martedì 29 settembre 2015

UNA FARFALLA

UNA FARFALLA, oppure INNAMORATI
racconto tratto da 'Testamento' - JD 00 Aa 345 (archivio personale)

S'avvicinarono e si dissero che non dovevano più nascondersi nulla, si promisero che da quel momento non avrebbero più serbato alcun segreto l'uno con l'altro, perché ormai dovevano diventare una cosa sola, una sola anima formata da due respiri che, in un soffio, diventano una cosa unica, un ente, per così dire, potenziato. Le loro voci tremavano con tenerezza e li avvolgeva l'infrangibile barriera del loro amore: erano soli, nonostante il mondo, nonostante tutta la vita che oltre a loro due proseguiva inarrestabile verso la propria meta, erano soli. Erano dolcemente soli. Parlavano con dei sussurri, parole quasi non dette che l'altro capiva perfettamente, perché tutto si svolgeva negli occhi, e non contava più la lingua. Negli occhi ardeva infatti una luce diversa, una scintilla che magicamente riluceva da sé, senza bisogno di un sole a cui rubare i raggi. No, forse un sole c'era: l'uno era per l'altro la stella della vita, l'origine della bellezza e del proprio respiro si trovavano negli occhi dell'altro. Non ci sarebbe stato più nulla da nascondere perché in quel momento si fondevano entrambi in una nuova creatura che non avrebbe più potuto essere scissa nei due individui. Nel peggiore dei casi i due si sarebbero persi, l'amore scivolato per strada poteva anche essere calpestato da dei passanti, ma loro, ormai, erano legati, legati da un legame che sarebbe durato eternamente, oltre ai confini del tempo. Il ricordo sarebbe stato un marchio eterno, un sigillo posto per sempre che non sarebbe mai sbiadito, indelebile di fronte al passare dei giorni. Ora che erano così vicini non c'erano che emozione e sentimento, i quali si perdevano l'uno nell'altro e nessuno avrebbe potuto capire cosa fosse in quel momento, se emozione o sentimento. Tutto era sbiadito in se stesso e tutto si perdeva nell'altro, così che ciò che accadeva non poteva essere definito se non MISTERO. Un fascinoso e miracoloso mistero, inconcepibile e inafferrabile, ineffabile e impareggiabile. Era forse questo Dio? No, non era questo Dio, ma è proprio in momenti come questo che possiamo intuire l'impossibilità di definire Dio: è nell'amore inesprimibile di due amanti innocenti e sereni, teneri, che possiamo sfiorare l'idea, così folle di Dio.
Ma a loro di Dio non interessava poi un granché: c'era solo l'altro, c'era quella creatura meravigliosa che si trovava di fronte, un essere che forse poteva essere paragonata a un angelo. L'uno vedeva l'altro come luce, come ente straordinario e perfetto, ma tuttavia impalpabile! Ed era bello. Era bello vedersi con così tanta semplicità, con così tanta chiarezza; non c'erano regole, non c'era 'buona educazione', c'era solo la strana sensazione di quell'attimo, c'era soltanto la bellezza di quell'istante. Era bello, bello come il sole in primavera, quando al mattino, con addosso l'umidità della notte, ci accorgiamo che finalmente le guance iniziano a bruciare un po' ai raggi caldi; bello come un tuffo in una giornata afosa, quando il nostro corpo s'immerge e si lascia colmare dall'acqua fresca; bello come la luna piena in un cielo di montagna, quando svaniscono le luci di città e rimane solo lei, la regina della notte, con le sue ancelle, le stelle, in alto, sopra le vette perennemente innevate e i ghiacciai. Era bello. Semplicemente e dannatamente bello. Era teneramente bello. Non c'era che profumo, che dolce aroma dell'altro, anzi di entrambi. Erano chiusi in un bozzolo tutto loro e insieme stavano proprio preparandosi ad uscire come una straordinaria farfalla: avrebbero portato la loro bellezza al mondo, assieme, l'uno con l'altro; sarebbero stati come le due ali della farfalla: uguali l'uno nell'altro. In certi istanti si sarebbero toccati e amati dolcemente, in altri si sarebbero mostrati fianco a fianco al mondo, perché anche il mondo potesse godere della loro bellezza!
Stringevano l'uno la mano dell'altro, con devozione, quasi che portassero una vita fragilissima tra le dita. La pelle dell'altro fremeva leggermente sotto le dita e attraverso quel tocco passavano tutti i ricordi delle loro vite: uno si donava all'altro con tutto se stesso e non tratteneva nulla, affidava alle cure dell'altro ogni sua preoccupazione, ogni suo antico sogno e tutte le più intime speranze. Anche questo era un mistero, perché improvvisamente veniva meno tutto il corpo, quasi che la carne si sciogliesse e si fondesse, incapace di resistere alla meraviglia di quel tocco.
Quanto tempo passarono così? Non si può dire, perché il tempo s'era smarrito ormai, incapace di correre a fianco di una tenerezza simile, che non ha fretta, ch'è fuori da ogni ansia. Il tempo era semplicemente trascorso oltre a loro, li aveva scavalcati e ignorati: il mondo aveva continuato la propria esistenza mentre in quest'angolino s'era vissuto davvero!
Non è chiaro come, ma a poco a poco rientrarono nel mondo: forse un granello di polvere si posò nell'occhio di uno dei due amanti, forse un refilo di vento solleticò i polpacci dei due felici, comunque il mondo riottenne quei suoi due figli.
Si mossero e s'alzarono dal prato profumato che li aveva abbracciati. Verso le montagne si vedevano dei pesanti nuvoloni scuri che prima della notte si sarebbero svuotati sulle vallate semideserte. Senza parlare s'incamminarono mano nella mano, con quella puerile semplicità che è in qualche modo buffa: ci si stringe le dita come bambini all'asilo, in fila per due dietro alla maestra, ma le emozioni sono differenti, nonostante le attraversi una simile tenerezza.
I capelli di lei erano sciolti al vento, belli e profumati nell'aria tiepida. Lui ogni tanto si voltava e si riempiva gli occhi di quella beltà così preziosa, e non gl'interessava affatto che un sottile filo d'erba s'era arrampicato nella folta chioma scura.
Tornavano a casa, finalmente felici, avvicinati da un'esperienza nuova per entrambi: c'era stato un contatto, un incontro per nulla comune, destinato a significare l'immutabile legame tra i due. Un'energia sconosciuta li aveva attraversati e li aveva irrimediabilmente mutati. Questa sarebbe stata uno di quei momenti che avrebbe condizionato il resto della vita: i ricordi si sarebbero stipati sempre in maggior quantità nelle memorie dei due, ma questo attimo, in cui entrambi avevano sfiorato la materia di cui è fatto Dio, sarebbe sempre stato custodito in un luogo privilegiato, non soffocato da altre migliaia di ore di vita, ma ben protetto in uno spazio esclusivo.
Mentre camminavano iniziavano la loro opera: finché fossero rimasti insieme, avrebbero centellinato nel mondo tante briciole di bellezza, avrebbero urtato i cuori di quelli che affollavano le strade, avrebbero sparso qua e là il profumo della perfezione.

Erano belli. Teneramente belli.

sabato 26 settembre 2015

LA REGINA E SUO MARITO

LA REGINA E SUO MARITO
racconto tratto da 'Testamento' - JD 00 Aa 345 (archivio personale)

