giovedì 29 ottobre 2015

ESTRATTO SULL'ARTE

estratto da 'Testamento' - JD 00 Aa 345 (archivio personale)

"L'artista, in fondo, è sempre un diverso: o negletto o adulato, ma pur sempre diverso! è curioso, penso io, che qualcuno sia scelto dalla Musa e qualcuno no, ma penso che di ancora più curioso ci sia il fatto che chiunque sia scelto è, di fatto, destinato ad essere una creatura particolare in mezzo a un mondo di figurine tutte similissime, per non dire identiche. L'artista è come maledetto, costretto da una qualche stregoneria alla solitudine più nera, all'isolamento più assoluto. E non importa che sia accolto e lodato per la sua arte, perché anche nel caso che sia circondato da laudi per il suo operato, perché anche nel caso che la vita gli conceda l'incontro con un suo simile, artista, tale artista rimarrà sempre protetto dal mondo da una muraglia impenetrabile, attraverso la quale lui vede il mondo e il mondo può vedere lui, attraverso la quale l'arte permea e si manifesta alla gente comune, ma attraverso la quale la persona dell'artista non potrà mai passare! I segnali di fumo dell'artista riusciranno ad essere avvistati dalla gente che s'accalca, eventualmente, attorno alla fortezza, ma ormai per nessuno è possibile superare il fossato, nessun trabucco può scalfire le alte mura, né alcuna scala sarà mai abbastanza robusta e lunga per sfiorare le merlature di lassù. Ecco cosa crea l'ispirazione della Musa, ecco cosa significa esser scelti dalla Musa, significa divenire prigionieri di fortezze inespugnabili ma che, per uno strano scherzo, sono sempre circondate da grandi città che scrutano verso tali fortezze senza aver modo di avvicinarcisi!"

martedì 27 ottobre 2015

STUDIANDO PER L'UNIVERSITA' - n°1

"Innegabilmente lo Schliemann, con la sua irrazionale fede in Omero, mostrò una volta di più che soltanto le utopie fanno progredire il mondo."
- Ranuccio Bianchi Bandinelli, Introduzione all'archeologia classica come storia dell'arte antica

24 ottobre 2015
Leggendo un semplice volumetto scritto da un tizio che, in effetti, ora mi pare alquanto geniale, mi colpì molto questa frasetta. Notevole. Un pensiero sfuggito a una penna intelligente riesce a impedire la lettura del resto dello scritto. Ci ho messo del tempo per ricominciare a leggere, per ricominciare a studiare, perché la mia mente è rimasta strozzata dall'arguzia di questo uomo.
Le utopie fanno progredire il mondo. Il mondo avanza per i sogni più profondi e insensati delle persone che questo mondo lo abitano. Il mondo non ruota perché v'è la forza gravitazionale interplanetaria, certo che no! Sono le follie, le belle speranze del mondo nostro, la nostra immaginazione.
è, per certi versi, spaventoso, ma è anche emozionante pensare che la nostra storia sia proprio una storia di sogni e di cuori. Siamo fin troppo abituati a pensare che siano le azioni a creare la storia e a imprimere un sigillo all'interno del grande volume del tempo, quando, a ben pensarci, è proprio qualcosa di meno fisico ciò che condiziona l'andamento delle giornate. Tutto, tutto è condizionato proprio dal pensiero, ed tale pensiero è tanto più efficace quanto è folle. Non una follia insana e assurda, ma una di quelle passioni insensate, forsennate e sanguigne!
Le utopie. Thomas More è famoso per una delle più grandi utopie della storia, Platone ci narra di un'utopia in cui credevano anche altri grandi uomini, tante e tante speranze si sono accumulate. E queste utopie hanno plasmato gli eventi: non solo ogni utopia è influenzata da un certo clima intellettuale, ma ogni singola utopia è in grado di influenzare e causare mille  e mille altri ambienti, rivelandosi veri e propri germi di vita per speranze nuove e ancor più forti.
La speranza. Potremmo definirla come uno slancio, la tensione che (mi sento molto romantico in questo momento!) ci spinge verso qualcosa di altro, qualcosa di meglio!


