giovedì 31 luglio 2014

DESIDERI

Io vorrei:

. l'amore, ovvero una persona che mi abbracci con calore, che mi dia un bacio con delicatezza sulla guancia e sul collo, che mi dia una carezza sulla spalla nuda, che mi guardi mentre è sdraiata sul divano e io accendo il televisore per guardare un bel film; ovvero una persona che io possa coccolare, con cui possa sdraiarmi sul divano e stare in silenzio, una persona da osservare come di nascosto, sorridendo in un certo modo compiaciuto. 

. una famiglia, perché vorrei crescere qualcuno con i miei valori, vorrei poter trasmettere a qualcuno le mie 'conoscenze', vorrei ritrovarmi a festeggiare il Natale con la persona che amo e con il frutto del nostro amore.

. la fama, ovvero che qualcuno sappia il mio nome, e non qualcuno che io conosco, ma qualcuno che non mi ha mai parlato in prima persona; ovvero che qualcuno dica il mio nome con un poco d'ammirazione, non tanta!, solo un pochino.

. un amico, come Carrie e Miranda (sex & the city), che ci sia sempre e con cui divertirmi e confidarmi, con cui sparlare e mangiare un quintale di gelato al cioccolato!

. una casa in cui raccogliere i miei libri su una parete, guardarli, prenderli e sfogliarli, farli leggere a un figlio (se mai ne potrò avere uno), leggerli e rileggerli di nuovo, all'infinito.

. un album, dove mettere foto di ogni momento della mia vita, dalla mia più lontana gioventù fino al giorno stesso in cui sfoglierò quelle pagine; un album in cui raccogliere le foto della mia vita!

martedì 29 luglio 2014

2^ LETTERA A G.