Di notte Aldobrando se ne sedeva nel suo studiolo, circondato da mille e mille libri, tutti accatastati gli uni sugli altri. Alla luce di un piccolissimo moccolo di candela il povero Aldobrando sacrificava la sua vista alla ricerca di un indizio che potesse aiutarlo in quella situazione drammatica. Ormai andava avanti da mesi, troppi mesi; e in effetti i mesi erano divenuti anni e anche questi s'erano assommati tra loro. Il tempo era passato e Aldobrando era sempre più determinato ad abbandonare quella folle impresa: era impossibile! Non c'era una soluzione, non poteva esistere un modo per risolvere tutto quel macello. Cosa pretendeva da lui quell'altro folle? Lui era un medico, certo, e anche il più stimato dei medici, per anni aveva studiato qualsiasi patologia, qualsiasi morbo, ogni cosa! Ma tutto ciò era impossibile, era al di là dei poteri di un medico. Nemmeno Dio avrebbe potuto fare qualcosa: se non ci riusciva lui, Aldobrando, neanche Dio sarebbe riuscito! Però non poteva desistere, se non altro,  per amore del suo collo e della sua preziosissima testa intelligente.
Fuori la notte si faceva sempre più pallida e presto l'alba avrebbe violato le tenebre. Allora un servitore sarebbe giunto da Aldobrando e gli avrebbe comunicato che il re lo aveva convocato. Lui avrebbe sbuffato alzandosi dal suo seggiolone senza imbottiture, poi avrebbe raccattato qualche fogliaccio a caso, riempito di chissà quasi sciocchezze, e avrebbe seguito il servitore fino alla Sala Privata del re. Lì lo avrebbe accolto un grande silenzio, interrotto solo dal crepitio delle fiamme nel grande camino.
Bussarono alla porta: dalla finestra sbirciava il primo flebile raggio di sole. «Avanti!» sbraitò Aldobrando, senza muoversi da dov'era. Un ragazzino impacciato e un po' gobbo s'affacciò nella stanzetta afosa e disse, con una vocina acuta e stridula: «Mastro Medico! Sua Altezza Reale vi convoca al Suo cospetto, immediatamente» Allora Aldobrando chinò il capo, rassegnato, e, come dopo aver preso la rincorsa, l'alzò in piedi. Caricatosi di qualche triste formula per i più inutili medicinali, si accodò al ragazzino e percorse gli scuri corridoi del castello. Ancora, nella pancia della fortezza, non giungevano i raggi luminosi del sole e solo ogni tanto appariva nell'oscurità una candela incastonata nelle fredde pareti.
«è forse cambiato qualcosa?» chiese a un certo punto Aldobrando, ben conscio di essere prossimo alla Sala Privata «No, Maestro: la regina rimane come sempre, e Sua Altezza anche stanotte ha dormito poco e in maniera estremamente agitata»«Il Cancelliere?» «Ha vegliato per qualche ora con Sua Altezza, ma poi si è ritirato. Quando Sua Altezza mi ha mandato a chiamarvi, il Cancelliere non era ancora arrivato» Bene, pensò Aldobrando, almeno se non c'è lo stramaledetto Cancelliere dei miei stivali posso pensare di tentare di far ragionare il mio amatissimo re folle! è tutta colpa sua, d'altronde, io lo so! E intanto arrivarono dinnanzi a una piccola porticina illuminata da tre candele su un candelabro incassato in una nicchia a lato. Dalla parte opposta vigilava un soldato armato di tutto punto. Il ragazzino aprì la porta e nuovamente Aldobrando riscoprì la luce del sole: dalle finestre su un lato della stanza entravano i raggi dell'aurora, ancora pallidi e timidi, ma già capaci di splendere più di mille scintille nel camino. Questo, a proposito, era caldo e crepitante, allegro. E solo l'allegria del camino sopravviveva ancora, infatti il resto della stanza era avvolto da una strana aura cupa, come se tutto fosse stato affumicato da una nube nera e pesante. Al tavolo, al centro, era seduta una figura ricurva, magra magra, piegata su se stessa e con le braccia lunghe, penzoloni verso il pavimento.
«Maestro?!» disse con fatica, quasi in un soffio, la figura al tavolo «siete voi?» «Certamente, Vostra Grazia!» «Ditemi: ci sono novità?» ecco la solita domanda, parte ormai di una routine quotidiana del quale il medico di corte non ne poteva più. «Temo di no, Altezza Reale: ho sfogliato i miei libri tutta la notte e ho trovato molto poco a proposito di questi sintomi» Tutto fu avvolto da un nuovo, ancor più innaturale silenzio: anche il fuoco sembrava essersi azzittito.
«Peccato!» Aldobrando non s'era accorto che in un angolo più scuro della stanza s'era appostato un omuncolo basso e grassottello, vestito con eleganza e ricchezza: il Cancelliere. Mannaggia, pensò il medico, ecco che c'è di nuovo questo lurido infame! «Peccato davvero, mio carissimo amico - proseguì l'ometto insopportabile, con una voce mielosa e ripugnante - Sembra quasi che le vostre illustrissime doti si stiano rivelando assolutamente inefficaci, non è così?» C'era più che malizia nelle sue parole; c'era una vera e propria crudeltà oscena.
«Non è che le mie arti non siano all'altezza, Signor Cancelliere, ma è che …» ma lo interruppe «No, no, no, mio caro amico, non vi dovete scusare. Non ce n'è motivo. Sappiamo tutti troppo bene che a volte ci si aspetta troppo da alcune persone …» In Aldobrando cresceva l'odio per quell'essere odioso: ma come osava, quel verme! Non sa chi sono, si diceva, io sono conosciuto in tutti i reami per la mia conoscenza e il mio sapere, e questo ignobile gnomo osa parlare così?!
«Vi prego - disse, improvvisamente, con la sua voce ch'era un sussurro, il re - vi prego, Maestro, ditemi che c'è qualcosa che non abbiamo ancora tentato, ditemi che c'è ancora una speranza … vi prego» sembrava un mendicante a digiuno da mesi e mesi, ormai privato di ogni vitalità, di ogni forza d'animo: uno straccio sporco e consumato.
«Mi dispiace Vostra Maestà, ma non … non …» cosa poteva aggiungere a quel 'non': avrebbe dovuto dar ragione a quel viscido del Cancelliere!
«Il fatto, mio unico sovrano - s'intromise il Cancelliere dannato - è che il nostro Aldobrando le ha provate ormai tutte, ha messo alla prova tutte le sue ricette e i suoi rimedi. Non ha altro da offrirci: è inutile rivolgerci ancora a lui, Altezza Reale, poiché ormai … - e fece una pausa in cui, nella penombra, sorrise crudelmente - perché ormai è inutile»«Questo è troppo! - sbottò il medico - io non sono inutile! Ma come vi permettete voi, lurido pezzente che non siete altro, parassita, meschino, schifosa sanguisuga?! La verità è che siete stato voi, ne sono certo, ne sono sicuro, non so come, non so in che modo assurdo, ma forse avete chiesto aiuto del diavolo con cui, questo lo so, ve la intendete benissimo. Siete stato voi, vile schifoso: avete fatto ammalare la regina di una malattia nota solo al demonio così da strappare le forze al vostro stesso re, carogna!, e così potete governare al suo posto: siete un verme, un verme, un verme putrido e mefitico, dovreste morire, impiccagione, ecco cosa vi meritereste, luridissimo maiale!!» Con quanta violenza sbraitò queste parole contro il Cancelliere, il quale, pacifico, si godeva la scena: ormai il medico s'era autocondannato con le sue stesse parole - anche il re lo avrebbe ritenuto un folle.
Aldobrando fu fatto portare via mentre sbraitava: il re aveva ordinato che fosse allontanato per sempre dal castello e che mai più sarebbe stato riammesso nella capitale.
«Cosa facciamo, ora?» chiese, ancor più sconsolato, il re, sempre immobile nella sua posa da straccio lercio.
«Altezza, mio Signore, cosa possiamo fare? Cercheremo un altro medico, altri sapienti, li faremo arrivare da ogni parte della terra, da ogni reame. Presenteremo loro il caso e cercheremo di rimediare a questa terribile faccenda - parlava con voce gentile, ma sotto sotto qualcuno avrebbe percepito l'affettazione di quell'espressione così eccessivamente preoccupata - Ma intanto voi dovete riposare …»«Ma … ma …» balbettò il sovrano «Ma, niente, Altezza: siete un grande re e vi preoccupate del vostro reame, però siete anche un uomo, sebbene uno dei più grandi di sempre, e in quanto uomo avete bisogno di riposare»«Grazie - disse con voce sincera il re, rivolgendosi con un sorriso gentile al Cancelliere - menomale che ci siete voi, così attento ad aiutarmi»«Non ringraziatemi, Altezza: vivo per servirvi»
Accompagnò il re alla porta dietro la quale lo attendeva un valletto. Di lì il re andò a riposare, mentre il Cancelliere si incamminò verso la Sala del Trono, dove si sarebbe seduto sul seggio posto poco sotto al trono e avrebbe governato al posto dello sventurato sovrano.
Intanto, nella sua stanza, la regina dormiva e non sognava, poi si svegliò e passò la giornata immobile, seduta alla finestra a guardare il paesaggio senza riuscire a proferire una parola, senza riuscire a mutare espressione del viso, senza riuscire a fare nulla.

