movesi il vecchierel canuto et bianco […]
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassù nel ciel vedere spera.
Francesco
Petrarca, Canzoniere, 16
Era quasi l'alba: in inverno il sole sorge non
appena gli studenti sentono la prima campanella che li invita nelle aule. Una
mandria di giovani menti - la maggior parte delle quali, purtroppo, per nulla
fresche! - si avvicinava alle scuole. Praticamente l'intera popolazione sotto i
diciannove anni della città marciava tutta verso un'unica zona in cui s'erano
via via accumulati gli istituti superiori. Lungo un viale in particolare la
mandria si muoveva con maggior foga. Gli alberi gelati sorvegliavano il largo
marciapiedi e per terra qualche pozzanghera era una superficie gelata
scivolosissima. La prima campanella suonò e la giornata aveva inizio. Trovarono quell'uomo come si trova un
centesimo per terra: era una persona, ma non contava poi tanto. Proprio come
una monetina, in molti se ne accorsero, ma solo un bambino fu travolto dalla
curiosità, curiosità che riuscì a spingerlo a raccogliere quel tesoro. Sua
madre, quando vide che il figlio aveva toccato il ginocchio dell'uomo e che
quest'ultimo crollava di lato con la bocca spalancata, urlò. Gli studenti erano
sfilati davanti a quel corpo, lo avevano di certo notato, però non se ne erano
preoccupati. Quando la donna urlò, erano già da tempo rinchiusi nelle loro
carceri, in attesa - un'attesa disperata! - che l'ultima campanella li
liberasse dal supplizio quotidiano. Solo quel bambino e sua madre … oltre la
fila di alberi sfrecciava di tanto in tanto una macchina, incurante di ciò che
succedeva sul marciapiede. Il portinaio della caserma lì a fianco udì la donna
e accorse. In poco tempo ci furono molte persone. Il bambino, ora in braccio
alla madre sotto shock, continuava a fissare la sagoma ora coperta da un telo.
Non sapevano chi fosse … qualcuno sembrava di riconoscerci una vecchia
conoscenza, ma nessuno ne era certo. Accanto a lui trovarono un termos colmo a
metà di tè. Addosso, oltre ai vestiti, non aveva altro che una penna, dei fogli
scritti con una buona grafia, snella e brillante, e tre euro in monetine da
venti o cinquanta centesimi. Una fotografia, forse una cartolina, in cui era
ritratto un particolare di un affresco giottesco: Francesco sposa la sua amata,
"madonna Povertà".
Qui di seguito viene riportato il testo scritto da
quell'uomo (così si può supporre: certo sembra l'ipotesi più plausibile il fatto
che quei fogli gli appartenessero e che fosse quella mano inerte ad averli
vergati).
Fatemi riposare, signori. Sono stanco: non tirate
più! L'uomo non è una pelle di tamburo da tirare e battere! Oh, queste suonano
come le parole di qualcun altro. Ma da chi vengono? Boh, non è così importante:
per oggi le faccio mie, per oggi sono
mie. Ebbene, mi devo fermare un attimo,
ho bisogno di riprendere fiato prima di quest'ultima mia corsa. Sì, temo
proprio che sia l'ultima; in verità non 'temo' affatto quest'ultima mia corsa,
perché è già da molto che aspetto. Sono nato parecchi anni fa, ma non è
importante ricordarsi quanti di preciso. Parecchi, davvero parecchi anni.
L'unica cosa importante è ricordare che sono anziano. Anziano … anziano è una
parola gentile, in effetti: io preferisco definirmi 'vecchio', perché in fondo
è ciò che sono davvero, ed è ciò che sono sempre stato. Fin da giovane,
infatti, ho camminato per la vita come cammina un povero vecchiettino curvo sul
proprio bastone: piano, delicatamente, quasi impaurito, osservando i lavori per
strada da lontano. Sì, non uno di quei vecchi che si mettono a criticare gli
operai, ma uno di quelli che, seduti ad un bar, dimenticano per ore il
bicchiere con l'acqua tonica che hanno davanti alla mano e fissano l'altro lato
della strada.