Tornerò, quando avrò più tempo, a riflettere su queste parole miracolose. Per ora: sono alla ricerca di una speranza, della mia personalissima utopia.

domenica 25 ottobre 2015

SOLO IN UNA NOTTE AFOSA

SOLO IN UNA NOTTE AFOSA
Penso troppo spesso a lui

È sera tardi,
in effetti è notte.
Molti ormai dormono,
il caldo è soffocante,
ma si dorme:
la giornata è fatica.
Una zanzara ronza
fastidiosa
insopportabile
attorno alla lampada
sul comodino.
Avrei voglia di ucciderla,
schiacciarla finalmente
per il silenzio.
Oggi ho pensato spesso a lui,
sdraiato per terra:
il cotto arancione fresco.
Ogni respiro
un desiderio,
un sogno,
una speranza,
tutto inconsistente,
tutto impalpabile,
tutto niente.
Cosa ho perso?
Non ho vissuto i suoi baci,
le sue carezze,
nemmeno i suoi respiri.
Cosa ho perso?
Ho perso l'amore dei giovani,
quelle sensazioni,
quelle emozioni,
quel sentimento.
Cosa ho perso?
Ho perso il piacere
la bellezza di un altro te,
la complicità di lunghi silenzi,
la felicità di innocui sorrisi.
Ho perso molto.
Mi rimangono tante
troppe parole inutili:
riempio i giorni di mille pagine,
riempio le pagine di mille parole,
riempio le parole di nessun valore.
M'illudo
vorrei dare tutto,
ma mi rimane il desiderio di lui,
solo il desiderio di lui.
E ora ho caldo,
tanto
tanto caldo.
Soffoco:
ho caldo e lo sogno.
Tornano le giornate passate a parlare,
passate ad incontrarsi:
mi rimarrà sempre un pezzetto,
ogni parola è parte di me.
La dannata zanzara s'avvicina:
lui impazzisce davanti alle zanzare
- è divertente.
L'ho uccisa.
Posso dormire
non riposerò
ma dormo:

spero di sognare lui.