Quando il re morì, qualche anno dopo, roso e divorato dalla disperazione per non essere riuscito a guarire la moglie, la sua amatissima sposa, i nobili del reame non poterono far altro che riconoscere al Cancelliere il diritto di continuare a regnare, visto che lo aveva fatto così bene anche quando non era lui il re.

martedì 22 settembre 2015

LA STORIA DEL BAMBINO CHE ODIAVA LE STORIE

Non aveva mai sopportato le fantasie. Che senso hanno tutte queste baggianate? Perché perdersi in immaginazioni vuote, sconclusionate, assolutamente inutili? Non ha più senso ciò che è reale, stabile e incontestabile? Un fatto è un fatto, è realtà pura, non c'è bisogno di perdere del tempo a costruire finte illusioni: nessuna fatica, se non la fatica di comprendere ciò che è, ecco qual è il vantaggio della verità. Ah, ecco sì, si tratta di verità e nient'altro. Non c'è nemmeno da paragonare la verità con la menzogna. Chi potrebbe preferire una bugia alla verità? Forse i folli lo farebbero, ma non sarebbero chiamati folli altrimenti! Non è difficile, a volte, seguire la verità, il fatto e ciò che è in realtà, perché è semplice matematica, è fisica, chimica, biologia, non astrusità pseudointellettuali.
Da piccolo guardava con cattiveria chi pretendeva di imbambolarlo con qualche bella storia di qualche eroe. Non apprezzava minimamente quei cantastorie che si gloriano nella loro lingua fluida e agile: incantatori, truffatori e ladri. Perché riempire le giovani menti di così tante stupidaggini? Per narcotizzarle, renderle sopite e inattive. Forse c'era una profonda crudeltà dietro quei personaggi così pittoreschi.
Crescendo non aveva trovato una strada facile: odiava ciò che lo circondava, perché tutti s'ingannavano e adoravano essere ingannati, quasi fosse godurioso. Che pazzia!
Rimaneva allibito di fronte al modo in cui certe sciocchezze incantavano i suoi coetanei, o i più giovani, o, addirittura, i più anziani: ad esempio non comprendeva come così tante persone potessero crollare nella trappola dello spirito. Chi è che aveva inventato questa stupidaggine della spiritualità, o anche dell'anima?! Certo, tutto questo poteva andare bene un tempo, quando si parlava di mitologie e quando la scienza non era che agli albori, ma oggi, oggi che la scienza conosceva così tante risposte, come poteva continuare tutto questo? Non negava che la scienza avesse ancora molta strada davanti a sé, ma sicuramente la strada percorsa dal sapere scientifico era di gran lunga di più di quanta ne avessero percorsa la religione o le filosofie!
E tutta 'sta gente che continua e continua, ma perché? Cos'è che non convince delle prove che la scienza può presentare? Non può provare che non esista Dio? Beh, ma sicuramente può dimostrare molte altre cose che un tempo erano credute vere e che la scienza ha sfatato! Forse non ha il segreto di Dio, ma ha il segreto del progresso, un progresso che la religione, la filosofia, gli spiritismi e tutto il resto non hanno minimamente!

Non aveva mai sopportato le fantasie: Cenerentola, per lui, era un'odiosa menzogna.

giovedì 17 settembre 2015

HO RICOMINCIATO

Ho ricominciato a pensare intensamente ad una persona, di nuovo come qualche tempo fa mi ritrovo ad essere innamorato. SI tratta proprio della vecchia pesante sensazione piacevolissima. è forse una frase senza senso quella che ho scritta ma nessuna frase con del senso sarebbe adatta a descrivere ciò che provo in questi momenti. Torno ad essere scosso da brividi profondi quando lo vedo, brividi che si fanno ancora più travolgenti quando mi sfiora e che si trasformano in vere catastrofi interiori quando la sua mano incontra la mia pelle. Sì, sono nuovamente innamorato, come allora. Come allora la sua voce mi stupisce e rimane chiara e limpida anche dopo ore e ore, giorni in cui non la sento dal vero. Come allora mi sorprendo di quanto anche vederlo felice per qualcun altro, con qualcun altro, non mi renda geloso, ma mi faccia dire tra me e me: "Ringrazio Dio perché ti ha dato la felicità: come potrei sopportare di vederti infelice?".
Come allora mi sento un condannato, condannato in una maniera orribile perché non rifiuterei mai il mio carnefice.

Ancora una volta mi sono innamorato di una persona tanto diversa da me, tanto lontana da ciò che sono intimamente: è come se fossi alla perpetua ricerca di qualcuno che non sia come me, qualcuno che non conosca tutte le paturnie e le fisime che mi sono creato. Qualcuno che mi comprenda, io desidero, non qualcuno che le condivida. Ecco allora che di nuovo sono innamorato di una persona differente, con cui ho poco in comune, con cui scoprirei la felicità più banale e stupida, e non profonde verità sentimentali da libro di un autore romantico. Nuovamente sono qui, ho ricominciato più o meno come qualche tempo fa e non penso che tutto ciò possa definirsi un totale disastro: non sono felice, ma almeno vivo di un po' di quella luce riflessa che mi è concessa.

martedì 15 settembre 2015

L'INCORONAZIONE DEL NUOVO RE

La sala era tutta piena di gente, tutti erano accorsi per assistere all'incoronazione del nuovo sovrano. Com'è ovvio, non capita mica tutti i giorni! Straordinariamente i cancelli del palazzo reale erano stati aperti a chiunque; certo, la sicurezza era mostruosa (c'erano soldati dovunque, tutti armati di tutto punto, tutti vigili e attenti), ma la festa era troppo grandiosa per escludere il popolo.
Dicevo, nella sala tutto era meraviglioso: i lampadari sbriluccicavano spargendo dovunque la propria luce ricca; le pareti, ricoperte da stucchi d'oro e impreziositi (se mai fosse stato necessario!) da pezzi di vetro colorato o specchi lavorati magistralmente. La corona era poggiata in bella vista sopra un tavolino affiancato al trono. Dal soffitto, alto e decorato da bellissimi affreschi, pendevano gli stendardi della famiglia reale e del reame.
Un brusio febbricitante attraversava il salone e, oltre il grande portale intarsiato, la gente s'affollava nell'ingresso e sulle scalinate. Nessuno aveva mai veduto tanto sfarzo; solo la nobiltà, nei suoi comodi scranni, sistemata sulla balconata che correva per tre dei lati della sala, era abituata a quell'eleganza eccessivamente raffinata.
Adoreacro se ne stava vicino alla piccola porticina laterale, quella che usava la servitù, e ripassava, nella propria mente, il rituale completo. Era Gran Cerimoniere di Palazzo. A un certo punto le trombe, dalla piazza antistante il palazzo, avrebbero iniziato ad annunciare l'arrivo della carrozza con il sovrano; di lì lo squillo delle trombe si sarebbe ripetuto fino nella camera più interna della reggia, così che tutti sapessero bene che il re stava arrivando. Poi i tamburi avrebbero obbligato tutti al silenzio e accompagnato l'avanzata della scorta reale: i soldati, bardati oltre l'immaginabile, con armature tutte cesellate in forme scomode e inadatte alla lotta, avrebbero camminato sostenuti, decisi ma calmi. Poi, finalmente, il principe avrebbe fatto il suo ingresso: sceso dalla carrozza, tutto riccamente vestito, avvolto in uno sterminato mantello di porpora foderato di pellicce, avrebbe iniziato la sua camminata verso il suo nuovo posto, il trono.
Adoreacro, a questo punto, si sarebbe avvicinato ai soldati e, ad alta voce, avrebbe ordinato ai soldati di allontanarsi, loro e il nuovo venuto. I soldati, all'unisono, avrebbero risposto con un sonoro NO!. E così per altre due volte. Dopo tre NO! infatti, Adoreacro avrebbe concesso loro di avanzare dentro al salone fino ai piedi del trono. Qui si sarebbe dispersa la scorta, disponendosi ordinatamente attorno al basamento sul quale svettava la sedia regia, affiancata dalla corona scintillante.
Il nuovo re si sarebbe preparato a salire quegli otto scalini liberandosi del grande mantello. Allora tutti avrebbero visto la straordinaria veste tutta dorata, ornata da decine e decine di pietre preziose cucite nell'abito. Qui sarebbero cessati i tonfi dei tamburi e il silenzio avrebbe avvolto tutti.
Adoreacro, salendo i gradini, si sarebbe fermato a solo uno scalino dal trono, si sarebbe volto verso tutti coloro ch'erano accorsi ad assistere e avrebbe annunciato: INCHINATI! SEI DAVANTI ALLA CORONA!
Allora il re si sarebbe chinato e, una volta che le trombe avessero ricominciato con i loro trilli, avrebbe cominciato a salire la scalinata verso il trono.
Sarebbe quindi seguita la cerimonia dell'incoronazione vera e propria: il principe avrebbe affermato la propria rivendicazione e Adoreacro avrebbe dovuto riconoscere il diritto di tale rivendicazione. Il re si sarebbe inginocchiato e la corona sarebbe infine discesa sul capo del nuovo sovrano. Questi si sarebbe alzato e voltato, nel silenzio più assoluto, verso il popolo e avrebbe urlato: INCHINATI! SEI DAVANTI ALLA CORONA!
Ci sarebbero state grida e gli applausi avrebbero sommerso ogni parola. Poi sarebbero iniziati gli omaggi dalla nobiltà e dalle altre istituzioni del reame.
Adoreacro sì, era pronto, lui, sapeva tutto a memoria, tutto era come doveva essere, ma gli altri, avrebbero saputo fare il meglio? Non si fidava troppo dei suoi 'colleghi'. Ma ormai era troppo tardi, ormai non c'era più tempo per
Squillarono le trombe!
Ecco, si disse Adoreacro, è così che inizia: l'incoronazione del nuovo Re dei Re, Sovrano degli Imbecilli, Discendente dell'Antica Stirpe degli Incantatori, Erede della Dinastia dei Truffatori.