19 luglio ----
Caro G.
Semplicemente oggi ti scrivo perché avevo assolutamente bisogno di scriverti di nuovo, di pensare che queste mie parole raggiungano te e nessun altro, solo te che mi sei stato vicino in questi anni e che hai fatto quello che potevi per me.
Le vacanze sono iniziate e finalmente mi sono preso qualche attimo per rimanere solo con me stesso, per sentirmi abbandonato anche da me stesso in un certo senso, per perdermi in una stanza che mi sembra vuota, ma che risuona di troppe voci diverse.
Ultima estate prima della fine della scuola.
Ultima estate prima di iniziare una nuova fase della mia vita, perché in effetti, se tutto andrà bene, dopo quest’anno io dovrò abbandonare quelle aule, quei professori, quei quaderni, quei compagni, e incamminarmi in una nuova ‘avventura’. In questi giorni ho avuto modo, in questa mia prigionia auto-forzata, di fermarmi un attimo, in mezzo alla stanza, con la porta chiusa e il sole che entrava dalla finestra con le tendine ricamate, i piedi senza scarpe sulle fredde piastrelle. Mi siedo qui e aspetto, non posso far altro che aspettare e non aspetto un arrivo, una novità, un cambiamento: aspetto che il tempo passi.
La mia mente, mentre il respiro si fa più regolare e sereno, inizia ad agitarsi, a scuotersi convulsamente ed è allora un susseguirsi di immagini l’una assolutamente scollegata da quella che segue, in una montagna di voli pindarici da qui fin là, da una cosa a tutt’altra. Mi ritrovo a pensare a quello che farò, a quello che devo decidermi a fare, a cosa vivrò dopo e come dovrei poi, in una certa prospettiva, prepararmi. Mi ritrovo a sognare di calcare finalmente quel parquet scuro baciato dai fari multicolori, con la voce forse e sicura, che attraversa tutto l’ambiente, ma poi eccomi in una stanza bassa e con la luce al neon, in piedi dinnanzi a ragazzetti acneici che non vorrebbero essere lì ad ascoltarmi perché la play è molto più interessante delle mie monotone parole! Ma ancora tutto non finisce, perché proprio questo schermo mi appare davanti agli occhi e su una pagina di testo si rincorrono, apparendo a poco a poco, le lettere di un nuovo testo, di una nuova storia, eppure anche questa immagine svanisce immediatamente,è questione di pochi istanti e di nuovo sono le parole di una canzone che opprimono il mio cervello alla ricerca di una risposta definitiva. Ma ecco che in quella musica le parole sono come cambiate, il testo è diverso da come lo ricordavo e in effetti quelle parole non sono che le parole di mia madre quando mi disse: studia prima all’università, per solo una laurea breve, poi vedrai!
Ma adesso il mio respiro non è più rilassato e all’agitazione della mente segue l’ansia nel cuore: sento che i battiti si fanno più concitati, si susseguono precipitosamente e spaventosamente mi sento girare la testa, in un vortice di nuove immagini, che ho già visto, ma si ripresentano  a me, chiare e terribili, non perché paurose di per sé ma perché accostate come in una sorta di album spaventevole!
Ora che ti scrivo, ti scrivo che ti voglio bene, che avrei voglia di vederti e di abbracciarti, di poter passare con te un pomeriggio, sotto l’ombra di un albero seduti su una panchina, che vorrei poterti parlare faccia a faccia, mentre tu annuisci e mi guardi fissamente, come fai sempre tu. Vorrei che tu sapessi che consigli darmi, e vorrei non essere così ottuso – come in effetti sono – da non riuscire ad attuarli. Vorrei vorrei vorrei! So solo che vorrei fortemente che tu ci fossi, che non fossi solo un’immagine lontana e che ancora mi parlassi dal vero, mi potessi guardare diritto in volto e mi potessi sorridere, con il tuo vecchio sorriso.
Tutti credono che ci sia dell’altro, che io mi sia in un certo senso innamorato, ma semplicemente io ti voglio bene, mi sono reso conto troppo tardi di avere una persona diversa che però mi comprendeva, che mi capiva e mi accettava, che non aveva alcun problema di farsi abbracciare da me: non un abbraccio rigido, formale, ma i nostri abbracci sinceri, che succedono per strada quelle rarissime volte che ti vedo, quando io metto il mio mento sulla appoggiato alla tua spalla e tu chini la testa sulla mia, quando io mi prendo da solo le braccia dietro la tua schiena e tu inizi – e questo succede sempre, sempre, anche quando, separati, ti sto a fianco e parliamo qualche secondo – a farmi una sorta di grattino sotto la scapola, sulla schiena, quasi una carezza.
Solo questo.
In questa mia solitudine.
In questa mia confusione da adolescente ridicolo e sentimentale.
In questa assurda preoccupazione per un domani che in realtà io stesso penso sia molto lontano.
In tutti questo io vorrei averti vicino per un pomeriggio, per un pranzo, a prendere un caffè al fresco.
Vorrei ancora parlarti di quello che mi accade, delle decisioni che – sebbene misere e superflue – ho preso in questi ultimi mesi.
Vorrei non doverti scrivere per una volta.
Vorrei che più spesso i nostri occhi si incontrassero, che le nostre parole fossero ascoltate direttamente.
Mi manchi davvero tanto G.
Nella chiusura e come saluto immagina uno dei nostri abbracci. Ti stringo davvero forte.
Ti voglio bene.

Il tuo amico, J.

giovedì 24 luglio 2014

SENSAZIONE .. TERRIBILE

'A dir poco triste. C'è qualcosa che non mi convince, qualcosa che mi lascia sospeso, mi tiene in bilico, sospeso a mezz'aria nell'insicurezza più prepotente. I muscoli delle braccia e delle gambe in un certo modo formicolano e mi sembrano come costantemente solleticati dall'interno. La schiena e tesa e i muscoli che vi si agganciano scricchiolano a contatto con le mie ossa. Insicurezza. Forse è insicurezza, ansia, paura. Terrore? 
In alcuni momenti è terribile eppure questa sensazione in un certo senso è piacevole, mi ricorda che sono vivo, che sto vivendo e che non sono un feticcio su cui passa come un rullo compressore la vita, ma una marionetta semovente che si destreggia sul palcoscenico in un teatro'