giovedì 22 ottobre 2015

RIFLESSIONE PRIMA SUL TEATRO

Percorso personale attorno al teatro - bozza

θέατρον. Il luogo dove 'si vede'. Tutte, o quasi, le parole che descrivono la bellezza - partiamo dalla bellezza per ora - in relazione ad un pubblico sono connesse con il senso della vista, con l'atto indispensabile del vedere: spettacolo, dal latino spicio, ossia 'vedo', l'aggettivo mirabile, letteralmente 'da ammirare', 'da vedere'. Il termine teatro, per l'appunto, si connette anch'esso all'azione del vedere. Tutto semplice fin qua. Ma è evidente che spettacolo e teatro non siano affatto sinonimi: quando guardo uno spettacolo, non per forza sono seduto nella scomoda poltroncina di un palchetto affacciato su una platea attenta! Lo spettacolo è anche una partita di calcio tra Juventus e Torino, tra Roma e Lazio, uno spettacolo è la straordinaria Cappella Sistina, la Galleria degli Uffizi; ma tutto ciò non è, evidentemente, teatro.
Dobbiamo quindi introdurre una definizione di spettacolo che soddisfi tutto, che si distacchi notevolmente dall'ambiente del teatro-edificio e che si leghi a ciò che realmente può essere classificato con il termine generale di spettacolo. Ebbene, possiamo provare così: lo spettacolo è un qualcosa, una res indefinita che però ha una caratteristica imprescindibile, è rivolta sempre, e ribadiamo questo sempre!, ad un pubblico. Ecco perché si chiama spettacolo! L'etimologia lo conferma: lo spettacolo ha necessità di qualcosa da vedere  e di qualcuno che veda. Non è un evento privo di relazioni esterne, è un fatto di condivisione, sempre, sia un orribile spettacolo, sia un meraviglioso spettacolo. è il pubblico che crea lo spettacolo, ma non nel senso capitalistico della frase, ovvero non significa che il gusto del pubblico decide quale spettacolo - ciò può accadere, ma in questo momento intendiamo altro - Quando affermiamo che il pubblico crea lo spettacolo, intendiamo sottolineare come è fondamentale l'azione di chi osserva, come è imprescindibile qualcuno che sia esterno all'evento che, poi, può essere dichiarato spettacolo. Bene. Ma allora ogni volta che trovo una persona per strada mi trovo davanti a uno spettacolo? Ovvio che no, quindi è necessaria un'ulteriore precisazione. Spettacolo sarà ciò che è veduto da qualcuno, ma fondamentale sarà che questo spettacolo provochi qualcosa proprio nell'animo/anima/spirito/emotività di chi sta vedendo! Se l'azione muoverà a stupore, tristezza, compassione, allora sarà uno spettacolo realizzato e tale, sarà un evento che meriterà tale denominazione. Certo, anche quando due persone si innamorano ciò che si vede causa emozioni, sensazioni e altro, ma, a differenza degli spettacoli, ciò che accade non è semplicemente un movimento dell'io intimo delle persone, piuttosto è lo stravolgimento compiuto e completo della parte più segreta e preziosa di ognuno.
Abbiamo quindi una descrizione, per ora forse ancora alquanto oscura, di cosa sia uno spettacolo: qualcosa che avviene dinanzi a un pubblico che osserva e che è 'mosso' personalmente, nella propria intimità, da una qualche emozione/sensazione, positiva in generale, di ribrezzo, schifo e rabbia in alcuni casi particolari.
Per ora ci facciamo bastare questa definizione e proviamo a procedere, tornando al teatro. Il teatro è uno spettacolo: avviene con un pubblico, nel pubblico si creano sensazioni e si provocano emozioni. Allora perché teatro non è sinonimo di spettacolo e viceversa?
Per capirlo, come si fa sempre, dobbiamo tornarcene indietro, là dove il "teatro occidentale" è nato. L'antica Grecia delle poleis e in particolare la polis ateniese custodiscono, forse, a parere di chi scrive, il segreto vero della distinzione tra teatro e spettacolo.
In Atene il teatro era atto sacro, evento mistico per certi versi, tanto che le origini di esso sono sempre collegate, nei miti e nelle testimonianze, alla dimensione sacrale e cerimoniale  della vita quotidiana. Questo non solo in Grecia, però in Grecia antica il teatro è un vero e proprio tempio del dio, del dio Dionisio, colui che raduna in sé la doppia natura del mondo, poiché è dio ma figlio di madre mortale, Semele di Cadmo. Ebbene, il teatro è il luogo in cui la divinità e la bassezza dell'essere uomini si incontrano e si celebrano a vicenda: Dioniso non è che il paradigma dell'esistenza dell'universo, poiché esiste la Terra ed esiste l'altezza dell'Olimpo, gli uomini e gli dei. Il teatro è il sancta sanctorum dove il mistero di Dioniso si verifica, ed è a Dioniso che bisogna offrire ciò che l'uomo può creare: a Dioniso si offrono sacrifici, a Dioniso si offrono i drammi, ma oltre che a Dioniso il tutto è per la città, per la comunità, perché tutti a teatro sono offerti e si offrono e a teatro a tutti si offre e a tutti è offerto! Miracolo della complessità linguistica: a teatro gli uomini offrono alla divinità, Dioniso, sacrifici e l'azione drammatica; sempre a teatro la divinità, Dioniso, offre agli uomini l'educazione attraverso i cori e le trame mitiche. Tutti danno, tutti ricevono, tutti sono dati e tutti sono ricevuti. Gli uomini danno e ricevono l'atto teatrale. Ed è in questo che sta il mistero di ciò che è il teatro, a differenza dello spettacolo: io nel teatro ti offro qualcosa, non te lo mostro e basta, ma te lo offro, te lo consegno come se ti donassi il mio tesoro più prezioso. Come in un rito io offro alla divinità, così il teatro offre allo spettatore! Ti offro qualcosa che va al di là di semplici parole, perché, in un modo o nell'altro, dev'esserci una vita nel teatro, dev'esserci un atto finto, ovviamente, recitato e fittizio, ma tale atto deve essere obbligatoriamente pieno, anzi, strapieno di vita vissuta, di vera forza vitale, di respiro e fiato, di emozioni e sensazioni, di carne e sangue, di fisicità!

Sì, ecco, a teatro c'è questa offerta, ma ci dev'essere un limite, ci devono essere delle dimensioni a quest'esperienza, altrimenti tutto è teatro: un politicante che parla a una folla, un medico dinanzi ad altri illustri colleghi in una conferenza, tutti loro tentano di offrire qualcosa al proprio uditorio, e anche qui è fondamentale una certa dose di 'finzione fisica', ma … ma manca la divinità, qui manca Dioniso, qui manca l'idea  e la consapevolezza che ciò che si sta facendo è indissolubilmente legato a un mistero indicibilmente complesso. Nel teatro c'è un luogo sacro, foss'anche improvvisato in una piazza: esiste una membrana sottilissima, una barriera invisibile ma impenetrabile che divide ciò che osserva da ciò che deve essere osservato. Non importa che si mettano in scena i grandi miti o la vita comune, o che il pubblico dialoghi con un personaggio che apertamente si rivolge alla platea: la barriera esisterà sempre, comunque e per sempre, perché quello che avviene non è un dialogo, non è un incontro normale. Qui si manifesta un qualcosa di altro, un'entità diversa dalla semplice conversazione. è il teatro.

