giovedì 27 agosto 2015

CONCLUSA LA LETTURA DI 'IL LUPO DELLA STEPPA', HERMANN HESSE

Hermann Hesse ha scritto che non sa bene cosa colpisca così tanto i giovani della sua opera, l'opera di un cinquantenne e non di un ventenne che impara a diventare adulto. Forse noi giovani proiettiamo, con il nostro solito vittimismo, tutto ciò che ci portiamo dentro contro le parole di quest'uomo. Ma oggi parlo per me: io voglio solo ringraziare, perché anche se forse è solo colpa del mio egoismo di giovane, perché anche se forse è solo colpa della mia gioventù lacrimevole e che si compiace nel piangersi addosso, perché nonostante tutto questo il signor Hesse ha insegnato delle nuove parole a questo stupido ventenne. Questo libro rimarrà sicuramente nel mio cuore, perché in un processo come quello della crescita verso un'età più adulta, m'ha concesso una sorta di iniezione di coscienza e consapevolezza.

Chiudo così, rileggendo con trasporto - non so se un po' troppo - le pagine che più m'hanno colpito.

martedì 25 agosto 2015

LA BATTAGLIA

Tutto era pronto. Il campo di battaglia fremeva. C'era trepidazione tra i soldati; erano tutti schierati e pronti. Il nemico non si vedeva, nascosto, per il momento, oltre l'orizzonte. Ma lo scontro incombeva, pesante … Millemila, forse di più, tutti attenti, preparati ma preoccupati. Il nemico è forte, valoroso, dannatamente ben armato. È leggendaria la sua efficienza; è in grado di sbaragliare qualsiasi tattica o schieramento, forse anche chi combatte si sente in un certo qual modo inorgoglito nello scontrarsi con un simile avversario, ma per ora in ogni combattimento tutte le virtù di tutti i soldati erano sempre state soffocate: contro quel nemico non poteva bastare il valore.
Tra tutti i reggimenti, che attendevano con impazienza l'infuriare della lotta, spiccava un gruppo estremamente compatto, serio e concentrato: se tutti i programmi fossero falliti, se tutta la preparazione si fosse rivelata inutile, se ogni cosa fosse stata travolta dall'impeto nemico, allora sarebbe stato quest'ultimo battaglione la speranza di ottenere una vittoria.
Ma cosa potrebbe pensare un'anima che s'accinge a incontrare un nemico notevole in ogni aspetto? La disperazione prenderebbe forse il sopravvento a un certo punto? Sicuramente c'è qualche cuore sognante, un cuore di bambino che persevera nella speranza che si possa, alla fin, riuscire a compiere davvero un atto eroico, un atto grandioso, un'impresa eccezionale … c'è qualche cuore che s'accorge dell'attimo che incombe, ormai necessariamente: grava il peso delle armi e c'è solo voglia di evitare tutto ciò … o almeno morire in fretta.
Tutto è pronto? Tutto è pronto, non c'è che da iniziare.
Ecco che qualcosa si muove, è un attimo, un istante. L'orizzonte non era altro che una uniforme nullità: non c'era nulla, nemmeno la lontanissima traccia di un miserrimo stendardo stagliato contro il cielo, e poi … e poi la prima fila del nemico emerge, immancabile. è tutto straordinariamente perfetto. Appaiono, finalmente, le loro armature così scintillanti, una teoria ordinata di soldati che avanza come un'onda. Procede, nemmeno troppo velocemente, ma continua, si incammina e non accenna ad arrestarsi mai. Lo scontro è iniziato, infine.
La prima schiera è sbaragliata, travolta dalla determinazione placida del nemico: non c'è euforia nel loro combattere, non c'è quella boria che assale i soldati più bestiali, non c'è quella foga, quella brama di sangue che attanaglia i militi presi dal furore della guerra; s'avanza, calmi, senza troppo rumore e si vince, immancabilmente, necessariamente.
Ormai decine e decine di soldati sono caduti, non c'è altro da fare per loro: la preoccupazione dell'imminente morte è divenuta realtà, il coraggio ch'era nato dall'orgoglio di una battaglia contro un simile nemico è affogato nella triste pozza di sangue sotto un corpo immobile per sempre.
Il nemico avanza, continua e nulla sembra arrestarlo, ogni tattica - come volevasi dimostrare, come si sapeva già in partenza nel cuore di tutti - è venuta meno e tutto è inutile. Cosa si può fare dinnanzi a una simile potenza?
Sotto i piedi dei soldati nemici che avanzano scompaiono i corpi senza vita, inghiottiti dalla marcia ininterrotta e costante. L'orda nemica, ordinata e crudele, non conosce pace, non conosce battuta d'arresto: i reparti di cavalleria e di fanteria si muovono con ordine e senza mai fermarsi, amalgamati perfettamente in uno schema infallibile, capace di sommergere ogni cosa senza nemmeno troppa fatica. Dinanzi al nemico cosa si è? Si è solo una carcassa, una carogna morta da giorni, incapace di reagire, in attesa soltanto dell'arrivo di un'immensa schiera di formiche voraci che ricoprono l'intero cadavere e ne nascondono ogni lineamento sotto le loro tenaci mandibole. Sì, è un'onda questo nemico, un'onda di tsunami che prende tutto e non si ferma, non conosce l'arresto davanti a un ostacolo: l'ostacolo viene assorbito e svanisce nel nulla, per sempre smarrito nella pancia del nemico, perennemente dimenticato, cancellato dalla memoria del mondo.
Ormai tutto il capo di battaglia è suo, ormai non c'è più nessuno che possa combattere: cadaveri, cadaveri ovunque, calpestati dal cammino del nemico. Isolato, eccolo là, resiste l'ultimo reggimento, quel reparto tutto particolare, quel piccolo drappello cui tutti hanno dato fiducia, quell'angolino in cui tutti hanno riposto la loro estrema speranza di salvezza: è ancora compatto, sembra ancora solido nella sua rigida organizzazione.
La lotta è orribile.
Ormai l'intero esercito nemico è sul campo di battaglia e è sceso dal limite dell'orizzonte. Uno sterminato stuolo di soldati scintillanti, freschi di mattino, come appena svegli dopo una nottata ristoratrice, passata tra i sogni più lieti e i cuscini più comodi.
Il reggimento combatte, strenuamente, continua e non s'arrende: tutt'attorno non vede null'altro che il nemico, deciso e vigoroso. Combatte e qua e là cade qualche soldato. Il nemico si insinua nelle fila di questo coraggioso reggimento, e si combatte anche da dentro, la lotta è dovunque, davanti, dietro, fuori, dentro, ovunque è scontro, violento e incessante, crudele.
A poco a poco il nemico attacca e sconfigge, cade il primo, il secondo, il terzo e via via tutti vengono inghiottiti nell'avanzata del nemico. Non c'è scampo.
Il nemico non conosce una sconfitta, mai. Non esiste nemmeno una cronaca di una sola vittoria di chi ha osato affrontare tale nemico: è impossibile sconfiggere questo avversario, sembra dotato di una forza sovrannaturale, quasi che l'ordine e la costanza che lo caratterizza provenga da un qualche remoto anfratto dell'immensità dei segreti dell'universo.
Questo nemico rappresenta la morte per chiunque osi disporsi sul suo cammino. La follia di certuni spinge a tentare ancora di sconfiggerlo, ma è esattamente questo: una follia!! Non c'è modo, nonostante la ricerca incessante degli strateghi militari, nonostante la tenacia notevolissima di alcuni soldati, nonostante i lampi di genio di qualche generale capace. Non c'è modo