Ero così, ma non rimbambito. Ero cauto ed educato,
attento, troppo attento, e osservavo, osservavo ciò che mi stava attorno.
Vorrei dire di averlo fatto per piacere, perché mi dava un'immensa gioia
osservare qualsiasi cosa mi circondasse, ma mentire: la verità è che è l'unico
modo che ho mai conosciuto di incontrare il mondo. Guardare. Toccare è qualcosa
che non sono mai riuscito a fare. Guardare, ecco tutto quello in cui, invece,
sono sempre stato bravissimo.
In questi miei anni ho anche pensato a lungo a cosa
stessi facendo, e ho spesso pensato che guardare è un po' come pregare. Tu ti
metti lì e cerchi di capire che cosa ti trovi davanti. Inizia così un dialogo
silenzioso tra chi guarda e ciò (o chi) è guardato: io, lì, fermo con gli occhi
fissi, cerco di comprendere, e la testa si riempie di domande, tante e tante
domande, che, via via, se si è fortunati (come io non sono), trovano qualche
risposta. A volte, poi, non solo non trovi una risposta: trovi una risposta
che, miracolosamente, è una nuova domanda. Un'idra interminabile di quesiti e
nuovi interrogativi: tagli una testa e ne nascono di nuove. Ecco. Guardare è un
po' come pregare: alzi lo sguardo del tuo cuore, proprio mentre chini il capo,
incapace di osare, e scopri in te un mondo che non può non stravolgerti. è una tempesta che incessantemente ti
sbatte di qui e di là; mille pensieri, mille immagini che cantano nella tua
anima e … e niente. Nella preghiera cerchi rifugio, speranza, un segno,
salvezza, sostegno, amore, forza, certezze, una via, un po' di bellezza. Nella
preghiera, quella profonda, quella che si fa con la vita tutta, si adora.
Ebbene, questo è guardare! Io mi sono sempre messo lì, come inginocchiato al
banco della basilica cittadina, e, scomodo all'inizio, per poi diventare
assuefatto alla posizione disagevole, osservavo. No, non vedevo, io: nella mia
vita forse ho visto qualcosa solo un
paio di volte, perché vedere
significa riconoscere un qualcosa nell'altro, riconoscere una briciola di luce,
un frammento anche insignificante di bellezza. Ecco, a me questo non è capitato così spesso. Ma di quelle
due o tre volte … sì, anche se di questi rari casi non conservo, è vero, un
ricordo nitido e chiaro, so che quei lampi improvvisi hanno brillato a lungo
nella mia vita. In quei pochi momenti … in quelle fortunatissime sbadataggini
del caso (o forse non c'era nulla di sbadato allora …) io … io ho incontrato,
no anzi, io ho incrociato Dio. Come uno sconosciuto in una piazza affollata il
sabato pomeriggio di primavera, quando la città si anima per la fiera di
maggio.
Guardavo il mondo, da lontano, protetto dal mio
carattere e dalle mie abitudini: nei giorni passati dietro alla mia finestra
fatta di meditazione avevo più volte scoperto che l'uomo, in fondo, a davvero
una bellezza nascosta da qualche parte. Certo, ogni secondo scoprivo attorno a
me dei motivi per cui odiare quella creatura così incostante e volubile, ogni
secondo ero costretto ad ammettere che davvero era una creatura troppo fragile
quella che avevo davanti. Ma poi, poi andavo oltre a quelle orribili azioni,
andavo oltre a quella stragrande maggioranza di persone che, dopo essersi
costruita una fortezza di finta conoscenza, spadroneggiava sugli altri con la
propria ignoranza profonda, riuscivo a lanciare il mio sguardo al di là di
quelli che, arroganti, sfruttavano le loro doti per una dote (non rinuncerò a
questo gioco di parole, che, seppur mi paia anche un po' scemo, mi piace
davvero in fondo: permettetelo a un vecchio che ormai è solo stanco e vuole sfogarsi).