martedì 22 luglio 2014

GERMOGLIO

2 STORIE BREVI:

 Prima avevo freddo e mi sentivo stretto in una morsa, costretto in uno spazio limitato, ma non meglio definito. Tutto attorno a me era come immerso in un sonno profondo. Qualsiasi cosa volessi mi era impedita ed ero come mummificato, mi sentivo in gabbia, ma una gabbia talmente piccola e angusta che poteva ospitare soltanto la mai mole e null'altro, come se fosse stata costruita su di me, per me. Poi, non saprei dire bene quando, sentii un brivido e la prigione, a poco a poco, mi fu addolcita da una leggerissima brezza, un soffio caldo che mi fece respirare con avidità. Dopo quella brezza venne un calore dentro, una fiamma piacevole che mi si insinuava sempre più in profondità, e da lieve lume si accresceva in incendio bruciante. Contemporaneamente la mia prigione, attorno a me, mutava, si faceva più spaziosa, più comoda e confortevole: la prigione, che prima sembrava essermi stata cucita appositamente addosso, ora era uno spazio in cui il calore, e non più il freddo, trionfava su ogni altra sensazione. 
La mia prigione, prima oscura, fu all'improvviso attraversata da un fascio di luce, un semplice raggio che attraversò l'oscurità più soffocante. Una sorta di finestrella si era aperta verso il mondo e da lì tentai di osservarlo, ma la luce mi accecava: non riprovai a guardare fuori. 
Ora si stava bene in quella prigione che si faceva via via più amabile per me e che mi accoglieva sempre con più delicatezza, ma nemmeno questo durò in eterno. 
La luce un giorno si fece prepotente e invase interamente la mia prigione, io fui sospinto fuori verso il mondo e ... ecco che ora germoglio.

 Mi ricordo che prima mi sentivo come galleggiare, sospeso in un mondo comodo e caldo, immerso in un'oscurità in qualche modo rosea. Ricordo che quei giorni erano davvero belli e ricordo che nulla dovevo fare. Ero in una sorta di gabbia, una sorta di prigione, ma non di quelle spartane e disumane, di non quelle dove si eseguono torture o altro, no!, io avevo una prigione che qualcuno definirebbe d'oro: vivevo comodamente abbandonato in questo fluttuare, mangiavo in quantità e non mi affannavano assolutamente le preoccupazioni di tutti i giorni. Ricordo di essere stato felice in quella prigione, e sebbene solitamente la prigione non sia un luogo associato a ricordi positivi, non posso né negare che fosse una prigione, né negare che siano stati giorni favolosi.
Ricordo che a un certo punto qualcosa mutò, di quell'equilibrio perfetto si incrinò una qualche fibra essenziale e allora ricordo che provai una sensazione di ansia. Quando questo accadde mi ritrovai a sentirmi un po' sballottato qua e là, ricordo di aver sentito voci e grida, ricordo di essermi sentito spinto verso un qualche luogo da una qualche cosa, a me sconosciuta. Ricordo di aver iniziato ad agitarmi.
Ricordo che a poco a poco abbandonai quel caldo così affettuoso e confortevole, nel quale avevo vissuto per innumerevoli giorni, e fui colpito da una sferzata gelida, una brezza fredda che mi urtò i sensi e mi sconvolse, ricordo tanta luce che mi spaventò e ricordo le mie grida. Stavo nascendo.