Questo nemico, in ogni battaglia, porta la morte, porta la disfatta per ognuno. è inspiegabile: pare che questo nemico sia il più grande distruttore di ogni epoca nella storia dei secoli! Cosa si cela dietro la sua forza? In realtà è semplice a dirsi: questo nemico è la morte dei propri nemici, perché questo nemico è  la vita per i propri amici. Il nemico avanza contro i soldati e le stelle muoiono, raggiunge il reggimento speciale e la luna si annulla nello splendore. è l'alba!

domenica 23 agosto 2015

IL CONDANNATO A MORTE

racconto inserito in 'Testamento' - JD 00 Aa 345 (archivio personale) 

Aveva pianto, almeno i primi giorni. Era disperato, com'è ovvio, per la sua miserevole situazione. Erano amare, oh se erano amare quelle lacrime: bruciavano come acido man mano che scendevano lungo le guance. Non c'era stato molto da fare, però, e anche lui se n'era reso conto. Aveva avuto contro di lui qualcuno di potente e le cose vanno sempre così. Il debole soccombe. Il forte è tale. Ma c'era comunque un senso di ingiustizia, non solo per l'orribile pena, ma anche solo per il fatto di essere stato giudicato colpevole! Perché avevano scelto lui? Era un ragazzo e nient'altro. Quasi non aveva sfiorato ancora i piaceri della vita, appena uscito dalla più tenera età; e già si avvicinava alla morte, all'ultimo, fatidico istante in cui avrebbe consegnato la sua anima alle mani indifferenti del boia. Dicono che appena prima di morire tutta la vita ti scorre dinanzi agli occhi, tutti gli istanti dell'esistenza. Per lui sarebbe stato un breve spettacolo. Che cosa avrebbe ricordato? Se lo chiedeva tra una lacrima e l'altra. C'era il volto severo di sua madre, alla quale aveva sempre guardato con timore; c'erano le ore di gioco nel grande prato poco fuori città; c'era l'odore del mercato del sabato, quando l'aria è impregnata di grida da mercante e di scherzi da furfanti. Tutto si presentava ai suoi occhi avvolto dall'umida coltre di lacrime.
Poi il buio lo aveva accarezzato con costanza e allora s'era arreso. Il pianto aveva lasciato il posto allo sporco della cella, l'indifferenza rassegnata aveva soffocato la disperazione.
Le giornate passavano così, senza parole, senza gesti. Il cibo se lo ritrovava calato dall'alto quando riapriva gli occhi dopo un breve sonno senza sogni. Nemmeno poteva contare i giorni che passavano senza di lui, perché tutto era buio. Non sapeva cosa lo circondava, vedeva solo le tenebre. A volte si confondeva a tal punto che non riusciva a distinguere il sonno dalla veglia.
S'accartocciava in un angolino, chiudendosi in se stesso, in posizione fetale, alla ricerca, nella propria immaginazione, di un tocco gentile che potesse coccolarlo. Non aveva freddo, ma aveva bisogno comunque di un abbraccio caldo, di una stretta affettuosa che lo avvolgesse e lo stringesse saldamente. Non c'era un qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che lo traesse fuori da quell'oscena sensazione di solitudine? Anche la sua fantasia, man mano che il tempo nella cella passava, diventava sempre più incapace di sorreggerlo. A poco a poco le speranze si sciolsero, i sogni evaporarono e presto il suo animo fu sgombro.
Vennero a prenderlo in due, senza troppi complimenti. Lo alzarono - era uno scheletro senza alcuna forza - e lo portarono fuori. Era libero: il giudice aveva rivalutato il caso e non c'era assolutamente ragione per ritenerlo colpevole. Era libero, libero di andare e di tornare a vivere.

Lo trovarono morto, a pochi passi dal Tribunale che lo aveva giudicato, in un angolo della strada che non si vede nemmeno dall'alto di una carrozza. S'era lasciato morire di fame. Il corpo aveva finalmente raggiunto l'anima.

sabato 22 agosto 2015

IL TRIONFO DEL DIAVOLO

Il sole è alto,
farfalle, addirittura,
leggere farfalle volano,
si poggiano su fiori
- dolcissimo profumo d'un glicine,
quel gelsomino, questo roseto.
No, nemmeno un nuvola,
c'è solo il sole,
bello, luminoso e sereno,
caldo, pieno di vita.
Azzurro,
l'acqua fresca s'è posta in cielo,
il cielo è pieno, è perfetto,
azzurro.
Una voce, poi due voci, ancora voci:
sottili pigolii,
cinguettii minuti e acuti,
rompono la quiete afosa,
s'insinuano negli steli verdi dei prati,
penetrano le rocce scaldate dal sole,
carezzano gli orecchi di qualche vecchietto.
Il parco è una festa.
La mattina è quasi deserta,
lontane le grida dei bambini,
lontano il rombo delle auto:
dolcissimo profumo d'un glicine,
quel gelsomino, questo roseto.

La sporcizia avanza,
s'innalzano montagne di marciume
l'odore è ripugnante,
vomitevole,
nauseabondo:
si soffoca:
a due passi dal parco

l'inferno.