Era faticoso, lo ammetto, un'impresa che, con molta poca modestia, posso
definire ardua, ma alla fine riuscivo e scorgevo qualcosa di quei cuori così
deboli, così instabili, così insicuri. Quante volte ho visto il male venire da
un male più intimo? Davvero è impossibile contarle; e sebbene possa sembrare
una cosa ovvia, è così strano che ancora così pochi si accorgano di quanto
dolore stia dietro al marcio che s'accumula nelle nostre vite! O meglio: quanti
si accorgono di questa solitudine che sta alla base della viltà del mondo che
ci circonda e che, nonostante tale consapevolezza, preferiscono ignorare la
verità, godendo di crogiolarsi in una simile condizione!!
Le mie parole suonano sempre più come quelle di un
predicatore moralista, di un Savonarola incallito che solo pensa di avere la
verità in tasca. Mi scuso. Non è questo il mio scopo.
Guardavo il mondo da lontano e, ripeto, in fondo
scoprii che amavo quella creatura che era l'uomo, la amavo proprio per le sue
piccole imperfezioni a volte, quelle piccole imperfezioni in grado di plasmare
le più grandiose tragedie. Sì, perché attorno a quell'incrinatura di fondo
nella natura umana girava tutta la vita di tutti gli uomini: dalla nascita fino
al momento ultimo l'uomo doveva scegliere, l'uomo doveva modellarsi da sé
secondo la propria volontà, e non per imposizione altrui; l'uomo si trovava a
doversi plasmare, in un certo senso, più o meno consapevole di quella
possibilità di sbagliare che si portava dietro come un tesoro. Ecco, finalmente
(forse) riesco a spiegarmi con parole un po' più semplici: amavo nell'uomo quel
possibile errore che incombeva su di lui, quella strada sbagliata che, a
seconda del suo stesso volere, poteva imboccare o tralasciare. Senza quella,
infatti, che cosa sarebbe stato l'uomo se non un semplicissimo angelo? E
nemmeno un angelo coraggioso (parole blasfeme!) come Lucifero, ma un
normalissimo angelo, perfetto e conforme al volere di un altro.
Vidi passare molte persone, con semplicità, sotto
la mia finestra. Io solo di rado mi azzardavo a scendere dalla mia posizione
privilegiata (l'ho sempre considerata tale, anche a dispetto di chi sostiene
che, se non entri davvero in relazione con gli altri allora non hai vissuto
affatto!). Per lo più io vivevo attraverso gli altri, scoprendo le sensazioni e
le emozioni non attraverso la mia pelle, ma attraverso la vita di qualcun
altro.
Ho scoperto che cosa significa l'amore di una
donna, non nelle carezze di una mano con le unghie tagliate corte, non nelle
dolcissime parole di due labbra sottili, ma nel guardare millemila coppie di
innamorati, nel tentare di penetrare lo sguardo ricambiato di due anime
infuocate. Oh sì, quante volte ho provato a intromettermi! E sempre ho scoperto
sensazioni diverse: qui riuscivo a sentire i pensieri di una lei troppo grata
di aver ricevuto proprio quel lui, quel lui così tanto cercato, pur con i suoi
mille difetti; là riuscivo a vivere nelle spalle di lui, quando, stretto alla
sua amata, sentiva le manine stringersi in un abbraccio semplice, ma pieno di
premura, di attenzione, di cura; qua, poi, riuscivo a comprendere che l'amore
poteva anche far male, poteva anche diventare qualcosa di malato, e non per
cattiveria, ma per incapacità, per debolezza … Ho vissuto mille amori senza mai
aver amato una sola donna. Mi bastava guardare e vivere in ciò che guardavo.
Ho scoperto cosa significa la rabbia: la rabbia di
una donna tradita, la rabbia di un amico abbandonato, la rabbia di una
delusione, la rabbia di un proprio errore valso una possibilità irripetibile,
la rabbia per la propria condizione d'inferiorità, la rabbia per la cattiveria.