martedì 15 luglio 2014

STORIA DI UN PICCOLO PRINCIPE

C'era una volta, tanto tempo fa, un bambino che sedeva immobile per terra, vestito di stracci, i piedi scalzi. Sedeva appoggiato a un cippo lasciato lì come monito per i carretti. Il sole ormai tramontava e l'enorme piazzale si andava pian piano svuotandosi. Il Palazzo era immenso davanti a lui, si innalzava glorioso e splendente; le pietre, enormi e color della terra, si stagliavano impassibili disposte ordinatamente da mani sapienti, e allora quale meraviglia erano quelle arcate e quelle finestre che apparivano così delicate! 
Ma il bambino era affascinato non solo dall'aspetto esteriore di quell'edificio, ma anche, e soprattutto, da quello che vi era custodito: quelle grandi porte avevano accolto e, in un certo senso, imprigionato migliaia e migliaia di straordinari artefatti. Tutti i giorni, o quando Mastro Pietro lo mandava a prendere il latte, o quando, non avendo nulla da fare, vagava per le strade della città, si soffermava a osservare il via vai di gente che entrava in quei portali così possenti, trasportando su carretti o statue, o tele, o tessuti pregiati, o qualsiasi altra cosa preziosa si potesse in qualche modo trasportare. Rimaneva abbagliato da quello sfarzo e ogni tanto, quando Lui in persona si mostrava ad accogliere un nuovo dipinto o un nuovo artista da accogliere nella sua cerchia, lo scrutava cercando di capirne il segreto, come se in quell'aspetto, così ricco, lussuoso, ci fosse il mistero di tutta quella ricchezza.
Quel giorno le porte già stavano chiudendosi - eccezion fatta per una che serviva da porta di servizio, nonostante qualsiasi re si sarebbe ritenuto onorato se fosse ci fosse passato attraverso.
Niccolò - questo il nome di quel bambino - si alzò e si incamminò per la via. Non stava andando a casa, in quel lettuccio sfondato che Mastro Pietro gli aveva preparato in solaio, tra i topi, infatti i suoi passi, e nemmeno lui avrebbe saputo spiegare perché, lo conducevano verso la porta della città e oltre, infatti arrivò alle mura e proseguì. 
Una volta fuori della città Niccolò continuò a camminare per la strada che a poco a poco veniva sempre di più inghiottita nella penombra della sera. I campi, gli alberi, i grandi cascinali della campagna toscana si profilavano su quelle colline e tra quelle vallate che ancora erano baciate dai dolci raggi del sole.
Niccolò pensava all'ultima volta che aveva visto Lui, e ricordava quanto fosse stato particolarmente affascinante in quel giorno, avvolto in un leggero mantello verde smeraldo, decorato da tante piccole pietre preziose trasparenti - non ricordava bene come si chiamassero, forse 'diminti'; era arrivata, dalla bottega di uno dei grandi pittori che in quel momento erano nelle Sue grazie, una nuova tavola che - questo glielo disse un passante - era particolarmente attesa a Palazzo poiché rappresentava uno dei temi più amati da Lui: la Primavera. E effettivamente Lui, anche agli occhi di un giovanissimo come Niccolò, appariva, mentre aspettava che il carretto fosse vicino al portone, come un bambino ansioso che osserva bramoso la mamma che, per Pasqua, ha fatto il pandolce; Niccolò ricordava quegli occhi così pieni di ansia e allo stesso tempo gioia e ancora meglio ricordava l'espressione che Lui aveva avuto quando il telo era stato rimosso - proprio lì, in mezzo alla piazza - da sopra quei tocchi così sapienti: la bocca era rimasta aperta, sbigottita, come se mandibola e mascella si fossero separate per sempre, lasciando una voragine in mezzo; la lingua era come ricaduta all'indietro, soffocando il padrone di casa e lasciandolo muto, dinnanzi a quello spettacolo; gli occhi, prima in attesa, si erano aperti, dilatati, come a raccogliere ogni piccolo dettaglio, perché nulla andasse perso di quella straordinaria opera. 
Niccolò mentre camminava rivedeva tutto questo e un po' si sentiva triste: anche Niccolò voleva essere come Lui.
Ormai la notte stava per calare definitivamente su quel giorno, ormai le ombre si allungavano per i prati e si confondevano con l'oscurità di un cielo stellato, ormai Niccolò era stanco di quella giornata e allora decise di fermarsi: uscì dalla strada, fece qualche passò nel prato e sedette sotto un'albero, protetto dal vento notturno. Si addormentò.
Si risvegliò in un letto: un materasso di piume soffici, una coperta leggera gli copriva il corpo, che non era più magro e affaticato, ma vigoroso e grassottello, ben pasciuto; attorno a lui l'oscurità, ma non le tenebre del solaio, no!, né la notte d'estate, no!: Niccolò si era risvegliato in un letto con un baldacchino e le tende erano tirate. Scese dal letto, ma, mentre apriva la tenda per mettere fuori la prima gambetta, la luce del sole lo colpì agli occhi e per qualche attimo non fu in grado di vedere. Poi capì: era ormai giorno! 
D'istinto, quasi come se fosse un movimento naturale, allungò il braccio, serrò la manina attorno a una cordicella e tirò. Un campanello squillò e subito entrarono due giovani signorine che, senza dire una parola, lo vestirono e lo lavarono. Uscite le signorine, entrò un giovane uomo con la colazione: meraviglia delle meraviglie! Pandolce, miele, latte caldo e marmellate, uova sode e carne fredda!
Mangiò e fu ben sazio, come mai prima d'ora - e infatti quella colazione era più abbondante di qualsiasi pasto avesse mai fatto in vita sua.
Niccolò poi, e non avrebbe saputo dire nemmeno lui perché e per come, si ritrovò in un'altra stanza, con soffitti altissimi e immense finestre che davano su un rigoglioso giardino. Seduto a un tavolo, circondato da carte e scartoffie, si trovava un uomo possente e barbuto, con un cappello rosso in testa da notaio.
«Caro il mio piccolino» iniziò l'uomo «oggi è un giorno importante lo sai, no?»
«Sì» disse Niccolò rispettosamente, chinando un poco il capo.
«Oggi è il giorno di Pasqua, bisogna andare a messa»
E di nuovo inspiegabilmente Niccolò si ritrovò in un altro luogo, ma questa volta non era una sala, bensì la superba aula del duomo, e sedeva poco lontano dallo zio, qualche banco più indietro. Era il momento della comunione. Ma non fu il sangue di Cristo a essere offerto, perché degli uomini presero a colpire i suoi cugini e molti caddero, poi qualcuno lo prese per il collo e pugnalò anche il piccolo Niccolò.
Il sogno era finito, ma mentre Niccolò sognava quel tragico evento che gli era stato raccontato da qualcuno tempo prima, di quella tragica congiura attuata da viscidi nel segreto della sagrestia di una cattedrale, lo stesso Niccolò, che per una notte, per una volta, anche se solo in sogno, era stato finalmente come Lui, moriva: degli ubriaconi, convinti che un bambino con i piedi scalzi e vestito di stracci potesse proteggere un tesoro, uccisero il giovanissimo Niccolò. Questi, però, morì felice: per quella volta era stato vicino a Lorenzo, a Lui; per una volta, almeno, era stato ricco, aveva mangiato, aveva dormito comodamente, aveva camminato sotto i soffitti di Palazzo Pitti, tra le opere amate dal Magnifico; per una volta era stato come un piccolo principe.