Sarebbe stato un ottimo politico, un grande governante …

domenica 13 settembre 2015

I MOSCHETTIERI

La notte aveva abbracciato la grande abbazia con le sue mani nere. Il grande campanile era scomparso da tempo nello stomaco delle tenebre e una sola finestrella della chiesa continuava a brillare nel buio. I monaci, pii e casti, dormivano ognuno nella propria celletta fredda. Solo uno dei confratelli si teneva vicino una candela, quello che doveva sorvegliare - chissà poi perché - la portineria anche la notte. Nessuno veniva a bussare alle loro porte di notte, c'erano almeno un paio di locande che offrivano un'ospitalità ben più conveniente di un gelido e - diciamolo - un po' bigotto monastero.
La città era rimasta sveglia un po' più a lungo dell'abbazia, la gente s'era fermata sulle proprie porte per quattro chiacchiere e la maggior parte degli uomini di bottega aveva lasciato il desco familiare per raggiungere qualche amico e bere in compagnia.
Nella notte profonda, poi, s'erano spente anche le liti da taverna e il vociare era diventato un bisbiglio nelle soffitte o un isolato 'OE' per salutare la combriccola prima di tornarsene a casa. Solo il fornaio non avrebbe spento il proprio fuoco, e, anzi, si sarebbe rimboccato le maniche, tutto sudato per la fatica dell'impasto.
C'era un'aria felice, una serenità diffusa e leggera che avvolgeva il tutto: dormivano i monaci e nelle stalle dormivano i cavalli, il fabbro s'era appisolato da molto, così come il suo garzone, che, in teoria, avrebbe dovuto vegliare il braciere. Dormivano le donne, stanche di essere madri, mogli e padrone di casa: s'erano addormentate pensando a ciò che non era stato fatto e a ciò che ancora doveva essere imbastito.
La notte era fresca, ormai dimentica dell'afa del giorno, ma, tuttavia, rasserenata da qualche ventata tiepida (il mondo restituiva all'aria il calore della giornata).
Nuccio non s'era ancora stancato di sedere sul suo ramo preferito, su quel robusto ramo di pero che s'avvicinava così tanto al muro di cinta dell'abbazia. Di giorno lo avrebbero cacciato, perché cosa pensava di fare quel ragazzino?! Ma di notte … di notte quel ramo era tutto suo e in primavera era bella addormentarsi in mezzo alle foglie. Non aveva mangiato quel giorno, ma ormai era abituato, non sentiva nemmeno la fame: un monaco non avrebbe resistito a lungo come lui a stomaco vuoto. A volte non mangiava per due settimane intere e non se ne lamentava nemmeno, non c'era bisogno, d'altronde, di grandi capricci e lagne: se non ce n'era non ce n'era e basta.
E poi a Nuccio bastava poter dormire, potersi cullare nei suoi sogni con tutta la libertà di un bambino. Certo, di giorno doveva impegnarsi, doveva lavorare - quando poteva - doveva affaccendarsi in qualche modo! Ma di notte, ah, di notte entrava in un regno dove non c'era da mangiare, non c'era da rispettare le regole di qualcun altro, non c'erano le porte chiuse del monastero, o il bastone nodoso del macellaio; di notte c'erano i sogni, dolcissimi.
Nuccio aveva sempre pensato che le persone più sfortunate del mondo dovessero essere gli insonni, quei poveri tapini che di notte vegliavano ininterrottamente, quei miserevoli che non riuscivano mai a immergersi nel proprio mondo di sogni: che vita orribile!
Nuccio non compiangeva la sua condizione, non sognava mai una vita "migliore", con un papà e una mamma. Sognava posti lontani, posti felici e, quelli sì, migliori.
- Ehi! Nuccì!! - sussurrò qualcuno dal basso del tronco, toccandogli il piede penzoloni - hei! Psss… Nuccì!!
- Eh … - rispose Nuccio guardando giù, nella penombra della notte, rischiarata da una timida falce di luna.
- Vieni giù! - Nuccio scese e trovò i suoi tre amici: erano tutti orfani e poveri, come lui.
­- Guarda cosa ha trovato Nenè!! - disse una voce eccitata nel gruppo. Un profumo di crosta bruciacchiata solleticò il naso di Nuccio, senza vedere granché.
- Oè! E dove sei andato a trovare 'sta roba?
- I monacelli, per una volta, hanno fatto un po' di carità - ridacchiò qualcuno, forse proprio Nenè, suscitando il riso dei suoi compagni.
­­- Viva i monacelli - rispose Nuccio, allungando la mano nell'oscurità: trovò le mani degli altri, già protese in avanti, e tutti insieme urlarono, pur sempre bisbigliando: - Uno per tutti, tutti per uno! -

Quella sera mangiarono, e fu ancora più dolce sognare quella notte.

sabato 12 settembre 2015

LUI (17)

FIORDALISO
Indossavo la mia sciarpa preferita, morbida e calda, attentamente disposta di modo che nessun pezzettino di pelle rimanesse scoperto. Era un mio vizio, una delle mie passioni, quella sciarpa. Mi sentivo al sicuro, protetto non solo dal freddo, ma da qualcos'altro, qualcosa di meno ovvio, qualcosa che non riesco a comprendere interamente. Non c'era il sole, ma solo la sua bella luce diffusa attraverso bianche nuvole uniformi. C'era odore di gelo, quel profumo di freddo avvolgente e penetrante: ogni respiro significava accogliere nel petto un brandello di quell'aria anestetica e spessa; ad ogni respiro il mio petto s'innalzava un pochetto, inebriato dall'atmosfera pulita e semplice di quella giornata d'inverno.
Durante la notte avevo passato alcuni momenti d'insonnia, fermo nel mio lettino a guardare l'oscurità con gli occhi spalancati, senza quasi sbattere le palpebre. Ricordavo la sua pelle delicata e liscia, di fanciullo e aspettavo il giorno che stava arrivando, quando, finalmente, avrei riveduto quel viso cui ero così devoto.
Ora attendevo in silenzio, accoccolato nella mia sciarpa, e aspettavo trepidante di scorgerlo arrivare da dietro l'angolo: attorno a me c'era un ragazzo che raccontava ad un suo amico di cosa era successo tra lui e una certa Cristina; un po' più in là una ragazza messaggiava rapidamente, intenta, penso io, a rispondere a decine e decine di persone che la interpellavano ora per questo motivo ora per quell'altro. Poi il resto del centro città era animato dalla solita fretta infreddolita dell'inverno, tra uomini in completo che se ne ritornano dai loro uffici sfoggiando la loro vita scintillante e tra ragazzini che non sono troppo preoccupati per la scuola. Ma tutto questo era per me solo arredamento, qualcosa che era stato disposto con attenzione da un fine intenditore, ma che non rappresentava altro che suppellettili e basta. Io stavo aspettando, in uno stato di tensione e insofferenza tremendo: in me cresceva il bisogno di lui e man mano che passava il tempo mi sentivo come gonfiato da questa necessità sempre più impellente. Lui s'avvicinava, lo sentivo, e pian piano sentivo che la forza che riusciva ad esercitare su di me cresceva, e s'ingrandiva e diventava sempre più violenta.
Sentivo nell'aria che la sua aura perfetta era quasi tra le mie braccia. Sentivo che finalmente avrei stretto quell'anima d'oro e luminosa: la sua purezza si sarebbe abbassata presto dall'alto dei cieli dal quale proveniva, fino alle mie mani impure, semplici mani di uomo disperato, misero e solo. Mi avrebbe, venendomi di nuovo incontro, salvato, redento dalla mia orribile condizione di inetto e verme: come Beatrice per Dante, mi avrebbe di nuovo portato quella sua luce perfetta ed eccelsa, tutta pervasa di quel profumo così intenso, così straordinariamente meraviglioso, che rimaneva sempre sulla mia pelle ogni volta che mi sfiorava. Lui, candido e puro, sarebbe stata la mia salvezza: ogni volta che lo incontravo comprendevo cosa si intende per "resuscitare dai morti", poiché solo lui era in grado di rigenerarmi fin dalla più intima fibra del mio corpo.
Era un magnete, per me, come una grande calamita superpotente in grado di condizionare ogni mia azione, ogni respiro, ogni volta che ci avvicinavamo.
E guardavo quell'angolo, con il marciapiede che curvava verso la piazza in cui lo attendevo. Un piede  rapido si sarebbe presto mostrato con la solita allegria, seguito, immediatamente, da un corpo giovane e forte, slanciato e perfetto. Chi avrebbe detto che era bello? Nessuno, forse, ma, nonostante ciò, egli era la perfezione più assoluta, e perfino gli angeli nell'alto dei cieli lo avrebbero invidiato. In lui, infatti, c'era qualcosa che non c'entrava con la bellezza che tutti noi  immaginiamo comunemente, ma si nascondeva una forza inspiegabilmente più potente della bellezza, più grandiosa.
Non osavo fare altro, non distoglievo lo sguardo e non osservavo il telefono: l'attesa mi coinvolgeva tutto, mi obbligava a fissare quell'angolo così banale, svoltato già tante e tante volte. Ero in attesa di un miracolo, un miracolo che avrebbe illuminato quella giornata e avrebbe donato una meravigliosa scossa al mio animo come sempre intorpidito.
Ricordo che cercavo di non battere gli occhi per continuare a osservare quel lembo di strada: ero anche in grado di ignorare le macchine che passavano, scartavo il palo un po' storto che vietava la sosta lungo il corso e mi concentravo solo su quello straccio di angolo. Come nella notte di San Lorenzo, scrutavo quel cielo in attesa della mia stella cadente.
Smarrii completamente la facoltà di pensiero, totalmente. Ero uno scemo, rimbecillito dal bisogno di quell'apparizione, completamente intontito nel sognare la perfezione che stavo per riabbracciare.
Sentii una voce da dietro di me e qualcosa di sottilissimo e fresco che sfiorava la mia pelle del collo: mannaggia a me non m'ero avvoltolato bene nella mia sciarpa! Beh, sentii questo brivido e «Cucù!» sorrise una voce alle mie spalle.