Ho vissuto anche la rabbia, sì, e mai, dico mai, ho urlato contro qualcuno. Da
piccolo, quando ancora non vivevo tutto il mio giorno guardando, allora sì ho
gridato un pochino, e mi dicevano che ero un isterico, ma mai, alla fine, ho
urlato davvero. Cosa significa? Come puoi gridare ma non urlare? Non lo so di
preciso, ma qualcosa mi ha spinto a scrivere così, a credere nell'esistenza di
una differenza tra il gridare e l'urlare, quasi che l'uno esprimesse solo un
tono di voce, mentre l'altro pretendesse di definire anche l'emozione che ha
guidato quel tono.
Ho conosciuto tutto, tutto quello che Dio ha voluto
mostrarmi io l'ho conosciuto e so cosa significa perdere un figlio pur non essendo
mai stato padre, so cosa sia una tortura, pur avendo conservato il mio corpo
sempre intatto, so cosa sia una malattia incurabile, pur essendo vivo dopo
dieci di queste! No, non sono un pazzo (o forse un po' lo sono). Sì io non ho vissuto tutto ciò, ma queste cose io le
ho conosciute, cioè le ho vissute con la pelle di altri. è una stupidaggine? Non credo, perché è
il mio massimo tentativo di vivere: non avrei saputo fare altrimenti. Inetto a
vivere io, mi sono ridotto, ma non la considero una svalutazione della mia
esistenza, a vivere attraverso gli altri, a conoscere ogni persona, a
incontrarla nel più intimo aspetto, ricevendo anche dal più rapido sguardo
tutto il carico di peso che quella creatura poteva concedermi. è stato un modo di vivere strano, lo
ammetto, e forse un po' assurdo, ma ho comunque vissuto questa vita: questa
vita ha conosciuto altre vite che hanno vissuto
e allora ho vissuto anche io.
Contorto! Ma che senso avrebbe una vita semplice?
Non ne avrebbe, perché la semplicità della vita sta nel fatto che una vita non
segue una logica nostra, una logica grammaticale lineare: è un occhio diverso
che considera la nostra vita semplice, facile e bella …
Dicevo?
Dicevo parole senza senso, come sempre, ma quali parole in particolare non
avevano senso stavolta?
Sì: ho detto che ho amato, grazie alla mia insolita
attività di acuto osservatore, l'uomo in ogni sua fragilità, proprio dove stava
la debolezza più terribile, più pericolosa. Era bello. Tremendamente bello.
Negli anni si plasmava l'immagine di una creatura dalle mille possibilità,
costantemente in movimento, incapace di arrestarsi, animata in ogni singola
particella che la componeva. Questa creatura mi appariva come un infinito
crogiolo di meraviglie miste a nefandezze indicibili e lì stava il mistero
imperscrutabile: cosa si celava dietro a quel mondo inarrestabile ch'era, ai
miei occhi, l'uomo? Sì, quel graffio di fondo nella sua natura, quella
minuscola imperfezione, che giustificava la possibilità di qualcosa di male,
era ciò che rendeva tale creatura perfetta, perché a lei sola spettava
scegliere se insistere su quella fatale frattura o se tentare, piuttosto, una
via diversa, di costruzione e di nuova bellezza. Ma perché? Perché quella
possibilità così pericolosa, l'azzardo di dover "scegliere tra il bene e
il male"? Era una domanda che, man mano che la mia vita trascorreva alla
mia finestra, si arricchiva di nuove sfumature, lasciando il mio animo scosso
da una infinita serie di possibili risposte. Ricordo, con affetto, una di queste
risposte, in assoluto (forse) la più pittoresca, la più sciocca anche: era
stata una strega, un essere gobbo e dalla pelle grinzosa e grigiastra, con una
mano paralizzata dalla vecchiaia, a maledirci tutti, a decidere, un giorno, che
non ci sarebbe stato più l'uomo buono e l'uomo cattivo, ma che ogni uomo
avrebbe dovuto portare dentro di sé luce e tenebra, in perenne conflitto, come
il giorno scaccia a ogni nuova alba la notte e come la notte scaccia a ogni
nuovo tramonto il giorno. Che idea folle! Un'idea completamente folle, ma così
comoda: la colpa veniva finalmente data a qualcuno, a qualcuno che non
c'entrava niente con noi …
Con il tempo quest'ipotesi si è ridotta a una mera
fantasia di bambino, a un ricordo lontano di una riflessione acerba. Oggi so
qual è la risposta a quella domanda, oggi so bene perché viviamo in una
continua scelta, ma non dirò, no, non rivelerò adesso la fatica di una vita,
non cederò perché ognuno potrà, poi, provare a trovare una risposta.