martedì 20 ottobre 2015

ATTIMI 1

Colorando il suo disegno, chissà per quale ragione, un bambino parlava, parlava senza che qualcuno potesse distinguere chiaramente una qualche parola. I contorni erano un concetto ancora un po' fragile per la sua giovane mente, ma la conversazione - se così possiamo definirla - era estremamente vivace e, evidentemente, molto coinvolgente. Ascoltava la sua voce e si rispondeva da sé, senza un'altra opinione, senza nessun altro interlocutore. Colorava il suo disegno e intanto discuteva.

Mentre si tormentava i ditini grassottelli, ancora ben morbidi, quel bimbetto teneva il musetto un po' imbronciato e si fissava le mani. Ogni tanto faceva cadere la testa da una parte, poi dall'altra, poi di nuovo a destra, sospendeva per un attimo quel suo vagare per crollare ancora con la testa a sinistra. Teneva la boccuccia stretta tra le guance paffutelle e un pochino s'intravedevano i finissimi denti da latte. Un ciuffettino ribelle spuntava sulla nuca.

Era impossibile tenerlo fermo. Ciondolava sempre e lasciava andare in una sfrenata corsa sospesa le sue gambette. Avvolto nel vestito della festa, cercava di far passare quella noiosissima ora - manco sapeva che fosse un'ora! Attorno a lui la gente sbuffava ogni tanto, quando i gridolini si facevano un po' più forti e acuti, ma sempre di nascosto, sempre con un velo di amorevole pazienza perché, in fondo, è solo un bambino. Qui e là interveniva la mamma - la mamma! - e cercava di calmare il pargolo con un sonoro 'ssssss!': il bimbetto guardava la facciona della mamma - che bella la mamma! - e rimaneva perplesso per qualche minuto. Poi si ricominciava.

Riaccendeva e spegneva la luce, poi di nuovo, poi ancora, ancora e ancora. Una magia, quel continuo andare e venire di tutta la stanza. Ora c'era, ora non c'era più, eccola di nuovo, sparita un'altra volta. La nonna era in cucina, nell'altra stanza insomma, e per stavolta s'era lasciato sfuggire l'amatissimo nipotino. Questi, molto intelligentemente, s'era allontanato in silenzio, senza fare troppo macello; s'era allungato sulla parete, appiccicandosi al muro e lanciando in alto la manina, fino a raggiungere l'interruttore. La stanza era lì, poi non c'era più: per farla ricomparire bastava un ditino cicciottello.

Che bello, che bello dev'essere raccogliere i fiori per il semplice gusto di farlo: non pensi a qualcuno, non c'è l'intenzione di farne dono a qualcuno, no. Prendi i fiori e li avvicini l'uno con l'altro, poi ne aggiungi un altro, ancora uno e bom, hai fatto un mazzolino. Pura bellezza. Ed è solo ora che si pone il problema: adesso che ne sarà di questo bel mazzetto? Questi bellissimi fiori non possono finire per terra, perché ormai non sono più 'attaccati all'erba' … che fare? Beh, a questo punto: "Mamma, ho raccolto questi fiori per te!"
Meno male che c'è la mamma: a lei potrai rifilare tutto e sempre, e ne sarà comunque grata.

Riordina i giocattoli, il papà. La mamma cucina e quindi è toccato a papà quel duro compito. Ogni tanto sbuffa un po'. Chissà perché c'è bisogno di riordinare tutto? In fondo domani dovremo ritirare tutto fuori per giocare di nuovo, in fondo perché non lasciare tutto com'è, così che tutto sia bene in vista  e non infilato a casaccio in uno scatolone? Perché? Sì, su andiamo a dirlo a papà, diciamogli che non deve fare fatica stasera, perché non serve a nulla, visto che serve tutto domani!

