MOLTE COSE AVEVO DECISO DI PUBBLICARE, MOLTE COSE ERANO GIA' PRONTE PER ESSERE PUBBLICATE ... MA OGGI SI SPEGNE IN ME LA FORZA DI RACCONTARE, E CIO' CHE GIA' E' PRONTO RIMARRA' SEPOLTO NEL SILENZIO.
OGGI HO FATTO QUALCOSA CHE M'HA ZITTITO, RIMARRO' IN SILENZIO E SALUTERO' IL TEMPO CHE S'AVVICINA IN QUESTO RIGOROSO SILENZIO.
HO SCRITTO TROPPO, PER ESSERE UNO SCIOCCO PRESUNTUOSO QUALE SONO: CHE TUTTO FINISCA.
I CODARDI NON MERITANO LA PROPRIA LINGUA: CHE SIA LORO TAGLIATA!
LA MIA LA TAGLIO IO OGGI.
... dopo molti giorni di silenzio ti scrivo, ma non ti narrerò nulla della mia vita ...
lunedì 23 marzo 2015
domenica 22 marzo 2015
LUI (9)
Finalmente arrivammo
in piazza, nel sole del tardo pomeriggio d'inizio estate.
Tutti si muovevano nei
loro pantaloncini di jeans, nei loro bermuda colorati; le ragazzine coi loro
shorts ciarlavano con le loro voci acute e strillanti; giovani uomini sciabattavano
in giro per il porfido cittadino, come se fossero in piscina - grazie a Dio
nessuno aveva avuto la sfacciataggine di togliersi anche la canottiera!
Il calore era
soffocante, terribilmente soffocante, ma il sole ormai iniziava il suo declino
e quindi tutti si era diventati coraggiosi, pronti ad affrontare l'afa per
girare a vuoto tra le strade del centro.
I gelatai erano
contenti, ovviamente, nel vedere frotte di clienti entrare e uscire dai loro
negozi, nel vedere tutta quella gente alleggerita di qualche moneta e
appesantita da qualche fresca caloria al limone, o alla fragola.
Tanti negozi, quelli
'tipici', quelli che non sono 'grandi marchi' erano chiusi e un cartello
salutava i passanti con l'augurio di una buona vacanza e l'invito a rivedersi
alla prossima riapertura, dopo le ferie.
Orde di persone si
rintanavano in quei negozi luminosi, tutti belli freschi per l'aria
condizionata, fingendosi in giro per compere, in verità alla ricerca solo di un
po' di tregua dall'afa.
Noi camminavamo
insieme, sotto i portici che corrono davanti al duomo cittadino: il sole
tagliava di traverso da fuori e le arcate si dipingono sulla pavimentazione con
ombre chiare, con contorni definiti ma delicati.
Poco più lontano si
avvicinava un gruppo di ragazzi di qualche anno in meno di noi, tutti urlanti e
strepitanti: gridavano senza cura per gli altri, perché solo loro erano i
padroni del mondo, solo loro camminavano sotto quel portico e nessun altro
esisteva in tutto il centro città.
Erano sia femmine che
maschi: due di loro si tengono abbracciati e camminano attaccati, con i corpi
vicini nonostante il caldo soffocante. Tutti loro ciccano fastidiosamente, quel
rumore terrificante e snervante, massimo sintomo della maleducazione assoluta.
Ci passarono a fianco,
ridendo e sbraitando. Quasi ci investirono sotto le loro espadrillas e
infradito.
Ma anche a noi
importava poco la gente, anche noi ci curavamo poco delle persone che ci
stavano attorno: badavamo a non scontrarci con nessuno, a non disturbare
nessuno. La differenza tra noi due e quei ragazzi era che noi ce ne fregavamo
in silenzio del mondo, preoccupandoci solo del nostro essere insieme, loro,
invece, pensavano di dover apparire diversi e provocatori, perché
'l'adolescenza è ribellione' …
A noi la ribellione
non interessava davvero.
A me bastava essere lì
vicino a lui, poter camminare e girarmi ogni tanto a osservare la persona che
mi stava accanto, la sua pelle bruciata e abbronzata, quella pelle che
solitamente vedevo sempre chiara e luminosissima, mi bastava poter tentare di
intravedere sotto quella magliettina leggera bianca la sua forma, il suo fisico
spigoloso e magro, quelle spalle aguzze e pericolose, quell'addome svuotato ma
muscoloso.
Non mi interessava chi
mi stava intorno e non mi interessava disturbare: a me serviva quella
tranquillità per godermi la persona che mi accompagnava, per appagarmi della
vista di quella creatura meravigliosa.
Le sue gambe lunghe e
sottili si muovevano veloci, agili sulla pietra del porticato e per ore sarei
rimasto a fissare quel continuo cambiare gamba per camminare, quel continuo
avanti indietro, per giorni mi sarei fermato a studiare quel passo così
rilassato e pacifico, tranquillo.
Ogni suo movimento,
ogni sua parte, tutto avrei contemplato per l'eternità.
E continuavamo a camminare,
all'ombra e al 'fresco' dei portici, passando davanti a negozi che vomitavano
aria gelata, attraversando piccole folle al riparo dal sole.
Là in fondo un paio di
signore si avvicinavano con le loro biciclette sotto mano. Erano vestite con
quei soliti vestiti da nonna fatti di un tessuto leggero, stampato con improbabili
motivi che paiono attrarre solo il gusto di vecchie signore in carne, che poi
si portano in giro tutte sudate mentre traballano sulle loro anziane gambe.
Parlottavano in
dialetto, urlando perché sorde. Una parlava con l'altra, ma l'altra non parlava
non lei e due discorsi diversi, ma contemporanei, risuonavano tra il vocio
diffuso del centro.
Quando passammo vicino
a queste donne i loro discorsi confusi s'interruppero ed entrambe si fissarono
su di noi, creando non poco fastidio a tutti coloro che cercavano di passare.