Mi voltai e, già con il sorriso, salutai la sua perfezione con un «Ciao!». Era arrivato da un'altra strada.

giovedì 10 settembre 2015

INCENSO

Ho bisogno di un poco d'acqua. Un sorso basterebbe, una goccia piccola piccola che mi scendesse giù per la gola e portasse via la fatica. Un attimo di pace, di silenzio assoluto e immobilità. Non mi serve altro. Una sosta, una breve pausa e amen. Ho la necessità di incontrare l'unica persona che mi spegne il cervello con la sua sola presenza: non si tratta di emozioni sconvolgenti, di passioni straordinarie, ma di una straordinaria meraviglia. Il tutto si spegne nella vasta aula rumorosa del cervello, e quest'immenso ambiente si svuota, lasciando spazio solo ad un'eco lontanissima, proveniente da una remota e sconosciuta voce tranquilla. Si accende un piccolo tepore dovunque e niente, mi sento vivo, per un attimo, un istante, un baleno inatteso e straordinariamente inconcepibile, poi di nuovo torna il caos; tornano le persone, tutte quelle persone che gridano e urlano e chiedono e dicono e straparlano. Sì, ho bisogno di quel mio sorso di quell'unica bevanda che mi può dissetare e ristorare, finalmente.
Oggi l'ho incontrato. Ero distratto e non ci pensavo affatto, preso da qualche altra faccenda - ora me ne sono addirittura dimenticato, che cosa facevo - e lui non c'entrava niente in quel momento. Poi è stato un secondo e l'ho incontrato. Con la sua meraviglia, la sua bellezza, la sua semplicità.
Non m'interessa l'estetica, la sua forma, ma … lui è bello perché mi dà pace, serenità, mi avvicina, per una sola volta, dopo tanto e tanto tempo, alla perfezione. Ecco sì, mi avvicina alla perfezione: quando lo sfioro io sfioro la necessità che qualsiasi uomo ha nel proprio intimo, ovvero la necessità di raggiungere ciò che più in alto sta sopra di noi.

Altezze,
i cieli,
forse la gloria di Dio
sfioro
con una sola
carezza.
Vicino a te:
vicino alla perfezione.


Ancora parole ispirate da lui. Stasera mi addormenterò con la sua immagine nel cuore.

mercoledì 9 settembre 2015

RIGUARDO L'AMICIZIA

Salve. Oggi non parlerò di niente di nuovo: tutto è stato già detto e tutto ha avuto un proprio spazio, quindi non ci si aspetti nessuna novità in ciò che dirò. Tuttavia voglio dire anche qualcosa di già sentito, perché forse ci siamo annoiati troppo e alcune cose non sono mai ripetute abbastanza. E voglio parlare dell'amicizia.
Chiunque abbia un minimo di cervello guarda all'amicizia come un qualcosa di affascinante e seducente, un po' per l'inesprimibile bellezza che ci colpisce quando ci si parano innanzi due persone legate in un modo tutto particolare, un po' per la straordinaria potenza che tale legame a volte sprigiona, una potenza di gran lunga superiore a quello che molti innamorati riescono a 'produrre'.
E l'amicizia, quindi, si presta bene ad essere al centro di infinite riflessioni di infiniti pensatori che si scervellano alla ricerca di un senso, un qualsiasi senso che li soddisfi nella loro brama di conoscenza e sapere.
Al centro della mia riflessione, però, non ci sarà l'amicizia come idea assoluta, sciolta dalla realtà della vita, non intesa come valore fisso e desiderabile, ma, piuttosto, porrò come mio obiettivo la descrizione di un incontro che ho avuto con due persone tanto straordinarie da consegnarmi l'esempio più sublime ch'abbia mai scovato.
Ci sono due persone a questo mondo - forse ce ne sono altre - che non conoscono la barriera della persona. Mi spiego: le persone costruiscono attorno a sé un muro, non per isolarsi, ma, appunto, per comunicare. è un po' come se tutti fossimo dotati di una parete pubblicitaria su cui esponiamo i 'nostri prodotti'. Ebbene, questa parete non è qualcosa di falso - o almeno non sempre - ma è il modo più semplice per interagire con le persone che ci troviamo attorno. Talvolta - è bene sottolinearlo - tale parete diviene un comodo nascondiglio a tal punto che certi preferiscono esporre in vetrina dei prodotti che non sono affatto 'fatti in casa': si tratta di maschere, di comodità che ci creiamo per celarci alla luce del giorno e agli sguardi che ci spaventano. Ma, comunque, di per sé questa parete non avrebbe nulla di male.
Quando due persone si innamorano, presi dal fremito dell'amore, ecco che queste pareti pubblicitarie si fondono l'una con l'altra e diventano un unico grande cartellone: dietro vivono la loro intimità i due amanti, fuori loro mostrano il loro amore diffondendo uno spettacolo di bellezza e purezza.
Quando due persone si incontrano e riescono a sbirciare da sotto queste pareti, che proprio come un cartellone pubblicitario sono un pochetto rialzate dal terrone, allora due sguardi si incontrano, al di là di ciò che l'uno ha voluto esporre, al di là di ciò che abbiamo deciso di mostrare al mondo: allora nasce l'amicizia, allora ecco che non c'è bisogno di fondere queste barriere colme di murales, perché, alla faccia di tutti, tra quei due individui s'è creato un legame che non centra nulla con il fuori, che quasi non muta l'espressione e la forma solita, ma che fonde due creature in un nodo che vorrei definire soffice.
E dunque, ho conosciuto due personaggi molto particolari e … diciamo che mi è sempre piaciuto dipingere sul mio muro molti aspetti diversi di me, ma, più di tutto, mi è piaciuto, di tanto in tanto, salire in punta di piedi fino alla sommità del cartellone e osservare chi mi circondava, senza mai provare di sbirciare nella barriera di qualcun altro. Un giorno, mentre m'impegnavo a mantenere l'equilibrio per sbirciare, m'accorsi che proprio di fronte a me, al mio trabiccolo tutto scritto, c'erano due piccole vetrinette tutte sgargianti e vivaci, oserei dire anche un po' eccentriche: di sotto a quei colori, a quel brio agitato ed eccitato, scorsi due paia di occhietti vispi, ma tremendamente luminosi, che si guardavano lieti, che non desideravano interessarsi a cosa mettere nelle loro vetrine. Si scrutavano gli uni con gli altri e parevano non chiedere altro che poter continuare a guardarsi. A vederli mi si scosse il cuoricino: sentivo che stavo assistendo a qualcosa di straordinariamente straordinario, pieno di una forza che mai m'era capitato di percepire attorno a me.
Non so dire quante volte io sia tornato a sbirciare ancora verso quelle due anime così devote l'una all'altra: non erano innamorati, ma semplicemente erano grati a vicenda perché entrambi avevano sbirciato da sotto la solita parete di pubblicità, animando così un qualcosa di nuovo per entrambi.