giovedì 20 agosto 2015

INIZIATA LA LETTURA DI 'IL LUPO DELLA STEPPA', HERMANN HESSE

Ho appena iniziato, sono a un terzo della narrazione eppure non posso fare a meno di fermarmi e di accorgermi che tante e tante parole non sono affatto riferite a questo Harry, ma proprio alla persona che si sta impegnando a leggere quest'opera. Quasi un libro profetico che mi viene incontro con le sue considerazioni veritiere, quasi strappate alla mia esistenza, quasi che Hermann Hesse volesse proprio parlare a creature come me. Se osservo tutti i punti in cui ho messo un segno, in cui ho lasciato un memo per il futuro, mi rendo conto di quanto sia stato sciocco a non sottolineare direttamente ogni parola: inciampo così spesso, con così tanta facilità incrocio un pensiero a me affine, con assurda semplicità scivolo su idee nate anche nel mio cuore. Sto trovando il modo di esprimere molte cose che erano spesso state solo immagini nella mia mente, cose che fino ad oggi meritavano appunto solo questo nome, 'cose', perché non erano altro che fibre inaccessibili alla mia corta capacità mentale. Perché ho aspettato così tanto tempo a incontrare queste pagine? Avrei potuto descrivermi al mondo con molta più facilità, se avessi prima conosciuto un tale libro! E in molti mi hanno sempre consigliato quest'opera, e spesso mi è capitato di dover elencare i libri letti di questo autore, dovendo io sempre ammettere di non aver ancora sfogliato questi fogli! Cosa mi ha tenuto così a lungo lontano da questo documento? Forse la stessa forza che oggi mi attanaglia e mi costringe a proseguire con una foga smisurata?
Ci sono troppe parole che mi accendono un infinito sospetto, mentre continuo: questo sospetto (che mi ha obbligato a fermarmi per riflettere un poco a proposito) è come una malcelata diffidenza verso l'autore di queste parole. Provo verso Hesse una terribile sensazione, e m'immagino a squadrarlo tutto, alla ricerca di un qualche dettaglio che mi sveli quali siano le sue losche intenzioni nascoste! Mente malata, parli ancora come un folle! Però è così: si cela un terribile segreto, ai miei occhi, dietro quest'opera che m'è così affine, così vicina … Posso trovare altre parole? No, posso solo tentare di cercarne delle altre, perché è un po' come trovarsi davanti a un insolvibile mistero arcano e non avere assolutamente le capacità per affrontarlo e risolverlo. Rimangono continui e assillanti interrogativi, persistenti, asfissianti: qualcosa che non mi sconfinfera mi obbliga ad arrovellarmi. Sono pagine troppo preziose, troppo straordinarie, eppure sono consegnate alla mia persona con un'innaturale, insensata semplicità, quasi che fosse tutta una banalità, quando, al contrario, si tratta di una vita, della mia vita! Dovremmo ricominciare da capo a riconsiderare tutta la nostra vita, dopo certi incontri: ci sono avvenimenti che stravolgono un'esistenza, che mettono in discussione, in un solo istante, anni e anni di consuetudini e ricordi; così per 'Il lupo della steppa'! Mi ritornano alla mente migliaia di istanti, di attimi inafferrabili di questi miei pochi anni di vita in cui, ora, riscopro l'eco di queste parole di Hesse.

Non so cosa sarà d'ora in avanti, perché ho come l'impressione che da adesso inizia una nuova fase: da qui, dalle cinque di pomeriggio di una giornata piovosa nella mia casa in montagna, si dà inizio ad un nuovo percorso un po' diverso, necessariamente condizionato da alcune delle parole più straordinarie che qualcuno abbia mai osato accostare all'anima mia. D'ora innanzi sarà tutto costretto da questo momento, deviato come da una carica elettromagnetica, perché lo spazio della mia vita è ora modificato, turbato da una nuova presenza inaspettata che obbliga la fisica dei miei pensieri e delle mie scelte a svolgersi secondo nuove, o almeno modificate notevolmente, leggi. Tutto era già compreso dentro di me, tutto ciò che sto riscoprendo in Hesse, ma fino ad oggi tutte queste parole non erano in me che fumo, fumo evanescente e inconsistente. Da qui molto di ciò che era etere in me può emergere con una forma più stabile, può affiorare con una sicurezza e una certezza ch'è stata da tempo ricercata. Non ho imparato, né imparerò alla fine del libro, la felicità cui anelo, la serenità che bramo più d'ogni altra cosa; tuttavia conosco adesso un modo di chiamare ciò che sono, ed è sempre un piacere conoscere un po' di più di se stessi!