Altri vedendoci si
fermarono, magari solo con lo sguardo, magari solo per un attimo, un istante,
ma tutti vollero osservarci …
In quegli attimi mi
voltavo verso di lui e ritrovavo la mia sicurezza: mi guardava con quel suo
sorriso sereno, con quegli occhi scintillanti e vivi, occhi felici che paiono
ridere.
Tutti ci guardavano:
io e lui ce ne andavamo insieme, per mano.
martedì 17 marzo 2015
LUI (10)
«Ho paura»
«Non temere … ci sono
io … ti fa ancora male?»
«Un po' meno di prima
…»
«D'ora in poi starò
sempre con te, ti porterò da casa a scuola, da scuola a casa: dovunque! Perché
sorridi?! Sono serio! Sarò la tua guardia del corpo, terrò sotto controllo
tutto io. Potrei anche chiedere a Giorgio e a Mattia di aiutarmi: devo solo
compare quegli auricolari con il filo arrotolato!»
«Sei veramente un
cretino» gli risposi con dolcezza, con affetto, grato nel profondo per avermi
fatto sorridere.
«Ma sul serio! Non ti
lascerò mai, non succederà mai più!» diceva con quella sua voce dolce,
sussurrando piano nel mio orecchio, tenendomi vicino.
Sedevamo per terra,
appoggiati al muro dell'oratorio, sul cemento abituato a vedere le risate dei
bambini, piuttosto che i pianti di un ragazzo. La sera orami era scesa e
dominava tutto. Il silenzio era interrotto solo da qualche macchina che correva
in lontananza.
«Vuoi andare a casa?»
«No! Ho paura: non
voglio farmi vedere dai miei così»
«Ma domani dovranno
vederti per forza»
«Ti prego» lo
supplicai.
«D'accordo, è un
problema che ci porremo domani: stanotte la passi da me, ché intanto i miei
sono andati in montagna»
«Grazie …»
«Di nulla …» e nella
sua voce non c'era più traccia della sua scherzosità. Mi era vicino, non solo
con il suo corpo: sentivo la sua anima vibrare accanto al mio dolore, sentivo
questo mio dolore causare dolore nel suo cuore, ogni attimo che passava lì, a
guardarmi e stringermi tra le sue braccia sapevo che soffriva, che la sua
sofferenza cresceva e che a stento riusciva a trattenere le sue lacrime.
«No davvero: grazie.
Non tutti avrebbero …»
«Non parlarmi dei
cretini che ci sono in giro! Non devi ringraziarmi: l'ho fatto perché dovevo,
non per altro, ma perché ti voglio bene …»
Gli avrei risposto
ancora grazie, ma sapevo che non era quello che si meritava: sollevai il mio
sguardo, i miei occhi pieni di lacrime e gli feci un sorriso, non forzato, ma
uno di quei sorrisi che sorgono quando ci si sente finalmente amati.
«Dai, andiamo»
Si alzò e mi aiutò ad
alzare il mio corpo stanco e abbattuto: c'era forza in quelle braccia
magroline, ma mi sfioravano con delicatezza, preoccupate di non provocare il
minimo dolore.
C'incamminammo piano,
io un po' traballante, a lui mi attaccavo gettandogli un braccio attorno al collo.
La testa mi doleva e ogni tanto la vista mi si annebbiava un poco.
Le lacrime non
scendevano più e mentre camminavamo piano non scambiammo una parola.
Oramai mancava davvero
poco perché arrivassimo a casa sua, ma io fui preso da un giramento e dovetti
obbligarlo a fermarci: mi fece appoggiare a un panettone. Mi teneva la mano
sulla spalla, accovacciato davanti a me mi osservava dal basso. I suoi occhi
pieni di dolore mi dispiacquero quasi come quello che era successo: quegli
occhi sempre sereni, sempre sorridenti ora erano cupi e addolorati,
attraversati da un desiderio di piangere che i tratteneva solo per dare forza a
me.
«Ce la fai?»
«Sì … credo … mi gira
ancora un po' la testa …»
«Allora non c'è
fretta: prenditi tutto il tempo che vuoi … io sono qui e rimarrò qui»
«Scusami se ho
chiamato te invece che chiedere aiuto a …»
«Scusa?! Secondo te mi
è dispiaciuto aiutarti?! A me dispiace quello che ti è successo, non quello che
hai fatto tu: tu non hai fatto nulla per cui dovresti scusarti …»
«Quelli là …»
«Quelli là lasciali
perdere! Tu sei una persona meravigliosa, sempre disponibile, sempre pronta,
sempre capace di mettersi in gioco, una persona cui si può far conto, una
persona che spesso è, a dispetto delle apparenze, debole e bisognosa di aiuto …
be' eccomi: non ho intenzione di lasciarti più da solo, forse mi sarà
impossibile essere sempre al tuo fianco, ma non sarai mai più solo, mai più!»
Di nuovo avrei voluto
ringraziare quegli occhi commossi, quel viso preoccupato per me.
Tacqui e mi rialzai.
Si rialzò anche lui.
Lo abbracciai e mi
sentii abbracciato: mi stringeva con forza, questa volta quasi violenza, e io
pure, lo stringevo con ogni mia energia, il mio viso affondato nel suo collo
liscio. Piansi sulla sua spalla a lungo, e non più lacrime di dolore, ma
lacrime di disperazione: tutta la paura, tutto l'odio, tutta la rabbia, tutta
l'ingiustizia che mi dominava la riversai in quelle mie lacrime sulla sua
spalla.
Non so dire quanto
passò.
Sollevai il capo e lo
fissai: anche lui aveva pianto.
Salimmo da lui e anche
quella notte mi stette vicino.
domenica 15 marzo 2015
LUI (8)
Ci lasciammo alle
spalle la città. Dopo numerosi giri su vari cavalcavia e attraversando numerose
rotonde, abbandonammo anche il casello autostradale. Correvamo veloci, sempre
più veloci mentre ci abituavamo alla nuova strada.