"Mammaaaaaaaa!" E perché c'era questo foglio colorato in mezzo alla camera?! Ci sono inciampato! Fa male …

martedì 13 ottobre 2015

DOMANI (?), oppure FORSE

Completammo assieme la scheda e, poco prima di firmare vicino all'ultima ics, controllammo di nuovo che tutto fosse stato fatto a dovere. I dati erano stati scritti, modestamente, con molta attenzione e nessun carattere usciva dai riquadri, proprio come richiesto. Il codice fiscale era al posto giusto, corretto e preciso, le tre lettere del cognome, quelle del nome, i vari numeri, la U e la E maiuscole. Tutto perfetto. Per l'ennesima volta rileggemmo l'indirizzo, perché finalmente avessimo la certezza che non ci fosse nemmeno un errore, la sicurezza che la virgola tra via e numero non sembrasse un uno. Tutto perfetto.
Firmò. Poi mi guardò. Poi mi passò la penna.
Firmai io. Ci misi un po', perché, prima di riuscire a premere sulla carta e iniziare a trasferire l'inchiostro su quel dannato foglio, mi sentii appesantito da qualcosa che gravava sul petto. Fu come un flashback. Tutto si fece per un attimo irreale e mi accorsi che la mia mente ora vagava in una tempesta di sensazioni: paura, gioia, euforia, ansia, terrore, commozione, soddisfazione, vittoria, tutte si presentarono in una successione repentina, un vortice infinito e terribile che mi sconvolse e mi travolse. C'erano tanti momenti passati, in quell'istante velocissimo, e c'era tutta una vita che si concentrava in tante domande, in mille risposte, in altri milioni di dubbi! Riscoprii antiche perplessità, quei dubbi che si fanno gli adolescenti, quando il mondo è un punto interrogativo, riscoprii in me una parte totalmente in disaccordo con ciò che stavo per fare, ma poi emerse la felicità e la determinazione che tutto ciò avevano permesso avvenisse. Un coro, un coro di voci stonate, ognuna su una propria melodia: di qui si cantava un coro wagneriano, di là c'erano acute voci di un Lied, di qua si intonava una canzone di musica leggera, di lì un cantante punk si lasciava andare nella propria creatura inconcepibile per molti. Tutto era, in complesso, assordante, estremamente opprimente. Mi sentivo come compresso, come se le spalle mi si stessero ripiegando verso lo sterno, e come se quest'ultimo avesse incominciato ad affondare verso gli organi interni all'addome. La testa precipitava giù dal collo e veniva risucchiata in questo nuovo buco nero, mentre la pancia veniva tirata e stracciata verso l'alto, verso il petto. E tutto ciò avveniva e non avveniva: era solo una sensazione, ma terribilmente realistica. Continuavo a tenere in mano quella penna e aspettavo che finalmente questa scrivesse il mio nome e il mio cognome sul foglio.
Sentii un calore passare attraverso la pelle della mia mano tesa e paralizzata. Alzai lo sguardo e incontrai il suo viso.
Scrissi il mio nome e consegnai i documenti.
- Vi avviseremo noi, tra poco … l'incontro avverrà qui, in una stanza "protetta", dopodiché potrete andare tutti a casa. Per il primo periodo ci saranno ancora delle visite, ma via via, come vi ho detto, diminuiranno e poi verranno effettuate solo in casi particolari. Ormai e fatta! Congratulazioni: siete diventati papà!


Mi svegliai e spensi la sveglia.

martedì 6 ottobre 2015

'GUARDATELO!'