Queste due persone continuo a scrutarle, di tanto in tanto, e anche io sono grato a loro, ma in un modo diverso: non sperimento l'amicizia che sperimentano loro, no, io semplicemente sono un fortunato spettatore cui è dato presentarsi, quando capita, di fronte a una simile meraviglia.

martedì 8 settembre 2015

LUNGO LA STRADA 1/2

Nemmeno iniziavano a sciogliersi le luci flebili delle stelle. Il cielo era una volta tutta ricoperta da minuscoli schizzi di luce. La luna quella notte aveva scelto di non affacciarsi sul sonno degli uomini e il caldo abbraccio paterno del sole era ben lungi da avvolgere quell'angolo di mondo. Coperti sotto laceri mantellacci, i pastori cui toccava quella notte aspettavano la fine dell'oscurità. Nelle notti di luna nuova s'accendevano anche dei fuocherelli un po' più vivaci, per dimenticarsi dell'assenza di una, anche misera, falcetta luminosa. Non era nemmeno troppo difficile non addormentarsi: non faceva abbastanza freddo da dimenticare tutte le preoccupazioni del bestiame e della vita di ogni giorno, tuttavia faceva freddo! Un freddo fastidioso che mordeva, come tante piccole boccucce crudeli dai denti affilatissimi, le dita dei piedi, i quali piedi erano ovviamente mal avvolti in vecchi stracci, dentro  un paio di stivalacci abbandonati da chissà chi in un fosso.
Non c'era silenzio, ma non s'identificavano versi di animali, rumori di ruscello o di fronde smosse dal vento: un rumorio strano e costante, quasi un respiro grasso e profondo, nascosto da qualche parte oltre i verdi pascoli e le fitte foreste.
Nelle catapecchie, spesso isolate, abbandonate da sole in mezzo a un paio di prati o tra un campo e il bosco, quelli che erano rimasti in casa si godevano, si fa per dire, le ore di sonno: come tutte le sere era stato difficile addormentarsi, morsi, dentro, da un senso di fame pungente. Poi, però, le fatiche del giorno s'erano appollaiate con il loro notevole peso sulle palpebre dei poveracci e allora era iniziato un sonno senza sogni, un sonno di immobilità e assenza. Quel momento, quando tutti ci si ritrovava al buio nella stessa stanza, era uno di quelli che lasciava più perplessi; soprattutto aveva effetto sui più giovani, su quei bambini che presto avrebbero preteso di essere considerati grandi: la stanza, dove ormai si spegnevano le faville del focolare, lasciando il passo a piccole braci con cui la nonna la mattina avrebbe litigato per rianimare la fiamma, una stanza stracolma di persone di ogni età. Il respiro di tutti riempiva pian piano l'aria e scaldava l'ambiente. A poco a poco si veniva avvolti dalla propria stessa vita, mentre ogni russata riaccendeva un poco di quel calore; ma di tanto in tanto s'udiva un colpo di tosse, quasi che qualcuno si stesse strozzando. Era così, uno dei momenti più lieti - quel tepore tanto dolce! - svaniva, soffocato da se stesso. Ed erano i bambini, soprattutto loro, che s'addormentavano affascinati da questo fatto così strano: un pensiero quasi filosofico attraversava le menti di quei bifolchi di campagna e li lasciava tutti con l'amaro in bocca. Ci s'addormentava insoddisfatti.
A S. quella notte toccava stare con le bestie. Era estate e i campi ogni giorni si coloravano un po' di più sotto le carezze del sole, ma la notte era dannatamente umida e non si poteva non rimpiangere di vivere in un luogo così assurdamente freddo anche d'estate: ogni tanto un viandante era arrivato dalle loro parti e aveva raccontato che da lui, da dove era partito, d'estate era pressoché impossibile dormire con indosso più che un paio di calzoncini leggerissimi. Laggiù, diceva lui, d'estate faceva caldo come di giorno anche di notte, quasi che anche al buio il sole continuasse a soffocare con i propri raggi roventi. S. aveva più e più volte sognato come sarebbe stato vivere in quella terra del mistero, dove il sole continuava a scaldare anche dopo essere tramontato, e in particolar modo ci pensava quando toccava  a lui vegliare con gli animali: il solo immaginare una terra così calda lo teneva in vita contro quell'umidità gelata. Di fronte a lui svaniva l'oscurità cupa della sua terra, scompariva il piccolo fuocherello che ardeva ai suoi piedi e che a malapena illuminava il suo viso; tutto diventava una grande terra piatta, colorata dalle mille sfumature del grano e del granturco. Anche nella notte - immaginava - il calore del sole riusciva a far brillare un poco quelle coltivazioni tanto rigogliose. Immaginava di addormentarsi sotto il cielo cosparso di stelle senza nemmeno doversi preoccupare di coprire bene le dita dei piedi. Immaginava di sentire una formichina camminargli sul petto nudo, nudo! Era un mondo di meraviglie, un mondo lontano che spesso lo incantava con il suo fascino.
S. era un ragazzino intelligente, ma un bifolco, sveglio, ma un bifolco, sensibile, ma un bifolco. In lui scorrevano le stesse emozioni che un giorno qualche poeta aveva forse mirabilmente descritto in qualche poderoso volume rilegato, ma quel poveretto non avrebbe mai compreso le parole con cui chiamare ciò che si portava dentro: di fronte alla notte S. rimaneva estasiato per l'immensità di ciò che lo avvolgeva, addirittura dimenticava le vecchie lezioni del curato o della zia e si librava con il cuore alla stessa altezza dei più coraggiosi tra gli uccelli; ma tutto ciò che sentiva rimaneva rinchiuso, quasi segregato, nel suo petto da bambino, ancora troppo fragile e poco robusto. In certi momenti non avrebbe desiderato altro che urlare, gridare a squarciagola al mondo un'unica e tremenda 'AHHHHHHHHHHHHH': cos'altro avrebbe potuto strillare? 'AHHH' era l'unica cosa che riusciva a traboccare dal suo petto, scombussolato da chissà quale emozione, fino alla lingua, sempre così maledettamente paralizzata dall'ignoranza.
Così le sue nottate di veglia passavano nel silenzio del piccolo fuocherello davanti ai suoi piedi, in attesa che finalmente il sole osasse ritornare a sbirciare su quel pezzettino di mondo.
Il giorno che attendeva quella notte era una domenica: la nonna e la mamma lo avrebbero costretto ad andare al villaggio in chiesa. Bisognava rendere grazie per tutti i doni del Signore. Non gli avrebbero concesso nemmeno un po' di tregua, dopo una notte all'aperto: solo il babbo e Giordano (il fratello più grande) sarebbero stati risparmiati dal pellegrinaggio fino alla chiesetta. Loro dovevano preoccuparsi delle bestie. Sua sorella Irene sarebbe stata contentissima, come tutte le domeniche, di quel piccolo viaggetto rituale: per lei andare in chiesa era come il miglior gioco ch'esistesse, non perché la divertisse, ma perché era una di quelle pochissime cose che la rendevano felice. Sua sorella era una di quelle che s'entusiasmano, come se fossero inebriate da un'ispirazione divina, ogniqualvolta s'inizino le orazioni della sera. S. aveva sempre ammirato l'eleganza e la devozione con cui sua sorella si faceva il segno di croce: se fino a poco prima aveva riso e scherzato, nel momento stesso in cui pensava di doversi segnare, iniziava ad acquisire una consapevolezza insolita per una bambinetta di otto anni. In lei non c'era alcuna affettazione, non recitava con volgarità la sua parte di devota figlioletta. Sembrava davvero essere soddisfatta solo da quella vita spirituale ripetitiva e abitudinaria. S. non avrebbe mai potuto dimenticare quella volta che l'aveva vista sfuggire di nascosto al controllo severo della mamma e l'aveva seguita fino a un angolino nascosto dell'orto, dove lei, tutta attenta a esser sola, aveva tirato fuori, da una crepa particolarmente profonda nel muretto, un minuscolo rosario fatto con tanti piccoli pezzetti di sughero rubato dagli scarti del nonno. Se l'era costruito da sé, sacrificando un pezzetto di spago della sua 'cintura' e dopo una lunga ricerca del legnetto a forma di croce perfetto. Nessuno, tuttora, sapeva dell'esistenza di quel rosario segreto, nascosto nel muricciolo dell'orto, oltre la fila di cavoli. Per la comunione il curato le aveva anche regalato un rosario vero e proprio, proveniente dalla bottega di un artigiano in città; ma Irene, quando non le gravava sulla coscienza un compito datole dalla madre, scappava silenziosamente dalla casa e recitava le suppliche alla Madonna stringendo in mano quel suo rosario di sughero e spago. Il rosario 'ufficiale', quello donatole dal curato, Irene lo esibiva solo di domenica, quando la casa veniva abbandonata da tutti - tranne che dal nonno, troppo malconcio per muovere un'unghia.
Tutti, di domenica, venivano lavati, almeno grossolanamente, almeno per togliere via un po' della polvere accumulata nell'intera settimana di lavoro. Ci sarebbe stata la solita processione alla vasca con per gli animali e lì ci si sarebbe sciacquati il volto e le ascelle con l'acqua gelata. Gli uomini, quelli che l'avevano, avrebbero sfregato la barba con un po' più di foga; le donne, almeno le giovani ancora non sfiorate dal dono doloroso della maternità, avrebbero aspettato di rimanere tra di loro. Quello, forse, gli piaceva della domenica: più che la messa, più che la passeggiata senza fretta fino al villaggio, più che incontrare gente dal resto del circondario, amava la sensazione di trovarsi in rilassatezza e, contemporaneamente, in eccitazione. Non c'era l'ansia del lavoro, almeno per quella mattina, ma s'assisteva a momenti di insolita serenità, un brio per niente comune che si concentrava proprio attorno alla vasca per l'abbeveraggio delle bestie.
Ai suoi fratelli e ai suoi cugini piaceva di sicuro l'aria del villaggio, incontrare le figlie di qualche vicino, sbirciare sotto i grembiali delle due donnicciole che servivano alla locanda all'ingresso del paese. Certo, era divertente, era piacevole addirittura arrossire, qualche volta, quando qualche ragazza s'accorgeva d'essere oggetto di attenzioni non proprio convenienti; ma il momento migliore, per S., era quella vasca circondata da persone che si debbono preparare al meglio per qualcosa che continueranno sempre a non comprendere.
Ecco un altro di quei pensieri filosofici che attraversavano il petto di questo giovane nelle sue notti di veglia. Ma tutto ciò non si presentava nella sua mente come un ragionamento preciso e strutturato, bensì come quella meravigliosa sensazione, erano solo brividi e tremolii che gli scuotevano gl'intestini ogni domenica attorno alla vasca delle bestie.
Fu un attimo e le stelle lungo l'orizzonte s'annullarono all'arrivo dei primi, timidissimi raggi di sole. Avrebbe dovuto aspettare ancora del tempo prima di poter rientrare: fintanto che suo padre non fosse venuto a dargli il cambio, lui avrebbe dovuto rimanere là, ad aspettare che in casa ci si svegliasse. Ma, in fondo, a S. non dispiaceva nemmeno granché: l'alba era uno di quegli eventi che l'affascinavano di più. Il sole, che, finalmente, si concedeva, a poco a poco, allo sguardo di quell'angolino del mondo, era per lui un dono meraviglioso. Le colline si mostravano, allora, con timidezza. Emergevano i profili del villaggio e della chiesa; tra una valle e l'altra si vedeva, adesso, un fitto banco di nebbia impalpabile; lungo l'orizzonte s'allineavano una dopo l'altra le fasce di colore diverso, via via sempre più luminose. E quando il sole, con la sua sfera un po' schiacciata, stava per mostrarsi tutto bello paffuto, ecco che arrivava suo padre, col suo passo pesante e deciso, a dirgli che poteva finalmente rientrare.