martedì 18 agosto 2015

LA MORTE DI FIDIA, riscritto

Un corpo rinsecchito dagli anni, e debole. I muscoli ormai seccati sulle ossa; fibre fragilissime, quasi paglia, stirate lungo le sue braccia tremolanti. Abbandonato a se stesso, sdraiato per terra, giaceva, quel pover'uomo, come morto. La stanzetta era buia, stretta e stranamente alta. Vicino al soffitto, con il profilo incerto, s'apriva una piccola finestrella che s'apriva sulla notte ancora addormentata. Per terra s'ammucchiava qua e là una montagnola di segatura ch'era stata sparsa chissà quando. Il pavimento mandava un leggero, ma penetrante, odore di urina. Il corpo pareva un cadavere condannato a marcire: sdraiato sulla schiena, lasciava che l'aria pesante di quella misera cameretta gli sfiorasse la fronte attraversata da decine di rughe profonde e stanche; la pelle era scura, bruciata da troppo sole preso durante tante e tante giornate di fatica. Sotto il mento gli prudeva, di tanto in tanto, una vecchissima cicatrice che s'era procurato quando ancora lavorava con le proprie mani. Già, le sue mani: erano come foglie d'autunno, perse lungo il corpo, con le dita lunghe e rinsecchite, private di quella forza, di quel vigore d'un tempo. Quelle sue mani erano state per lui un miracolo, l'unica sua salvezza dalla fame e dalla povertà, tempo addietro, e ora erano così … In quella stanzetta, piccola, buia e silenziosa, giaceva solo il vecchio Fidia.
Quanto tempo mancava all'alba? Forse molto, forse molto poco: dalla finestra nessuno avrebbe potuto sbirciare l'orizzonte per ricercare il preludio di 'Aurora dalle dita di rosa', perché quell'apertura verso il mondo era troppo, troppo in alto. Ma a chi importava? A nessuno: Fidia rimaneva solo in quel luogo così isolato e dormiva. All'alba sarebbe giunto forse il momento di andarsene, finalmente, ma ancora non era sveglio e ancora non gl'importava quello che sarebbe venuto. Quella era la prima notte che dormiva: per nottate intere era riuscito a tormentarsi senza chiudere occhio, invece questa notte, inspiegabilmente, il sonno era calato sui suoi occhi e lo aveva costretto nel suo abbraccio. Questa notte dormiva, non di certo un sonno ristoratore e calmo, ma il suo corpo, stremato, munto fino al nocciolo di ogni goccia di linfa, non poteva nemmeno provare a muoversi. Questa notte dormiva, finalmente, e - caso strano - sognò.
Si sentiva nudo, eppure su di lui percepiva un leggerissimo velo trasparente che gli accarezzava il corpo; il suo corpo era tornato un uomo giovane, pieno di forza e vigore: i muscoli erano nuovamente guizzanti e pronti, solcati da vene ben definite, straordinariamente sensuali. Il petto gli si gonfiava senza alcun dolore, senza alcuna fitta pesante sotto lo sterno, e ad ogni respiro assaporava il gusto del mare che aveva davanti. Sì, perché dinnanzi a lui si stendeva, placido, un mare calmo e profumato, intento a riversare molto delicatamente piccolissime ondette con poca schiuma. Qua e là l'acqua dimenticava una conchiglia colorata, un granchietto arzillo. Di tanto in tanto un'onda un pochetto più grassa s'avvicinava ai piedi di quel giovane Fidia e allora egli si sentiva accolto nella morbida superficie sabbiosa. Si sentiva dannatamente sereno, di una serenità che nella sua vita non aveva mai conosciuto: più e più volte gli era capitato di fermarsi davanti al mare, ma mai aveva respirato il mare come in quel momento sognato. A ogni respiro accoglieva in sé dell'acqua salata, il petto si riempiva di quello strano profumo che odore non è. Fidia non poteva essere che felice, ma in un sogno, così come nella vita accade troppo spesso, quando uno è immerso in una simile gioia così straordinaria, è inevitabile che, per uno strano scherzo, per una curiosa e maledetta legge più antica del tempo, giunga rapidamente qualcosa a turbare tale gioia.