I campi vicini
svanivano in una macchia, anzi in una strisciata di colori tutti sbiaditi. In
lontananza tutti gli alberi e le cascine ci osservavano immobili, senza nemmeno
agitarsi troppo per il nostro passaggio.
Finalmente eravamo
anche noi in autostrada, la velocità acquisita ora sembrava non aver più
bisogno del mio intervento: la macchina si guidava da sola, e si muoveva
elegantemente, più veloce del vento.
Lui mi sedeva a
fianco, un po' scomodo - credo - perché continuava a muoversi come se nessuna
posizione riuscisse a soddisfarlo. Prima di entrare in macchina si era tolto il
giubbotto e la felpa, rimanendo in maglietta a maniche corte: le sue braccia
bianche erano allungate da un lato sulla cornice del finestrino, dall'altra sul
bracciolo - tanto comodo per appoggiare il gomito quando si scala la marcia!
La musica era affidata
alla casualità della radio: si passava da una canzone recente, carina, a
qualcosa di una decina anni prima, terrificante, a qualcosa degli anni settanta
o ottanta, decisamente emozionante, per poi rigettarsi nella contemporaneità,
con qualche hit di musica tutta uguale, che forse vale poco, ma che aiuta e che
fa passare, in fondo, ore assolutamente piacevoli.
In autostrada c'erano
davvero poche automobili.
Si placò un poco,
appoggiato al finestrino. Guardava fuori e ammirava le montagne a nord, colpite
tutte dai raggi del sole cadente, baciate da quel calore vitale, loro, supremo
simbolo di freddo e gelo.
«Se vuoi puoi
attaccare il telefono e sentire la tua musica» gli proposi, sempre fissando la
lunga striscia di asfalto che si svolgeva davanti a me e che a poco a poco
vedevo inghiottita sotto la mia auto.
«Dov'è il cavo?»
«Dovrebbe essere nel
cassettino …»
Frugò per qualche
secondo, spostando fogli e fogliettini, ritrovando un paio d'occhiali da sole
smarrito da chissà quanti secoli.
«E questi?» chiese
rigirandoseli tra le mani, sorridendo nel constatare la loro forma tutta
particolare: i suoi occhi osservavano carpendo ogni singolo particolare,
analizzando ogni millimetro di quell'occhiale, forse immaginandoseli indosso a
qualcuno, forse proprio a me!
«Erano di mia sorella:
probabilmente non sa nemmeno più di avere avuto degli occhiali simili!»
«Sono … - il suo
sorriso quasi si volse a un riso - … particolari!»
Una delle risate più
gustose della mia vita: quegli occhiali non erano 'particolari', né tantomeno
carini, ma erano forse la più brutta opera che l'uomo avesse mai fatto uscire
dalle sue mani!
Mi controllai il più
possibile per cercare di non essere motivo di incidenti, ma le nostre risate
coprirono la musica della radio, si fusero in un divertimento comune e
condiviso: non potevo voltarmi a guardarlo, ma sapevo che la sua mano sinistra
era ora sulla sua coscia, quella destra sul petto, gli occhi li sapevo chiusi,
anzi serrati, strizzati come perché non uscissero dalle loro orbite, la bocca
spalancata, a cercare aria per alimentare come fosse fuoco quella sua grassa
risata.
Intanto la macchina
proseguiva, continuava la sua corsa che la portava sempre più vicina ai piedi
delle montagne.
Le risate si spensero
a poco a poco, con la dignità di ognuno di noi di nuovo ristabilita.
Ma ecco che invece che
riprendere a cercare il cavetto per la musica, ancora lui continuava ad
osservare quegli occhiali 'particolari', tenendoseli in mano.
«Posso dirti
qualcosa?» intravidi con la coda dell'occhio che ora fissava la strada, oltre
il parabrezza, capii che 'qualcosa' voleva dire qualcosa di importante,
qualcosa di serio.
«Sai bene che puoi
dirmi tutto» fingevo un'allegria che in realtà non avevo, cercavo di non dare a
vedere di aver percepito la sua serietà.
«Mi ha fatto piacere
che tu mi abbia invitato: noi non ci conosciamo poi tanto in effetti,
nonostante ormai tutte le giornate passate assieme. So che non dovrei dirtelo
probabilmente, ma sono anche contento che gli altri non abbiano potuto venire
alla fine: sono felice di poter passare un finesettimana con te, senza nessun
altro, a parlare, a divertirsi, a ridere, a sparlare - so, nel mio intimo, che
sorrise quando disse questa cosa - a cucinare insieme e a riposarci … sono
davvero felice. Insomma … cioè … grazie dell'invito e … »
«Anche io sono
contento di rimanere un po' da solo con te alla fine: mi dispiace per gli
altri, ma non perché non ci sono loro allora noi non possiamo rilassarci e
divertirci!»
« … e ti voglio bene!»
Non mi aveva
ascoltato. Mentre parlavo io aveva cercato le forze per dirmi tre stupide
parole. Le più dolci, innocenti, affettuose che udii mai in vita mia.
martedì 10 marzo 2015
DUE STORIE BREVISSIME
... Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, tu ottenga e conservi [...] Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine ...
Oratio de hominis dignitate, Pico della Mirandola
Ci sono due storie che mi raccontò un giorno un prete, un bel pomeriggio d’estate, mentre si aspettavano i pullman per ripartire e tornare a casa. La prima era una storia antica, la seconda recente. La prima inizia davvero tanti anni fa.
“Fu tanto tempo fa, quando la gente non sapeva nemmeno che la Terra gira attorno al Sole, quando la Chiesa Romana non era altro che un sistema politico, quando centinaia di migliaia di anime vagavano solitarie e nel limbo perché guidate da un pastore cieco e menefreghista.