martedì 8 luglio 2014

ORA ERA LA'. MORTA.

In anni e anni Marisa non aveva mai capito niente dell'amore. A scuola, circondata da decine e decine di coppiette innamorate, non aveva mai cercato di indagare quei rapporti, anzi si era, con il passare del tempo, resa del tutto indifferente a quelle relazioni. Marisa non aveva mai conosciuto il calore di un bacio appassionato, la forza di due braccia affettuose mentre si congiungono attorno a te. Marisa era sempre stata sola. Aveva avuto amiche, ma nessun ragazzo, nessuna piccola cotta. Marisa non ci faceva caso, non si poneva il problema della solitudine. Oramai era una donna, una giovane, anche piuttosto attraente, donna, immersa nello studio della letteratura in università, travolta dai suoi piccoli piaceri, come addormentarsi accoccolata nel letto con un buon libro, o bere un tè alle tre del pomeriggio, o sedersi nella doccia mentre l'acqua scorre costantemente dall'alto. 
Quel giorno camminava speditamente appena fuori della metropolitana, la borsa con dentro i libri e il PC le pendeva dalla spalla sinistra. Era sera. Tardi. La lezione era finita alle sei e lei aveva pensato di rimanere a Milano per cena. Quella sera faceva piuttosto freddo e ogni quattro o cinque passi Marisa si sistemava accuratamente la sciarpa di lana attorno al collo e sulle orecchie. Non mancava molto alla scala che l'avrebbe condotta al treno sotterraneo, ma il freddo era grande. Un piccolo bar, semivuoto. Marisa entrò in un piccolo locale quadrato, un piccolo bancone da un lato e due tavolini, con tre sedie ciascuno, dall'altro. Una cameriera, piuttosto attempata, e due uomini rudi. Bevve un caffè, in silenzio, da sola, senza zucchero.
Ormai stava diventando davvero tardi e sarebbe stata un ottima idea uscire di là e raggiungere la metropolitana e da lì la Stazione Centrale. Uscita dal bar fu invasa dal freddo ma, decisa, s'incamminò verso la scalinata.
Un vicolo. Due uomini, alti e poderosi l'afferrano e la trascinano nel vicolo buio, casa di gatti randagi e scatoloni ammuffiti, uno di loro le tiene una mano sulla bocca, l'altro si sta slacciando la cerniera dei pantaloni. Quest'ultimo la afferra, mentre anche l'altro si slaccia i calzoni. Il primo la sbatte a terra su un mucchio di scatole vecchie e rotte. Marisa ha rinunciato a urlare, è muta, è assente. I suoi occhi lacrimano, continuano a uscire lacrime, continua a piangere. Lei non aveva conosciuto mai l'amore, non aveva mai avuto un rapporto, non aveva mai ... Lei non aveva amato. I libri che amava le avevano raccontato un amore etereo, soave, idillico, celestiale. Attraverso i libri aveva conosciuto le pene d'amore, ma anche le gioie. Aveva, poche volte, ma qualcuna, sognato quell'emozione.
Ora era là. Morta.
Le sue membra appartenevano a quei due uomini che continuavano a stuprarla, a godere, a insultarla, a eccitarsi, a picchiarla, a inorgoglirsi. Quei due maschi - non erano uomini - continuarono a lungo. Marisa stette ferma, immobile. Morta.
Finirono, un ultimo pugno, un'ultima violenza e poi scapparono. Ridendo.