Fidia sollevò il capo, in sogno, e osservò un cielo che s'annuvolava in fretta: dov'erano stati solo azzurro e luce, ora precipitavano nuvole pesantissime e nere, nuvoloni di quelli che i contadini sperano in un'estate che si sta dimostrando troppo arida e secca. Da lontano, dove il mare era profondo e nero, iniziarono a correre onde sempre più aggressive, cavalloni via via più violenti. Presto s'alzarono meravigliosi e terrificanti muri di acqua scura, mentre dovunque iniziava a russare un vento possente e arrabbiato. Per salvarsi dalle acque che aggredivano con sempre maggior foga la riva, Fidia si ritirò in un punto più alto della spiaggia, allontanandosi intimorito dalle acque.
Un'enorme onda volle raccogliere in sé più acqua delle sue sorelle e allora la riva si prosciugò per qualche istante. Poi eccola, in una corsa folle e disperata, precipitarsi verso la costa, incontro a Fidia, completamente incapace di decisioni. Disperatamente, con quella disperazione che paralizza l'azione e il pensiero, osservò lontano, nella pancia di quel mostro liquido che s'avvicinava tra gli schizzi. Un uomo, un uomo come lui, vestito di un panno chiaro, con in mano una squadra e forse un compasso, o un filo a piombo. Era immobile e senza volto, quasi che attorno a lui non si stesse verificando un inferno di acqua. Pian piano l'onda iniziò a ripiegarsi su se stessa e a precipitare, inarrestabile. Lo schianto fu rumoroso e l'acqua si disperse fino ai piedi di Fidia, sfiorando le dita saldamente piantate nella duna. Quando l'acqua si ritirò verso la grande pancia del mare, Fidia scorse una scritta sul suolo: "Il mio nome è nessuno. La mia Patria tutti la conosceranno"
Un altro cavallone aveva iniziato la sua rabbiosa corsa contro la spiaggia e nuovamente Fidia riconobbe una figura, stavolta una donna. Una vecchia, quasi un cadavere in effetti; la pelle tirata e rinsecchita dal tempo inclemente. Un tempo, forse, era stata anche una donna bellissima, straordinariamente elegante e inspiegabilmente affascinante, magari anche avvolta da una strana aura di leggerezza; ora il suo corpo era decaduto, ma in lei resisteva una punta seducente di quella bellezza, quasi un lontanissimo profumo di quella grandezza che sicuramente l'era appartenuta. Ma nonostante quell'arcano richiamo di bello, le rughe, sulla pelle un po' scolorita, grigia, l'attraversavano come a fasci: sulla fronte creavano giochi particolari, strani disegnini tutti complessi e indecifrabili. Sul suo petto non trionfavano, gonfi e sani, i seni di una donna prosperosa: le mammelle le cadevano ormai svuotate. Quando l'onda si schiantò ai piedi di Fidia, questi lesse poche tristi parole: "Sono nuda, come pietra".
Gli schizzi, intanto, s'erano portati via quella figura così oscura e a poco a poco svaniva anche la scritta sulla sabbia. In alto mare si preparava una terza onda. Questa raccoglieva più acqua ancora delle sue sorelle, pareva decisa a superarle tutte con la sua forza e la sua maestà. Fidia sapeva di doversi aspettare che anche questa terza onda portasse nel suo grembo una di quelle stranissime figure, ma ciò che vide lo stupì in modo diverso da prima: nuovamente un uomo, ma stavolta vestito in maniera buffa, con un'espressione sul viso decisamente altezzosa e superba. Il mento, alto e affilato, pretendeva rispetto e adulazione e il suo sguardo sembrava obbligare chiunque a una devota reverenza. Sul mento di quest'antipatica figura si divertivano mille e mille riccioli di barba folta, tutta addobbata in una maniera particolare.
Stavolta, quando l'onda crollò su se stessa contro la spiaggia, nulla rimase scritto tra i granelli sottili.