domenica 6 settembre 2015

UNA STORIA D'AMORE, LA PIU' BELLA

Sono innamorata, innamorata come mai nessuno nella storia dell'universo. Forse ci sono state storie che qualche eccellente poeta ha raccontato elevando tali amori alla memoria secolare, ma il mio amore è al di là di tutto ciò, è un amore decisamente diverso, decisamente più grande, che non ha bisogno di grandi autori per essere consegnato alla storia. è un po' come paragonare una formica a un elefante: la prima è una creaturina pressoché invisibile quando osa arrampicarsi sulla pelle dura del secondo. Così, come l'elefante cioè, è il mio amore: Romeo e la sua Giulietta, Paolo e la sventurata Francesca da Rimini, tutti loro e tanti altri sono un nulla, meno che polvere! Il mio amore surclassa tutti questi in ogni aspetto. Mi spiego e dimostrerò che non mento, che sono del tutto sincera.
Il mio amore va avanti da tempo, da così tanto tempo che, forse forse, ormai sarebbe possibile definirmi folle - anche se folle, penso io, è qualsiasi amore in fondo - e meriterei questo nome proprio perché la mia passione è tale da superare la normale concezione d'amore. Qualcuno, non molto gentilmente, potrebbe definirmi una maniaca, solo perché credo profondamente in questo mio amore.
Diciamo che è iniziato tanto e tanto tempo fa, l'amore, ma, per ora, preferirei non dire da quanto tempo va avanti, perché altrimenti dovrei anche ammettere la mia età e, come si sa, non bisogna chiedere alle donne quanti anni hanno, così come non bisogna mettere le mani nelle loro borsette. Quando iniziò questo mio amore fu una follia inattesa, qualcosa che nemmeno io avrei potuto sognare. Un fulmine a ciel sereno ed ero perdutamente innamorata, completamente cotta della creatura più miracolosa del creato.
Il nostro primo bacio fu qualcosa di meraviglioso e lo ricorderò sempre come uno dei momenti più belli della mia esistenza: potrei descrivere quel bacio nei più minimi particolari, e perché? Perché quello stesso bacio lo rivivo ogni volta che io e il mio amore ci baciamo. Proprio così, è impossibile, direbbe qualcuno, che un bacio sia sempre come il primo, molti non credono, e li capisco conoscendo il cuore di molti uomini, che un amore possa essere così saldo e potente da continuare a dare agli amanti le stesse emozioni dei primi tempi, ma, io lo assicuro, anzi lo giuro su tutta me stessa, che per noi non è cambiato nulla da quando tutto è cominciato. Per noi il tempo si scioglie e perde di significato, un po' come dicono tutti gli innamorati, però a noi succede davvero, non è solo un modo di dire … Comunque, dicevo del mio primo bacio: ogni volta che ci incontriamo ecco che si ripete quel prodigio straordinario, e tutto si concentra nel solo spazio del nostro bacio, quando i nostri due corpi, finalmente, si incontrano e divengono una cosa sola; le nostre carni si fondono insieme e scompariamo l'uno nell'altra, l'una nell'altro, annullandoci a vicenda ma rendendoci, contemporaneamente, inesplicabilmente, più forti, più 'potenti'!
A me la gente ha sempre fatto molti complimenti, perché ero bella, elegante, semplice ma, secondo alcuni adulatori, perfetta; anche con il mio dolce dolcissimo amante la gente si è sempre complimentata per la sua perfezione, per quelle sue forme straordinarie. Ma tutti - non ho ancora incontrato qualcuno che sostenga il contrario - ammettono che quando siamo insieme, uniti dal nostro amore, saldamente stretti tra le braccia dell'altro, allora diventiamo qualcosa di divino e la bellezza che sprigioniamo invade tutto lo spazio che ci sta attorno, investendo chiunque, volente o nolente.
Spesso, però, non possiamo stare insieme, o per una ragione o per l'altra: a volte io sono lontana, a volte lui manca, insomma, capita che non si può stare assieme, e, d'altronde, lui ha anche un'enorme responsabilità quindi non mi sogno di rimproverarlo. Ma anche quando è lontano, anche quando il suo impegno costante lo distrae da me e dal nostro amore, sempre io gli sono devota e fedele, sempre penso a lui e non c'è nemmeno un'azione, nemmeno un respiro che non sia dovuto a lui e al nostro amore. Non scherzo - ed è per questo che qualcuno mi potrebbe definire una maniaca! - e non sono mai stata più seria: io senza di lui non esisto, se non ci fosse lui mi estinguerei in una creatura assolutamente insignificante, morta e senz'anima. Devo a lui tutto, ogni cosa e ogni pensiero è per lui, ogni idea e ogni azione sorge in me per grazia sua! E in fondo penso sia questo l'amore: quando ogni istante è offerto alla vita per l'altro, quando non esiste niente fatto per sé, ma quando tutto è donato all'altro, a quella persona che in qualche modo inconcepibile diviene l'unico motivo per cui puoi continuare a respirare.
Dicevo, questo amore è un amore che supera ogni altro: io attendo sempre, da tanto e tanto tempo - tra poco dirò da quando, ma ancora non voglio svelare la mia età! - e ogni volta che ci rincontriamo scopriamo il significato della parola bellezza, mentre chi ci sta attorno comprende il significato di quest'altra parola: amore. Mi piacerebbe che nel mondo ci fossero più innamorati come lo sono io, innamorati che qualche maligno chiamerebbe ossessionati, ma che in verità non sono affatto ammattiti dall'amore … semplicemente sono innamorati. Io non muterei mai il mio amore in gelosia estrema, violenta, io non oserei alzare un dito contro l'amore mio, ma, se mi è concesso, ormai so vivere solo dipendendo da lui, dall'unico che mi abbia compreso e abbracciato con tutti i miei difetti.
Ripeto, non esistono eguali a me e al mio dolce cuore, non esistono e non potranno mai esistere, perché nonostante il suo lavoro che ci separa spesso, non vi sarà mai una disgrazia tale da separarci definitivamente: non abbiamo famiglie in lotta, come i Montecchi e i Capuleti, lui non ha un fratello cui io sono legata, come accadde agli sventurati Paolo e Francesca; noi ci amiamo e non conosciamo un'altra verità se non il nostro amore, il quale è eterno, indissolubile e sempre rinnovato anche nei più piccoli gesti.