Ebbene. Come posso proseguire adesso questo mio
anomalo "racconto"? Ah, sì … devo ancora perdermi un attimo per
ricordarmi di quella volta in cui ho conosciuto Dio, in cui l'ho visto proprio
io, in cui - caso strano - ho vissuto sulla mia pelle la mia vita (è qui che
sorge il dubbio atroce di aver sprecato la mia vita 'lontano': non vivendola ho
forse rinunciato a molti più momenti in cui avrei incontrato Dio?). Sarebbe
strano ricordarsi di questo evento in una stagione diversa da questa: era
inverno anche allora e anche allora la nebbia era l'unica compagna nel mio
viaggio. Quando l'autunno si condensava nei più materici giorni dell'inverno
sapevo che si avvicinava il nostro incontro, e la aspettavo come fosse la mia
amante, in ansia, desideroso di sentire di nuovo il suo tocco sulla mia pelle,
di concedermi di nuovo a lei, l'unico mio vero amore. Era un dolore vederla
ripartire, quando arrivava la primavera, ma lei mi lasciava con un bacio
soffice che mi avrebbe accompagnato fino all'anno successivo: ogni volta che
sentivo dell'acqua fresca sulle mie labbra mi ricordavo di lei, di quella
sensazione tutta strana, che sembra un abbraccio impalpabile … Quel giorno era
come oggi: la nebbia avvolgeva ogni cosa, con il suo candore, con quella sua
magia sovrannaturale, dove tutto sembra fatto di qualcosa di più duro del
metallo, della pietra, del legno. è
tutto ghiaccio, è tutto freddo e insensibile ghiaccio, impossibile, però, da
scalfire. Non camminavo più, quella sera. Sera? Dovrei chiamarla notte quella,
perché ormai tutti si erano ritirati e c'era da prepararsi per andare a
dormire. Io non dovevo rintanarmi da nessuna parte. Avrei dormito lì, stavolta,
e mi sarei goduto la notte d'amore con la mia fidanzata.
Una donna, distratta, camminava veloce. Perché
rincasava così tardi? Sembrerà solo la preoccupazione di un vecchio, ma non è
conveniente per una donna girare sola in una notte di nebbia. Era tutta
imbacuccata e quasi correva sotto i portici del centro. Era passata davanti
alle meraviglie di pietra, davanti alle mie chiese preferite senza nemmeno degnarle
di uno sguardo, quasi che non meritassero nulla, quasi che fossero fortunate
solo per il fatto di essere ancora in piedi e non rase al suolo per sfruttare
meglio lo spazio. Sembrava assorta in quale complicata questione: mentre
camminava potevo sentire il rumore del suo cervello, il lavorio incessante dei
suoi neuroni, disperati, alla ricerca di un qualcosa di introvabile. Man mano
che si avvicinava notavo in lei nuovi dettagli, nuovi minuscoli dettagli
insignificanti. Io non la fissavo, e anzi, cercavo di non voltarmi verso di
lei, per non farla spaventare, ma non smettevo di osservarla, di cercare in lei
tutto ciò che potevo trovare.
Mi superò. Non si lasciò dietro alcun profumo.
La nebbia mi accarezzò e mi appisolai. Poi mi
svegliai, qualcuno mi toccava e mi scoteva la spalla: due occhi normalissimi,
un naso non grosso, non piccolo, un po' all'insù, due labbra coperte da una
sciarpa tirata ben in alto. Era lei. Era tornata indietro? Sì, in una notte di
nebbia, pericolosa e meravigliosa insieme, era tornata indietro. Mi lasciò un
termos, pieno di qualcosa di caldo. Una tisana? Forse un tè particolare. Disse
poche parole e si scusò di avermi disturbato.