Allora le città non conoscevano la luce elettrica, non conoscevano i riscaldamenti né autonomi né altro, non erano circondate da un anello di ciminiere e fumi, ma solo da campi o risaie, foreste o colline di viti. La vita trascorreva con i predicatori che vagavano per ogni contrada, con le guerre per il potere dei grandi, per la prevaricazione, e i contadini intanto subivano, impassibili, ignorati.
A quel tempo l’arte conosceva quasi esclusivamente la nostra religione in Occidente: chiese e manoscritti, statue e affreschi, tutto era per la gloria di nostro Signore.
Le eminenze benedivano a destra e assolvevano a manca, costruivano grandi edifici perché il loro nome superasse i secoli e i millenni, perché sulla terra tutti potessero ricordare il vescovo tale di cincischiopoli, o il priore talaltro da chissadovepoli. Non dico che non ci fossero anime sante, non dico che non ci fossero devoti reali, non dico questo, tuttavia quelli, se anche non li si vuole più chiamare ‘bui’ perché è una definizione spregiativa e limitata, per la nostra Santa Madre Chiesa furono anni durissimi, attraversati da alcuni tra i più vomitevoli scandali di sempre.
Oh, mi sto dilungando: questa è solo l’introduzione. Tuttavia la storia è davvero breve quindi non temere.
Allora, a Milano, in uno di quei secoli particolari, viveva un ragazzo di è pochi anni più di te, al massimo una ventina. Lavorava come garzone in una specie di locanda incastrata in un viottolo senza uscita. Ormai era un ubriacone, disposto a lavorare solo per avere un po’ di vino ogni giorno, senza il desiderio di nient’altro se non la sua ciotola di pane zuppo di vino. A vent’anni era decisamente perduto, irrecuperabile, sempre stravaccato davanti alla porta per tenere i cavalli dei clienti (se avevano i cavalli e – soprattutto – se arrivavano dei clienti!) in cambio di qualche spicciolo.
Un giorno pioveva e, come sempre, la stradina di fronte la locanda si allagava e il fango diventava un attentato alla vita di chiunque. In quei casi era suo compito sbattere a terra delle lunghe tavole di legna che potessero permettere (in qualche modo) il passaggio. Proprio mentre spostava una di queste scorse per terra un luccichio: una moneta! Abbastanza per prendere una brocca di vino di grado scadente, ma pur sempre vino!
Felice, con la sua felicità ebete e ubriaca, sbatté anche le altre due tavole di legno.
L’ultima doveva essere messa proprio all’imbocco del vicolo: lanciatala senti un suono sordo, non di fango, ma di qualcosa di pieno e solido.
- Ahi! – una voce debole e inferma.
- Che ci fai qui?
- Piove: c’è una tettoia!
- Va’ via bestia! Puzzi e tieni lontano i clienti!
Non rispondeva e il nostro ventenne iniziava ad arrabbiarsi.
- Muoviti! – ormai era davvero furioso e, in uno scatto, prese la figura per un braccio e l’issò in piedi: un volto rugoso e occhi serrati, terribilmente spaventati, piangevano.
Borbottò qualcosa, un ‘ti prego’ forse.
Il nostro ventenne prese la moneta e gliela mise in mano.
- Scusa”
“La seconda storia è avvenuta ai giorni nostri, nella stazione della nostra città.
Un ragazzo della tua età un giorno doveva andare a Milano perché doveva incontrare degli amici: tutti erano partiti la mattina ma lui aveva potuto liberarsi solo per il primo pomeriggio.
Sotto il sole caldo dell’estate era arrivato e tranquillamente si era fatto il biglietto alle macchinette.
Aveva fatto male i conti e il treno ci sarebbe stato solo di lì a mezzora, cioè mezzora in cui non sapeva minimamente cosa fare.
Si mise gli auricolari e alzò il volume al massimo, ignorando il messaggio che il suo affettuoso telefono gli mostrava riguardo al volume troppo alto nelle orecchie. Scendendo le scale del corridoio sotterraneo calpestò qualcosa, gli sembrò carta, però controllò per sicurezza: 10 euro!
Li raccolse soddisfatto e riguardandoseli camminò ancora più rapidamente verso il binario.
Risalendo le scale era così intento a godersi la banconota che per poco non calpestò un omino tutto rugoso e mogio, seduto sulle scale con la sua scorta di zaini stracolmi (probabilmente di cartacce).
Lo fissò irato ‘Che diavolo ci fa questo qui in mezzo alle palle!’, ma il vecchio non accennava a muoversi, guardava fisso davanti a sé, in basso, ai piedi delle scale, ignorando il ragazzino che per poco non l’aveva schiacciato.
Il ragazzo intanto …”
Proprio mente parlava, i pullman arrivarono e ci chiamarono per partire: mi sorrise e non seppi mai la fine della seconda storia.
domenica 8 marzo 2015
LUI (7)
Scendeva la prima neve,
forse sarebbe stata anche l'ultima per quell'anno. In realtà proprio neve non
era, ma era quella sorta di nevischio estremamente bagnato, e pare avere
l'aspetto di fiocchi soffici, anche se in verità sono solo pezzettini di
qualcosa di bagnato, qualcosa che non è propriamente una goccia, ma che nemmeno
merita il nome di cristallo.
Sentii che la cuffia
iniziava a inzupparsi sotto quella strana precipitazione e, mentre pedalavo
veloce lungo il viale, cercavo di non badare alla sensazione di bagnato che a
poco a poco aumentava di quel pezzo di sciarpa che mi copriva mento e bocca.
Controluce vedevo
quell'infinità di acqua scendere con meno pesantezza della pioggia, con meno
fretta. Quasi nessuno era in giro a quell'ora e i pochi coraggiosi erano di
corsa, tutti bardati con giubbottoni pesanti e soffocanti.
Sopra di me dominava
la sera d'inverno, buia fin dal pomeriggio, cupa e gelida.