Una quarta volta le acque si incresparono con violenza e una quarta volta dal mare si levò un enorme muro di acqua scura. Non emerse subito, da quella massa liquida, una figura chiara: un corpo di donna s'avvicinava, nell'acqua, e a poco a poco Fidia poté incontrare l'immagine di quell'essere. Portava un'acconciatura confusa ma non disordinata, estremamente stravagante: i suoi lunghi capelli neri erano accomodati in maniere folli, secondo un gusto assolutamente inconcepibile. Il suo visino, paffutello, sorrideva, soffocato da quell'accozzaglia di capelli intrecciati. Una lunga veste variopinta si scioglieva nell'acqua, perdendosi in mille e più sfumature, in mille e più forme: tutto quel popò di cose e colori era nauseante. "Sono inquieta - apparse lungo la spiaggia, una volta che l'onda fu precipitata a riva - e tutto esagera se stesso".
Doveva esserci una quinta onda, Fidia se lo sentiva e già aveva visto l'acqua ritirarsi verso l'orizzonte, ma stavolta non poté intravedere nessuna figura: l'onda s'avvicinò e quella che poi sarebbe forse stata un'altra immagine di donna lo abbracciò; si sentì annegare, preso da quel cavallone inaspettato e, agitandosi, il suo corpo riprese gli anni ch'aveva già vissuti. Aprì gli occhi e scorse sul soffitto un raggio di sole, flebile: il preludio dell'alba. Soddisfatto di aver finalmente visto la luce di quello che sentiva sarebbe stato il suo ultimo giorno, richiuse gli occhi, pronto a lasciarsi alle spalle le sue fatiche. Chissà che non s'augurasse di ritornare su quella spiaggia!
Ma la notte non gli concesse nuovamente il suo abbraccio e la morte non aveva ancora deciso a bussare alla porta di quella stanzetta stretta: Fidia riaprì gli occhi verso il soffitto e ormai erano molti i raggi di sole che s'affannavano a quella finestrella.
Mosse lo sguardo attorno e accanto si trovò la più meravigliosa opera d'arte che in tutti i suoi anni avesse mai plasmato: sua figlia.
In silenzio s'issò a sedere, appoggiando la sua schiena magra contro la parete: «Da quanto tempo sei qui, figlia mia?»
«Da molto, era appena l'alba»
«E perché mai non mi hai svegliato?»
«Dormivi, padre: non eri sereno, perché intuivo qualcosa di strano nel tuo sonno, ma dormivi e mi piaceva così tanto vederti finalmente sciolto dalle tue preoccupazioni»
«Ho sognato»
«Cos'hai sognato, padre mio?»
«Ho sognato l'amore della mia vita, l'ho sognato crescere e perdere il suo nome, l'ho visto invecchiare, ho visto l'amore mio perdersi in superbie e rimpianti, l'ho visto farsi elegante e farsi sciocco, l'ho visto farsi spirituale e l'ho visto arrogante, l'ho visto perfetto e l'ho visto sconosciuto … io sto morendo, figlia mia, e so che ciò che ho visto avverrà, so che diventerà tutto realtà ciò che io ho veduto in questo mio ultimo sogno, ma tu sappi una cosa, perché di tutto il sogno non credo di dover far parola a nessuno: tu sei mia figlia e, nonostante tutto ti ho amato anche più del mio primo amore, l'arte. Quando sarò nell'Ade veglierò su di te e su questo mio primo amore, l'arte: ho fiducia che tu saprai darmi soddisfazione anche quando le tre Moire avranno finalmente spezzato il mio filo; ho la consapevolezza che le maggiori preoccupazioni mi giungeranno da quel maledetto mio primo amore, il quale mi ha legato perennemente al suo giogo doloroso, eppure dolce! Tu non dovrai vivere ciò che vivrà l'amore mio, l'arte: lei subirà i potenti, si dovrà chinare a sempre nuovi signori e non sarà libera mai per tanto tempo; invero anche quando un giorno si crederà libera (di questo ne sono certo più di quanto sia certo che stamattina è sorto di nuovo il sole!), ma poi sarà ancora più schiava di quanto non lo fosse prima! Muoio, figlia mia: tu mi mancherai; l'arte sarà il mio tormento!»
Ella lo fissava con aria interrogativa: era forse un delirio?
«Figlia mia, quest'uomo, tuo padre non dovrà bere la cicuta della mia condanna: di' a tutti che mi dispiace d'aver rubato quell'oro. Il mio cuore è avido, umano … ti prego, fa' che tutti mi ricordino non per come sono morto, non per l'infamia ultima della mia vita, ma per essere stato fedele servitore, amante e sacerdote dell'arte»
«Padre - scoppiò in lacrime quella tenera fanciulla - io so che muori, so che non dovrai nemmeno ucciderti da te … ma so anche che morto tu, anche l'arte scenderà nell'Ade!»

