia del popolo di Roma.
- Non posso che complimentarvi con voi, maestro **!
- Grazie, Vossignoria, spero sia gradito ai Vostri futuri ospiti come, mi pare, lo sia a Voi!
- Non dubito che saranno ben invidiosi! – rise di gusto reclinando la sua testa ingioiellata all’indietro.
- Badate, moglie mia, non dite certe cose! – fece lui, severo.
- Marito caro, io sono solo sincera: il maestro ** ha superato ogni sua altra opera con questo ‘Trionfo in Roma’!

giovedì 1 maggio 2014

DIETRO QUELLE GRIDA

"Mentre sono qui seduto, tutto concentrato sulla filosofia di Blaise Pascal, la finestra chiusa è sferzata dal vento di fine inverno, strascico violento di una stagione che non vuole abbandonarci. Sono qui e tento di ricordare e comprendere bene cosa sia il 'divertissement' e al piano di sotto mio papà sta preparando la cena: spaghetti con gamberetti e zucchine. Sono qui e sento qualcuno gridare. Non è in casa. Ha smesso, riprendo a studiare. Di nuovo quell'urlo. Non proprio acuto, ma in qualche modo stridente il suono mi turba l'orecchio. Mi alzo. Ha smesso. Bah. Mi risiedo e continuo a leggere la frase. Ancora qualcuno urla. Ma viene da fuori! Ora capisco: sono quelle due vicine, madre e figlia, che urlano e si insultano, e gridano e si insultano, sono quelle che abitano oltre il nostro giardino, in quella casa che sembra quasi diroccata. Possibile che nessuno dica nulla?! Quelle due urlano sempre e in continuazione, bestemmiano e si insultano, si minacciano di ogni male e si insultano. Bah. Mamma dice che urlano perché non stanno bene di cervello. Io non le ho mai viste, credo. Ma se le vedessi che volto avrebbero? Io me le immagino sicuramente grasse e non curate, con quei vestiti che indossano spesso molte nonne d'estate, quei vestiti che sembrano tende - o tovaglie - con improponibili ghirigori e fantasie e che le fanno sembrare delle tavolozze di pittori scadenti. Mi immagino la vecchia con le caviglie gonfie infilate a fatica in zoccoli di plastica, tipo quelli degli infermieri. La figlia sarebbe sulla quarantina, più simile alla madre di quanto lei pensi, solo che lei sarebbe più triste da vedere: la madre, brutta e antipatica che sia ha amato ed è stata in qualche modo riamata; lei è sola, abbandonata in casa con una madre con cui litiga continuamente, destinata ad una vecchiaia triste e piena di nulla, arenata sul divano davanti a un televisore perennemente acceso, unica voce in quel mondo di solitudine. Bah.
Ma poi, perché urlano? Sempre, d'estate e di inverno, c'è sempre qualcosa che le faccia sbottare, una contro l'altra. A volte, quanto le sento, mi chiedo e mi immagino perché stiano urlando, e allora vedo un salotto sporco e buio, con la madre seduta al tavolo mentre pulisce i fagiolini e la figlia sdraiata sul divano a pisolare, stanca di far nulla e di vivere con quella bestia. E a un certo punto, forse solo perché una fogliolina è caduta dal tavolo al pavimento, la madre inizia a insultare la figlia perché non fa nulla; la figlia si rianima e inizia anche lei, e allora è una gara a recriminazioni, a ricordi talmente lontani da essere probabilmente falsi, ma non importa, è il momento - uno dei tanti nella giornata - in cui si urla e ci si sfoga, chissà per cosa poi, ma si grida e ci si insulta. Ah sì! 
Silenzio.
Ancora silenzio.
Torno a studiare il 'divertissement' di Pascal. Forse ho capito: secondo Pascal l'uomo, per evitare di restare solo, con le mani in mano, immobile e in compagnia di se stesso soltanto, si immerge in ogni tipo di attività, anzi solo per questo scopo ha creato tali attività! Curioso, trovo io. Cosa ha fatto pensare questo a Pascal? Certo è vero che l'uomo, sopratutto oggi, sembra, circondato e asfissiato dal mondo, dalle centinaia di migliaia di possibilità, sembra fregarsene di sé, o meglio, di cosa sia il sé - ovviamente oggi nulla è più importante del proprio ego, del proprio successo sugli altri!. Ma lui come lo ha intuito, e poi, perché Pascal non ci ha detto perché temiamo di rimanere soli con noi stessi: perché non voglio riflettere?
Mi viene da sorridere: saranno forse un 'divertissement', quelle grida? E se lo fossero, sarebbero un loro 'divertissement', o magari nostro, di noi che ascoltiamo, tutti i giorni, quelle galline urlare oltre il giardino?"