Anche le mie mani,
sotto i guanti sempre più zuppi, incominciarono a gelarmi a poco a poco:
pedalata dopo pedalata iniziavo a sudare e allo stesso tempo il mio freddo
cresceva, le mie dita perdevano attimo dopo attimo un poco della loro
sensibilità.
Arrivai finalmente
nella piazzetta illuminata di luci arancioni, mentre quel nevischio cadeva
tutt'attorno. Il mio posto, quel lampione vicino alle strisce, era libero, ad
aspettarmi - chi altro poteva andare in giro in bicicletta con quel tempo?
Scesi rapidamente e
rapidamente fissai il lucchetto, il mio vecchio lucchetto arrugginito, che si
apre solo se tenuto in una certa posizione e se si infilano le chiavi solo con
una certa violenza. Chino sulla mia fedele compagna trafficai poco, abituato a
quei gesti così familiari, e rialzandomi ritirai in tasca le chiavi, chiudendo
subito il bottone.
Nell'aria ad ogni respiro
fluttuava un fumo bianco e sottile, pronto a disperdersi in fretta nel gelo
della notte: il mio fiato filtrava da sopra la sciarpa e mi sembrava come
nebbia davanti agli occhi, una nebbia magica, che funziona a intermittenza, che
appare per qualche attimo e che poi ritorna dopo un momento.
Respiravo affaticato:
il mio corpo caldo, tutte le mie estremità ghiacciate.
Iniziai a girarmi
attorno e a cercare nella piazzetta, rimanendo immobile, voltando qui e là la
mia testa … gelata
Finalmente passarono
le fatiche della pedalata, improvvisamente mi ritornarono in mente i motivi di
quella mia corsa: gli avevo scritto che avevo bisogno di lui, che dovevo
vederlo per quello che era successo quel giorno, che lo avrei visto lì, nella
piazzetta, che non potevo non vederlo proprio allora, e non il giorno dopo, non
la mattina che sarebbe venuta, no! Dovevo vederlo subito.
Mi voltai verso la
bicicletta, come se non fossi sicuro di aver legato il lucchetto al palo.
Le lacrime iniziarono
a salire, a premere contro le palpebre perché queste permettessero loro di
scendere, di andare incontro a quelle piccole goccioline gelide che cadevano
dal cielo, loro cugine. Strinsi forte i denti, mi morsicai il labbro per
trattenermi e inspirai profondamente, come tutti quelli che credono che così si
possa fermare un pianto imminente.
Ora tutta la mia vista
era annebbiata, tutto era filtrato da un sottile strato di acqua salata che mi
ricopriva l'occhio, che mi faceva vedere il mondo come attraverso una lente
tutta ondulata.
Ancora mi voltai verso
la piazza e ancora cercai in quella solitudine.
Camminava con le mani
in tasca, il giubbotto troppo leggero tirato fin sopra il mento, scoperto solo
il naso, quel suo naso tanto caro, tanto piccolo e delicato; in testa non aveva
nulla, lasciava che il cielo gli bagnasse i capelli, lo infradiciasse per bene.
Lo vedevo tutto
sfocato, come se tutta la sua forma fosse stata presa e messa in una piscina: proprio come col cloro,
le mie lacrime mi bruciavano negli occhi e mi impedivano di guardarlo come al
solito, di godere di quel volto così amico, così giovane.
Alzò lo sguardo, solo
un poco, abbastanza perché mi vedesse vicino al palo, illuminato dal cono
arancione: liberò il suo mento dal colletto della giacca e mostrò quel suo
sorriso sereno e festoso.
Scoppiai in lacrime e
corsi verso la panchina sotto il ciliegio sterile.
Forse non capì subito,
forse si sconvolse della mia reazione al suo saluto.
Mi raggiunse anche lui
di corsa, preoccupato - magari - per quel mio comportamento.
Mi trovò chino, seduto
sul bagnato con la testa tra le mani, con il naso gelato che gocciolava
lacrime. Le mie mani erano gelate, le dita dei piedi le avvertivo come tizzoni
ardenti di gelo polare.
Si sedette al mio
fianco e mi prese le spalle tra le sue braccia, abbracciandomi, avvicinando il
suo capo al mio, cercandomi con gli occhi, sussurrando quei famosi 'ehi', che
tremano nella gola, che ti dicono che c'è qualcuno che davvero ci terrebbe ad
esserti di aiuto …
«Ehi …»
Io piangevo, mi
disperavo, i singhiozzi erano le mie uniche parole: tutto il mio corpo si
agitava, scosso da ogni singhiozzo, ma le sue braccia mi tenevano vicino a lui,
mi comprendevano, i suoi occhi mi cercavano, cercavano di capirmi.
La 'neve' cadeva
mentre io piangevo, il mio naso si scaldò con le lacrime …
La 'neve' cadeva
mentre io piangevo, lui mi stava vicino …
giovedì 5 marzo 2015
PAROLE SUL BELLO - la luna
SEMPRE
Non c’è mai una volta
in cui tu non mi sia d’aiuto.
Non c’è mai una volta
in cui tu non mi sia di conforto.
Non c’è mai una volta
in cui i miei occhi rinuncino a
cercarti.
E quanto poi ti vedo:
il sorriso, la gioia.
IL LAMPIONE
Tornavo a casa, solo,
il gelo tutt'attorno.
Camminavo nella notte,
il lampione si spense.
Guardai lassù,
verso la lampadina rotta:
c'era una luce più affettuosa a
guardarmi.
#7
Miracolo di luce.
Splendore.
Maestosità e regalità.
mercoledì 4 marzo 2015
LUI (14)
Quel pomeriggio
comprammo il gelato: io cioccolato fondente e cioccolato -porcello! -, lui
cioccolato e crema - classicone.
Non faceva caldo, ma mi
andava un po' di gelo sul palato e lui, come sempre, mi aveva soddisfatto
offrendomi il cono. Aveva tirato fuori dalla tasca della sua felpona il suo
portafogli striminzito e aveva insistito perché fosse lui a pagarmi il cono.