«Non essere sciocca - fece Fidia con un sorriso paterno - io muoio: nonostante rinneghi se stessa, si muti, si trasformi, si penta e si rimpianga, l'arte vivrà! Sempre!»

sabato 15 agosto 2015

PAROLE NEL CAMMINO

(SENZA TITOLO)
Sulle pietre, vecchie,
corrono preoccupate,
affamate e fedelissime;
un antico edificio,
ma il potere di Dio
(?)
sta in piccole formiche nere.

VAGABONDI
Cadono da un albero
foglie alate e cinguettanti,
fringuelli leggeri …
Mille e mille vite sottili
sui campi galleni corrono;
gioia nei cuori, leggerezza serena.
Splende il sole ed è il caldo,
non c'è che una discreta bellezza
un sussurro …

ARRIVO ALLA CATTEDRALE
Una piccola, nascosta torre
da lontano
svetta tra le case
Svanisce
S'apre uno spiazzo
la grazia dell'occhio è
sublime gioia
nel cuore.
Opera mirabile degli uomini,
dono affettuoso per Lui:
ecco, la sua Parola
l'arte.

SALUTO AL GIORNO
La giornata tramonta
cala lenta senza timori,
occhi di sogno scrutano là,
l'orizzonte stinge pian piano.

Notte è contrario di giorno,
sonno è contrario di dolore.


Sogno e sono contento.

martedì 11 agosto 2015

INNO ALL'AMORE

1
Ricordi di una voce come tante,
brividi unici in solite parole.
Nulla di niente, una persona comune
un essere qualsiasi, gentile
(e questa è forse una stranezza!).
Che miracolo è mai?
Un profumo tutto inebriante,
cade nel petto e piove un dolce abbraccio,
crolla nel cuore una calda sinfonia.
Bianco splendore illumina il viso,
gemme sottili cinguettano negli occhi,
pupille vive e sorridenti. Affonderei
le mie mani nei tuoi capelli sottili,
un attimo di silenzio e una carezza.
La pelle liscia; sfiorerei il collo
dolcemente.
Immergermi in te,
spogliarmi dinnanzi alla tua fonte sacra,
osare avvicinare la tua vita,
sporco della sporcizia della mia.
Affogare in te,
soffocare nella tua liquida bellezza,
riempirmi di te a tal punto da finire!