è giunto il momento di ammettere la mia età, di rivelare anche il mio nome e quello della mia dolcissima metà. Ma voglio aggiungere qualcosa prima: il nostro amore è perfetto e forse non ce ne saranno mai di uguali, ma ciò non significa che gli altri amori non contino nulla - tutti possono imparare ad amare, perché, in effetti, non si tratta di imparare, ma si tratta di amare e basta!
Ho circa quattro milioni e mezzo di anni.
Il mio nome è Selene, ma tutti mi chiamano Luna.

Lui è la mia dolcissima metà, il Sole.

giovedì 3 settembre 2015

CONSIDERAZIONI ATTORNO AI FATTI DELL'IMMIGRAZIONE

Non parla un cristiano, parla una persona. Una persona, dico, perché non ho intenzione di definirmi uomo: se l'uomo è questo, allora preferirei essere chiamato 'cornacchia' o 'lumaca'. Succede qualcosa nel mondo, qualcosa di estremamente importante, qualcosa che non solo deve sconvolgere la nostra anima, ma che piuttosto dovrebbe svegliare le nostre menti sopite da tanto e tanto tempo: sembra fin troppo facile richiamarsi alle emozioni suscitate da certi orribili spettacoli che la nostra epoca è riuscita a creare, e quindi è bene sottolineare, io credo, che non è solo il nostro cuore ad essere chiamato in causa. Mi spiego. I grandi politicanti (politicucci da meno di quattro soldi) parlano in 'difesa di identità nazionali', perché questa immigrazione ci distrugge l'economia, ci toglie il lavoro, ci distrugge la cultura e altre (immani) idiozie che riempiono sempre di più i nostri già malati MEDIA. Qua l'economia, l'utile e il guadagno non c'entrano un tubo! Si tratta di uomini, i quali scappano, scappano impauriti e, terrorizzati, affrontano il loro viaggio della vita (un viaggio che non potremmo augurare nemmeno ai nostri peggiori nemici). Sono uomini; non voglio pensare alle loro lacrime, non voglio pensare alle loro famiglie, a quelle famiglie distrutte e inghiottite da un flutto troppo violento contro un altrettanto troppo fragile barcone, a quei disperati asfissiati nelle pance di vecchie navi sbilenche o di rumorosi tir su un'autostrada. Voglio pensare al di là di quegli occhi pieni di paura dopo una notte di tempesta, al di là di quegli occhi che sono la vergogna per l'intero genere umano, perché sono un crimine, un crimine sulla nostra fedina di uomini 'civilizzati'! Vorrei pensare solo agli uomini e dimenticarmi della mia emotività, rinunciando a commuovermi. Vorrei, davvero, fare un discorso sensato e freddamente logico, distaccato e oggettivo, eppure eccomi qui, è chiaro che io sia ricaduto nelle mie stesse lacrime: incredibilmente la mia coscienza rimane desta e continua voler parlare, continua a voler disperarsi nell'accorgersi che troppa gente riesce a ignorare quelle vite, vite uguali alla mia e alla tua, alla tua, a quella di te che ti nascondi dietro una scrivania, impaurito da questa crisi che potrebbe spazzarti via quel tavolino in una stanza con ventilatore - tu soffri, hai paura, e più di te soffre chi il lavoro già non ce l'ha più, le file di poveri che s'accrescono alle mense, ma più di tutti voi, più di tutti noi soffre qualcun altro: non esistono sofferenze di serie A o di serie B (forse questa Europa e questo mondo dovrebbe dimenticarsi del Calciomercato per una volta!!), ma esistono sofferenze che possono essere combattute con decisione e questo è un caso. La sofferenza di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini che dall'Africa e da una certa parte dell'Asia cercano rifugio qui, questa sofferenza può, e deve, essere combattuta.
Che sciocche e lacrimevoli parole ho accumulato fino ad ora: che senso a lagnarsi tanto? Sembriamo tutti così dannatamente paralizzati, incapaci di qualsiasi minima decisione. E siamo contenti, stranamente soddisfatti di tutto ciò: certo, ora tutti invocano una soluzione, ma la soluzione vuole essere 'diplomatica' … diplomatica?! Cosa significa questo termine tanto affascinante? Non invoco una guerra, ma mi piacerebbe scoprire il significato di una simile parola così misteriosa, una parola che è in grado di significare tutto e niente. Cosa sta dietro questa diplomazia che si vuole invocare adesso? La diplomazia ha senso tra due Stati sovrani, ma qui stiamo parlando di questo? O stiamo forse parlando di un'emergenza globale, di una tragedia mostruosa che coinvolge il pianeta intero, sconvolgendone quei miseri equilibri che, nonostante grandemente instabili, avevano promesso un po' di pace? Parliamo di una fine, la fine di tutto ciò che è stato fino ad oggi e abbiamo bisogno di qualcosa che sia concreto! Cosa? Già, cosa potrebbe accadere perché tutto questo finisse? è difficile, in fondo chi sono io, uno sciocco; eppure questo sciocco - e, se c'è riuscito lui, perché non ci dovrebbero riuscire tanti altri? - ha capito che basterebbe un minimo di libertà, non solo da quei dittatori, ma da logiche economiche folli. Non voglio parlare da cristiano, voglio parlare da persona. Voglio provare ad essere un uomo.

«Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere. "Ma io", ribatti, "non ho padrone." Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene? Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui»

Lucio Anneo Seneca, epistola 47

martedì 1 settembre 2015

STORIA BREVE DI UN ANGELO

La giornata potrebbe iniziare in un modo qualsiasi: il trillo  di una sveglia, l'odiosa necessità di fare pipì, un gallo strillone in un'aia oltre il fosso, semplicemente aprendo gli occhi in una stanza buia. Ma la sua giornata inizia in un modo diverso; ha delle responsabilità mica male! Deve compiere incarichi che solo lui può svolgere, che solo lui può soddisfare. No, non deve lavarsi la faccia e cambiare il lenzuolo del letto in cui si è girulato tutta la notte (notte che tra l'altro ha passato insonne!!!) … i suoi sono incarichi diversi e devono essere presi sul serio, molto, mooolto sul serio.
A parole sembra molto facile tutto il suo lavoro, ma forse non c'è nulla di più difficile: deve essere pronto a raccogliere ogni sogno che nella notte ha attraversato l'immaginazione di qualcun altro, non importa se bello, o incubo; deve raccogliere sogni sogno, ogni immagine, ogni figurina sfocata. E, una volta raccolto, deve accettarlo e farlo suo, imprigionarlo nel proprio cuore. E poi? E poi deve essere pronto a "spiegare", a consolare, a ricordare tutto questo …

Questo è il lavoro di un angelo: si alza e osserva chi gli è  sdraiato vicino e lo ama, gli dà forza e vigore, lo affianca nelle tenebre della notte … ed è così che inizia la giornata: «Buongiorno, amore mio»