Giovane e romantico.
Camminavamo con il
nostro cono in mano, uno a fianco dell'altro, senza parlare, tirando fuori la
lingua per godere di quella dolcezza meravigliosa che scendeva bella fresca
lungo la gola bollente; in tanti si accalcavano sotto i portici del centro,
allora noi avevamo deciso di proseguire all'aria aperta, sotto il tiepido sole
di fine inverno, quando il vento porta ancora con sé l'odore del gelo, ma i
raggi luminosi iniziano a farsi caldi e gentili.
In mezzo alla strada,
sul selciato ondulato, due vecchiettine ciarlavano in dialetto, urlando perché
sorde. Erano decisamente comiche quelle due!
Più in là un
tamarraccio si fumava la sua sigaretta nei suoi vestiti assolutamente scomodi,
ma doveva fare il figo, quindi …
Io e lui ci guardammo
dopo averlo notato e subito scoppiammo entrambi a ridere: quante volte avevamo
commentato quanto quella gente fosse proprio un po' fuori di melone!
Superammo il tamarro e
svoltammo in un viottolo che ci piaceva perché era silenzioso e solitario. Si
spingeva tra vecchi edifici in cui abitava gente normale che usciva di casa la
mattina e tornava la sera, immancabilmente, come se si fossero tutti messi
d'accordo perché il viottolo fosse praticamente deserto per i pochi giovani che
apprezzavano quella solitudine.
Io e lui ci andavamo
quando, stufi di girare a zonzo per il centro, sentivamo il bisogno di un po'
di silenzio e di pace: appena lasciavi la via principale e percorrevi il
vicolo, tutti i suoni s'attutivano e risuonavano lontani e ovattati, le voci si
perdevano e finalmente sentivi la voce di chi era con te senza disturbi, senza
'interferenze'.
Lui s'appoggiò al muro
e io m'appoggiai al suo fianco, chinai un po' la testa sulla sua spalla e finii
di mangiare il mio gelato - lui ovviamente lo aveva già finito da un pezzo.
«Come mai qui non c'è
mai nessuno?»
«Non ne ho la più
ppppallida idea» risposi io con l'ultimo pezzo di cono in bocca, pronto a
sbrodolarmi con l'ultima goccia di gelato che si nasconde proprio nella punta!
«Quando veniamo qui
non c'è mai nessuno … è strano … non se n'è accorto nessuno che qui c'è un
vicolo»
«Non lo so proprio …
però meglio … almeno posso stare un po' con te» dissi io, fingendo una voce
innocente. Lui capì e mi guardo dall'alto sorridendomi e con un leggero sbuffo.
«Com'era il gelato?»
mi chiese, guardandomi con quei suoi occhi luminosi: in quegli occhi da qualche
tempo c'era qualcosa di nuovo, qualcosa di 'grande'; prima i suoi occhi erano
belli e li amavo perché erano semplicemente belli, giovani, da giovane! Ora invece quella loro
bellezza era in un certo modo potenziata da una luce nuova, ancora più luminosa
… una luce saggia ed esperta … mi guardava e lo amavo davvero!
«Buono, molto buono! -
dissi io, dimenticandomi le mie impressioni sul suo sguardo - e il tuo?»
«Mmmm, la crema non
era buonissima, mentre il cioccolato era buono»
«Dove vuoi andare
adesso? Parco o andiamo verso la stazione e poi torniamo indietro, verso casa?»
«Scegli tu, per me è
uguale!»
«Allora rimaniamo qui
ancora un po' - dissi io staccandomi dal muro. Mi misi davanti a lui e lo
fissai diritto negli occhi, le mie mani ben infilate in tasca e le gambe larghe
per mantenere bene l'equilibrio - voglio rimanere ancora qui, lontano dal
casino!»
Lui sorrise e si passò
una mano nel ciuffo biondo. Il parrucchiere gli aveva appena tagliato i capelli
a lato della testa e mi pareva sempre più un pelatino, il mio pelatino!
Poi mi prese a un
fianco e mi attirò a lui - il mio equilibrio ovviamente andò a farsi friggere!
Quando uscimmo dal
vicolo rientrammo nel rumore e nella confusione della città … la gente non
urlava né sbraitava, ma anche i sussurri erano assordanti assommati tutti
assieme.
Noi, di contro,
camminavamo silenziosi, l'uno accanto all'altro, io afferrandomi al suo
braccio, lui chinando un poco la testa verso di me.
Avanzavamo insieme,
osservando la gente.
Non avevamo bisogno di
parole, il solo essere lì insieme era abbastanza.
martedì 3 marzo 2015
FAVOLA DELLA BUONA NOTTE
Quando la notte è serena, quando in cielo non c'è nulla, se non il
luccichio delle stelle e le ali di qualche creatura notturna, quando neanche la
luna arriva a disturbare gli occhietti ammiccanti delle stelle con la sua
poderosa luce chiara, quando la notte è bella insomma una creatura tutta
particolare si fa avanti nell'oscurità.
Aspetta che il sole sia ben oltre la linea del tramonto e si preoccupa
che attorno non ci sia nessuno, che di fuori possa essere disturbata solo da
qualche topolino o qualche gufo. Fiuta il vento e, soprattutto d'estate,
aspetta che si levi quella brezza delicata e piacevole che spazza via il
calore, le fatiche, le preoccupazioni, la luce, la pesantezza del giorno. Tende
il suo muso fuori dalla sua 'tana' e attende: perlustra con il suo olfatto la
zona attorno e avverte l'erba umida, rigogliosa, pronta a restituire, di
giorni, profumi nuovi e nuovi colori di fiore, percepisce l'odore di terra
smossa alle radici di un qualche alto albero, rifugio sicuro di qualche
creaturina, sente la fragranza di accoglienza che sale da un nido posto tra i
rami di quel pino nano in quel lontano giardino, quello che finisce proprio al
limitare dei campi di mais. Quando è certa, questa creatura si spinge ancora pi
fuori dalla sua 'tana' e un altro senso è subito attivato in perlustrazione
della zona circostante: ascolta lo scricchiolio leggero di quel vecchissimo
albero attraversato dal vento notturno, si ferma a contemplare il canto
solitario di un grillo che non si è accorto che anche i suoi simili si sono
stufati di far concerti con le loro zampette! Accoglie il suono di tre paia di
gambette sottili che si arrampicano su una qualche corteccia secca.