2
Mostrami cosa sei, oscura creatura?
Solleva il velo che mi hai calato sugli occhi,
che cosa celi nel tuo cuore di stella?
Rubasti forse la magia della luna,
quel fascino misterioso e timoroso?
Come cogliesti la magia della notte,
dove raggiungesti il segreto della volta notturna?
Angelo, angelo profumato,
sei tu precipitato come Lucifero,
dall'alto dei cieli fino alle ombre della terra?
Sei sceso tentatore dai cieli?
Ma in te non c'è nulla di orribile,
il diavolo non conoscerà mai la tua natura,
dunque cosa sei?
Come sei capitato quaggiù, sovrano del cuore?
Tu (lo so) sei sceso,
salvatore dai cieli
per me.
Salvami. T'imploro. Salvami.

3
Addormenterei tutti i miei sensi,
cercherei così la serenità:
dimenticando tutto ciò ch'esiste.
Questo se non fossi tu la serenità.
Dormi, angelo santo,
dormi, cuore mio malato.

Dormiremo entrambi e sognerò te.

martedì 4 agosto 2015

PIANTO

Stava lì, immobile. La vita piena di sorrisi e parole aveva ormai abbandonato quell’uomo e quel corpo morto stava lì, abbandonato alle sue membra. Qualcuno lo aveva adagiato lì, su quel blocco di pietra e una donna aveva gentilmente offerto un piccolo cuscino scolorito. Il telo bianco lo isolava dalla roccia fredda, sebbene ormai lui fosse più freddo della pietra stessa. Un secondo lenzuolo era stato poggiato sul pube e sulle gambe, gli lasciva scoperti i piedi.
Il suo corpo era esangue, bianco come il marmo, ma gli aloni della decomposizione, quelle ombre giallognole, comparivano qua e là su tutto il corpo.
Il capo era leggermente reclinato a sinistra e la sua corta barba era incrostata di sporco, i capelli unti, riccioli, erano sparsi sotto quella testa ormai lontana dal mondo. Il suo volto, tirato, era spento e in quiete, le palpebre, che così pesantemente erano calate sul mondo quando era morto, erano serrate e quasi sigillate, privando tutti di quello sguardo così pacifico e luminoso che in vita aveva così tante volte ammaliato i molti. Due donne erano disperate, accanto a quel corpo morto. Che spettacolo straziante! L’una si asciugava le lacrime che incessantemente colavano dagli occhi, l’altra, anch’essa scossa dai tremiti del pianto, pregava a mani giunte, osservando quei lineamenti che ancora le ricordavano vita, ma che orami erano solo morte e vuoto. Una signora, qualche attimo prima, aveva dato loro un unguento profumato, un olio per trattare il suo misero corpo e le due lo avevano appoggiato momentaneamente sulla roccia, a fianco della testa del cadavere. Il cadavere.
Il lenzuolo segnava così bene quei muscoli poderosi delle cosce che sembrava che l’uomo fosse pronto a rimettersi in piedi e affrontare una nuova camminata. Le sue mani giacevano contratte e i buchi sui palmi erano un triste ricordo delle sue sofferente. Anche i piedi erano attraversati da due voragini enormi.
C’era una terza donna, abbandonata inginocchio ai piedi del ‘tavolo’ di pietra. Osservava il cadavere, ma non riusciva a piangere, no!, lei lo osservava fissamente, quasi in maniera distaccata, quasi fosse insensibile a quello spettacolo atroce. Apparenza! Il suo cuore era immobile nel suo petto, il mondo per lei si era fermato e osservava quel corpo sconcertata: come era possibile che quell’uomo, che tanto bene aveva fatto e a tanti, fosse ora lì, immobile, esanime, morto? Ricordava le sue parole che in moltissimi avevano udito; ricordava le sue mani, ora attraversate da ferite terrificanti, mentre carezzavano malati e bambini, mentre aiutavano qualche povero pescatore a tirare in barca le reti o mentre semplicemente portavano il cibo alla bocca; ricordava quei piedi che a lungo avevano calpestato le polveri del deserto, instancabili, come mossi da una forza sovraumana; ricordava i suoi sorrisi pacifici, i suoi sorrisi affettuosi e sinceri, innocenti; ricordava i suoi occhi che così tante volte lei aveva paragonato – solo nella sua mente di donna sciocca – a quelli di un bambino.
Ora era lì, le lacrime non le sgorgavano dagli occhi e non solcavano le sue guance impolverate, ma il suo cuore, la sua anima, nel so intimo, piangevano, si disperavano e gridavano. Un pianto amaro nell’animo di una donna comune che aveva conosciuto un uomo straordinario.

Andrea Mantegna, Cristo morto