La trovarono due signore anziane, per caso, la mattina dopo. Chiamarono i soccorsi e fu portata in ospedale. Venne curata nel corpo. Ma nessuno curò il suo spirito. Lei non conobbe mai l'amore. Se prima non provava interesse per quel sentimento conosciuto solo sui libri, ora lo credeva una chimera.
Marisa non amò mai.
Marisa scoprì presto che uno di quelle bestie non solo l'aveva violata, ma l'aveva distrutta: Marisa era incinta, ma non riuscì a tenere il bambino. Marisa uccise quel bambino che non avrebbe mai potuto chiamare 'figlio'. Marisa ora era là. Morta. Passò su questo mondo come ogni altra persona, ma nessuno si ricordò di lei. Marisa pianse quella creatura, ma mai si sentì di piangere per un 'figlio'. E oggi è ancora là. Morta.

martedì 1 luglio 2014

NON CAPIVA ASSOLUTAMENTE

Paola non capiva assolutamente perché mamma e papà continuassero a urlare e urlare. Lei era chiusa nella cameretta dei giocattoli, le avevano acceso il televisore e sullo schermo continuavano a correre immagini di strani conigli e papere nere. Il volume era alto ma comunque riusciva a sentire cosa si stavano dicendo. Ma non capiva.
'Basta, io voglio andarmene!' urlava papà. 'Sì stronzo! Vattene!' questa era la mamma. Continuavano a urlare e a poco a poco il volume delle loro voci si alzava sempre di più. Alla televisione ora si vedevano un piccolo uccello giallo e un gattone dalla faccia lunga.
'Sono stufo! Sei una rompicoglioni!' urlava papà. 'Vattene! Non ti vuole nessuno qui!'questa era la mamma.
'Ma non è vero che nessuno lo vuole!' si disse Paola. 'Perché la mamma ha detto questo? Io voglio bene a papà! Non voglio che va via!"
Apri, con un piccolo salto per arrivare alla maniglia, la porta e si precipitò in cucina: ' Io voglio papà! Papà non andare via!'
I due si ammutolirono e fissarono il frutto del loro passato amore: era una cara bambina, bionda, con dei grandi occhi, ora arrossati dal pianto, le guance piene e morbide, le manine curiose e allegre, le gambette rapide e agili. Li fissava, in lacrime, triste. Non capiva cosa stesse succedendo ma lo percepiva: qualcosa non andava. I due adulti si guardarono e in silenzio si capirono, ultima reminiscenza di quell'intesa che l'amore sviluppa tra due persone: la 'discussione' per quella sera finì. Paola fu messa a letto e il papà accese il televisore della cucina: guardò una partita di calcio.
La mamma accarezzò a lungo il capo riccioluto della bambina, sdraiata sul lettino. Paola guardava nel buio il profilo della mamma, ogni tanto sussultava, come scossa da un singhiozzo: piangeva?
Stringeva al petto il suo amato peluche, Ma, un piccolo delfino con la coda e le pinne di stoffa multicolore. Era stato un regalo della nonna. La nonna era partita per un lungo viaggio - aveva detto la mamma - e non sarebbe più tornata, ma a lei era comunque rimasto quel delfino e la mamma le aveva spiegato che 'quando sarai triste, quando ti mancherà la nonna, stringilo e immagina che sia lei!'
Quella notte Paola strinse Ma spesso, forte, a lungo. Era triste. Continuava a non capire perché la mamma e papà stessero urlando.