Tutto appare sicuro, ed è solo quando tutto appare sicuro che la creatura
emerge dalla sua 'tana':
è una sorta di ometto, di bambinetto magro e agile, con delle gambe
sottili sottili ma forti, adatte anche a lunghe corse nell'erba; il suo corpo è
coperto da una sorta di barba vegetale, come quella che cresce sui pini di
montagna, una barbetta di color azzurrognolo che lo ricopre dal collo
ginocchio, quasi come una tutina senza maniche. Ha un volto sveglio e sereno,
felice: il naso è lungo e affilato, un po' all'insù verso la fine; gli occhi
sono enormi palle giallastre, di un giallo prezioso e caldo, con al centro,
pronte a guardare ogni cosa avidamente, due cerchietti scuri, le pupille; la
bocca è sottile ma, si direbbe, sorridente, piegata in quella che potremmo
definire un gaio sorriso da bambino ingenuo. La sua pelle è verdastra, quasi
come le foglie degli alberi giovani, chiara e luminosa, vivace. In testa non ha
i capelli, ma una specie di ammasso di intricati rametti di legno, disposti
quasi come fossero stati organizzati da un uccellino pronto a covare il proprio
uovo con la propria compagna.
La creatura guarda ora nella notte, scruta oltre i rami dell'albero sul
quale si è arrampicata: i suoi occhi sono come quelli di un felino, o di un
gufo, o di una civetta, cioè vedono nell'oscurità, ma, al contrario di queste
creature, i suoi occhi non si illuminano come fari o lanterne.
Cos'ha con sé? Ha un lungo bastone sottile, leggero ma resistente,
elastico, che si trascina dietro nella mano sinistra, ed ora che è accucciato
sul ramo, il bastone pende dietro di lui, in precario equilibrio nella sua
mano. Ha anche qualcos'altro, appeso al
collo, un po' nascosto nella 'barba' che gli ricopre il corpo … una sorta di
corda, fatta di steli di prato, regge qualcosa, una sorta di ciondolo che
sbatacchia contro il suo fragile petto 'barbuto': una specie di sfera
irregolare di una sostanza che, se illuminata dal sole, sarebbe giallastra,
come resina, ma rigida, come ambra, tuttavia non pura e scintillante, ma grezza
e informe.
Ecco che ora è certo: solo la natura lo ascolta, solo la natura lo
circonda; nessun uomo si trova lì attorno. Ora ne è certo: non ne sente né
l'odore, né i rumori … non c'è.
Cosa sta facendo ora? Si arrampica ancora più su, leggero e delicato
passa da un ramo all'altro, senza quasi fare rumore: ciò che muove è quello che
muoverebbe un alito leggero di vento, il rumore che fa è quello che produrrebbe
il battito d'ali di un giovane uccellino nel proprio nido.
Ha raggiunto la cima dell'albero: si vede tutto immerso nell'oscurità
della notte senza luna, tutto è tranquillo e pacifico, non immoto, ma sereno e
quieto.
Salta verso le stelle ed ecco che ricade, attratto a terra cade giù come
un corpo morto, ma quando tocca terra non l'accompagna un tonfo rumoroso, bensì
un rumore delicato, come se stesse solo sfiorando il sottobosco erboso.
Inizia a correre, tra i tronchi e i cespugli, come un alito di vento
leggero che sfiora l'erba e la terra, sposta con delicatezza l'aria attorno a
sé.
Si ferma, è su un'altura sgombra, solo in mezzo a dell'erba alta,
morbida. Annusa l'aria: ancora l'uomo non c'è, è lontano. Sente una lumachina
muoversi vicino a lui: il suo 'passo' lento ha spostato un sassolino, di poco,
qualche centesimo di millimetro, ma un piccolissimo rumorino ha prodotto, uno
scricchiolio quasi impercettibile. Sposta il suo piede nell'erba per liberare
la via all'esserino.
Prende in mano quella sfera e sussurra qualcosa, delicatamente. È un
verso sottile, sibilante, una carezza leggera: mentre parla si avvicina la
sferetta alle labbra ed ecco che una stella sembra scesa sulla terra. Una luce
intensa, limpida e giallastra si sprigiona dal cuore della 'pietra' e si spande
tutt'attorno.
Questa luce è diversa dalle altre, è viva, è pulsante, ogni raggio è un
alito di vita e a poco a poco il tutto prende forme diverse, strane figure si
dipingono qui o là, tutte trasparenti, tutte di pura luce, ma ben distinte, ben
definite. La creatura continua a
sussurrare e piano racconta nella sua lingua misteriosa qualcosa alla pietra.
La pietra riluce, e splende, e in un certo senso arde.
Buio. Oscurità.
Le immagini sono scomparse, in un ultimo sibilo si sono tutte dileguate,
un po' correndo tra gli alberi verso le montagna, qualcuna attraversando a
pianura verso il fiume: come da un centro i raggi di una ruota, così dalla
pietra la luce si è allontanata in ogni direzione, portando con sé un'immagine,
una figura.
La creatura sorride: finché rimarrà anche solo uno della loro specie, ci
saranno sempre sogni la notte.
domenica 1 marzo 2015
LUI (6)
Pensai a lungo se
muovermi o se era meglio rimanere lì, fermo, ad aspettare: cosa potevo fare?