Aveva indubbiamente passato una notte terrificante, quel pover’uomo. Io rabbrividisco al solo ricordo, solo al pensiero mi viene la pelle d’oca! Pover’uomo! Le mie compagne al pozzo dicono che hanno fatto bene a fargli quello che gli hanno fatto, ma io non ne sono sicura: quale orrore!
Non posso ripercorrere quegli attimi terribili, quelle grida strazianti, ed ora sono con le lacrime agli occhi, con la mia brocca in mano. La folla si è riversata davanti alla balconata e grida, grida, lo insulta, lo stuzzica, lo prende in giro, e lui rimane lì impassibile, immobile, come da un’altra parte, sembra che quella che gli sta succedendo, stia in realtà succedendo a qualcun altro, non a lui. Sono accorsi tutti alla balconata, anche i magistrati dell’Impero sono qui, vicino al Governatore, guardano fuori, verso la gente strepitante, scrutano la plebe infervorata. Da dove sono io, nell’angolo vicino alla porta della servitù, vedo anche il responsabile delle economie della Provincia, con la sua testa pelata, luccicante nella luce della mattina. Ci sono i soldati, vicino al seggio del Governatore, e il carceriere, l’aguzzino del pover’uomo, tiene in mano la sua canna con cui lo ha fino ad adesso percosso, senza pietà, eseguendo meccanicamente e quasi con piacere gli ordini. Livio rimane un poco più indietro, proprio appoggiato alla sedia del Governatore, coperta da una pelliccia africana stupenda; Livio è un brav’uomo in fondo, ormai sono anni che tenta di riappacificare il mio popolo con Roma. Mi sembra incuriosito.
La folla sta urlando, i volti che intravedo sono sovreccitati, euforici! E tutti additano quell’uomo con ferocia, ora gridano ‘A morte!’ oppure ‘A morte l’eretico!’ oppure ‘A morte il bestemmiatore!’.
Pover’uomo.
Il governatore è in piedi, davanti al suo seggio, spazientito, non sa cosa fare, è evidente: si tormenta le mani, parlotta tra sé e sé, suda.
La folla continua ad aumentare, la piazza è stracolma e anche i tetti cominciano ad affollarsi di curiosi.
Anche una semplice serva come me può immaginare cosa stia pensando il Governatore: ‘Io sono Roma dinnanzi a loro, e ricordarmi del mio ruolo ci sono i collaboratori, gli inviati dal Senato, i monumenti di fronte a me, come la colonna istoriata che si innalza raccontando a tutti la sconfitta dei Puni. Tutto qui mi ricorda che sono Roma! Ma cosa fare? Lui non ha fatto nulla ai miei occhi, e poi anche mia moglie dice che …’
Ecco che entra la Signora, la moglie del Governatore. È accompagnata da una sua ospite.
Il Governatore sembra essersi deciso, si muove in avanti, si sporge sulla piazza: ‘Guardatelo! Questo me lo avete consegnato e io l’ho interrogato …’
Lo guardo, il pover’uomo: il suo torso nudo, la sua barba sporca e lunga, la veste di porpora che gli hanno messo addosso per scherno. Ha anche una corona! Di spine!
Pover’uomo. La Signora si è girata, rattristata dallo spettacolo osceno di quella folla così rabbiosa con un uomo tanto docile. Si regge alla sua ospite, la quale non ha distolto lo sguardo.


Antonio Ciseri, Ecce Homo

domenica 4 ottobre 2015

EPIFANIA, rivelazione

1
Rincorsi una leggera farfalla bianca,
nei prati davanti a molta neve, là
dove serene scorrevano le estati.
Profumava l'erba e il vento
il vento scuoteva le fronde
- un rumore romantico.
Mi parlarono messaggeri dall'alto.
Ascoltate, umani compagni di vita,
ascoltate, creature come me basse,
inette sciocche creature, ascoltate:
parlarono quei messi dall'alto,
voce soave e celestiale, parlarono.
Antiche parole tornarono di nuovo,
silenti per secoli e secoli, come un sonno
- come un tuono si ruppero i cieli.
Dimenticai le montagne e i fiori
dove c'è la strada incontro al bosco,
tra ombra e luce dimenticai,
con una farfalla come meta dimenticai.
Ascolta, ascolta, ti prego ascolta,
di notte, di giorno,  all'alba, al tramonto,
ascolta, piccolo, grande, umile e superbo.
E udii un canto. I messaggeri dall'alto:
«Obbediamo, volontà Sua,
obbediamo, è bellezza soave.
Sei tu uno dei custodi cacciati,
figlio del peccato, figlio di Lui?»
Le labbra incollate. Perché?
«Sei tu, creatura superba e umile.
La fiamma della notte sulle umane genti
ha bisogno di fuoco, prima che cali
il tramonto - alla fine giungerà!
Sempre tendono gli uomini a una fine
non per volontà Sua, ma per loro capriccio:
la morte è una comoda certezza.
Piangi, figlio di uomo, se sulla morte costruisci
poiché scegliesti la peggiore,
fondamenta più fragile non è al mondo,
più che l'unica logica certezza.
Dovunque si muore, orrore e morte,
ecco di cosa da Adamo sappiamo:
è più facile credere nella morte.
La speranza è orrore»
Di nuovo la montagna, il bosco, la strada
rividi la vita tutta verso la fine,
tutto verso una morte.

2
Piangere, solo questo davanti alla verità,
cosa fa un figlio
se la madre muore?
Piangere, fu solo pianto.
La disperazione volava lontano,
dimentica di me in quel momento:
non disperato, quanto sconfitto.
Ascoltate, ascoltate vi dico,
perché è orribile vivere per morire,
illudendosi che sia la verità.
Ascoltate, ascolta ti dico,
perché è terribile morire senza vivere,
andando sempre verso una fine.
Fatti non fummo per vivere e morire,
ma per vivere e in eterno.

3
Tornava delicata, soffice e leggera,
la farfalla, bianca come la neve.
Non c'era più tempo, ora,
per rincorrere quella creatura,

solo per correre con la propria vita.