Il suo corpo era così
bello, lo intravedevo tra le foglie del cespuglio, loro giocavano e
scherzavano, qualcuno ogni tanto spariva, inghiottito dall'acqua fresca del
lago, poi riemergeva e con non troppa delicatezza si issava sul piccolo molo,
scaricando sul legno una gran quantità di acqua.
Ridevano tutti, felici
e contenti di quei giochi semplici: ci si buttava, ci si spingeva, si fingeva
di annegarsi a vicenda, ci si tuffava e si risaliva, tutti bagnati, tutti
scottati dal sole dell'estate.
Qualcuno faceva il
diverso, seduto tranquillamente sul pontile cercando di evitare gli schizzi,
quasi come se l'acqua fosse acido corrosivo!
Lui ovviamente era tra
i più euforici: era un continuo buttarsi e bagnare gli altri, ri-inzuppare
quelli che avevano deciso di iniziare ad asciugarsi, tuffarsi in modi sempre
più strani, sempre più assurdi, ovviamente sempre più pericolosi. Il suo petto
magro scintillava ricoperto da migliaia e migliaia di goccioline minuscole, i
capelli bagnati si appiccicavano alla testa, il costume zuppo si attaccava alle
gambe.
Rideva, rideva di
gusto e realmente felice, giocava, come giocano i bambini, lui, quasi uomo,
giovane ma ormai cresciuto, aveva in volto quella serenità ch'io ritrovavo solo
nei pargoli: gli altri ridevano e si divertivano, ma - chissà poi perché -
mantenevano, o pretendevano di mantenere, quell'aria superiore e un po'
strafottente, quell'aria che li faceva sentire adulti, più grandi di quanto
fossero in realtà. Lui no! Lui tornava bambino, era bambino! Non perché fosse
infantile, bambinesco, ma perché aveva quegli occhi belli, quegli occhi
luminosi e curiosi, allegri, che non conoscono altro se non il gioco …
Rimasi a lungo nascosto
dietro quel cespuglio, ad aspettare.
Vedevo quei sorrisi e
quelle risate: animi giovani grati di un sole caldo, di un'acqua fantastica; li
vedevo e li invidiavo, li osservavo e cresceva in me la gelosia … ma non li
odiai, né allora né mai: vederli mi faceva nascere un gran desiderio di essere
anche io come loro e vedendo lui questo desiderio sembrava trovare una via per
realizzarsi. Sapevo che in lui stava la risposta a tutti i miei dubbi, a molte
delle mie preoccupazioni.
Ad un certo punto
sparì: non mi accorsi dove fosse scomparso. Prima era lì che scherzava, poi
qualcuno aveva urlato alla sinistra e mi ero voltato verso il grido: lui non
c'era più.
«Che fai qua? Non
vieni con noi? Dai vieni con me a fare il bagno»
Tremai, mi spaventai e
mi vergognai come un cane. Sentivo la vergogna come un caldo soffocante e
insieme come un gelo pungente attraverso tutto il corpo: come avrei potuto
guardare ancora quel volto, il suo corpo magro, come avrei osato parlargli.
«S..sì … arrivo, avevo
soltanto bisogno di stare un po' solo …»
Mi guardava con quella
sua aria spensierata, quell'aria che precedeva sempre una battuta, sempre
tranne che con me: quando sul suo viso ritrovavo quell'espressione potevo
essere certo che presto mi avrebbe preso per mano, accolto al suo fianco, che
mi sarei sentito vicino a lui, mi sarei sentito da lui apprezzato e accettato.
Mi prese la mano, come
un bimbo prende la mamma del babbo per portarlo a fargli vedere che bella torta
di fango ha preparato in giardino.
Corremmo insieme sul
molo, scansando tutti, urlando perché ci facessero strada e infine ci tuffammo
insieme, mano nella mano, giù nell'acqua fresca, giù nel lago, insieme.
Furono ore felici,
passate a giocare come bambini, trascorse a sorridere e ridere. A poco a poco a
poco il sole tramontava nel pomeriggio avanzato e le persone attorno a noi
sparivano, ci lasciavano, noi entravamo in un nostro mondo, fatto di sguardi e
schizzi d'acqua , di prese in giro e battutacce.
Tutti continuavano il
loro pomeriggio, qualcuno cercava di coinvolgerci in qualche nuovo scherzo, ma
ora noi lasciavamo il gruppo per una nuotata fino alla boa laggiù, ora salivamo
in casa, tutti zuppi, per prendere un goccio di acqua, per far finta di
asciugarsi, ora, se tutti avevano deciso di sedersi al sole e non bagnarsi più,
noi ci rigettavamo in acqua, soli, noi due soli.
Fu davvero un
pomeriggio straordinario, meraviglioso: le sue braccia esili scintillavano al
sole arancione e quelle braccia a volte le vedevo afferrarmi mentre a stento ci
mantenevamo a galla, le vedevo stringermi a lui, poi inspiravamo e ci buttavamo
di lato sott'acqua: i nostri occhi si inseguivano attraverso quella coltre
liquida che deformava ogni forma, io cercavo quello sguardo che tanto amavo
all'asciutto e ritrovavo quel sorriso, ma accompagnato da innumerevoli bolle.
Il tempo perse ogni
significato, le dita ci divennero molli e la pelle tutta grinze, tutta bianca e
sfatta. Non importava. La felicità era la medicina per quella stanchezza, il
motivo per mantenersi a galla nonostante i muscoli fossero stremati.
Tutto svaniva e
rimaneva solo l'acqua, il pontile, il sole e lui: come sentivo l'acqua scivolarmi
via sulla pelle del corpo, come percepivo il calore del sole che calava a poco
a poco dietro i monti, come calpestavo il legno bagnato del molo, così sentivo
la sua pelle, le sue dita, il suo corpo; come se anche lui fosse un elemento,
sentivo che stavo toccando le membra di un essere straordinario.
In quel pomeriggio
ritrovai un giorno mai vissuto della mia giovinezza, mi sentii bambino, non perché
sciocco e ignorante, ma perché finalmente libero e sereno.
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