Si rialzò in piedi e mi superò: ricordo ancora il
profumo di quell'infuso caldo. Per quella notte tradii la mia amante e invece
che danzare con la nebbia volli fare l'amore con quel profumo.
Ecco, io ho conosciuto così Dio. Non ero un
senzatetto, un vagabondo (per dirla con quella bella canzone) perché anche
quando ho dormito per strada è stata per incapacità, per inettitudine mia, ma
Dio, in quelle scuse, in quella tisana mi si mostrò grande quanto una briciola
di pane: così inconcepibilmente meraviglioso!
Quella sera, con il suono di quella voce che mi
chiedeva scusa per il disturbo, scoprii che nella vita c'era un qualcosa che
scintillava sempre, che brillava nell'opacità di tanta parte dell'esistenza.
Quelle parole avevano riacceso vecchie impressioni che avevo già avuto e che
s'erano assopite, stravolte da troppi altri suoni e rumori. Riconobbi quella
notte, quella notte soltanto, che in ogni respiro c'era una corda che, dal
collo, voleva issarmi verso l'alto, costringendomi ad allungarmi, a
stiracchiarmi. Era così per tutti: tutti tirati su verso qualcosa e noi troppo
spesso intenti ad accumulare zavorra per non staccare i piedi da questa terra,
la nostra sicurezza. Quella sera, quando conobbi Dio e ne sentii la voce,
quando sentii il suo profumo, compresi che c'era la possibilità, per noi, di
lasciare andare un po' di quel peso. Scoprii che potevo abbandonare tanta
fatica semplicemente permettendo a quella corda di tirare, di tirarmi verso
l'alto.
Ora è il momento, ora devo ricordare di quello di
cui ho scritto poco sopra: perché, dunque, la vita è una scelta incessante?
Perché dobbiamo scegliere di lasciarsi
issare in alto? Perché incessantemente dovremmo scegliere il
"bene", una luce profumata che viene da dentro di noi, piuttosto che
abbandonarci e rispondere una sola volta sì al "male", quell'abisso
che non esiste se noi non proviamo a crearcelo da noi? Perché la vita sarà
sempre sinonimo di mille scelte da fare? Perché qualcuno ha voluto questo?
Perché ci ha amato, quel qualcuno, e lo ha fatto per dimostrare proprio a noi
che eravamo, che siamo, creature fantastiche, capaci di scegliere il bene, di scegliere la vita e tutto ciò che non è solo
e soltanto marciume, tristezza e infine morte. Perché ci ha amato e ci ha
abbracciato, dicendoci ok, vai pure per la tua strada e cerca di vederti come
io ti vedo, meraviglioso. Perché quando scopriamo chi siamo, quando ci vediamo
scintillare, è allora che smettiamo di cercare dei pesi per tenerci ancorati
quaggiù e iniziamo a salire, ad avvicinarci a quell'alto così pieno di luce e
di profumo, di bellezza.
è
giunta, alla fine, anche quell'ultima risposta, quella risposta che non è per
nulla soddisfacente, perché ha bisogno di essere sempre ripetuta nel nostro
animo, incessantemente, come un mantra che eternamente va accettato. Sentirsi
dire che sta a noi scegliere di scegliere di vivere è forse la cosa più frustrante
del mondo. è la fatica più
difficile, certo, quella di dover ammettere di essere una meraviglia e non può
essere altro se non il frutto di una vita. Non importa quanto lunga quella vita
sarà, sarà la vita tutta a rendersene conto.
Io ho vissuto. Sì, una vita strana, una vita-non-vissuta lo ammetto, ma ho
vissuto questa vita fino in fondo e ho scoperto questo: è l'insegnamento di un
vecchio che forse non sa davvero nulla della vita. Ci sono grandi maestri di
vita, ma altrove, in altri mondi, lontano dalla vita delle persone normali. Io
sono ignorante davanti a loro, ma ho vissuto la mia vita-non-vissuta e
questo ho imparato.
Io muoio qui, in una mattinata d'inverno. Muoio
così, solo, abbracciato dalla mia dolce, dolcissima compagna. La nebbia mi
cullerà fino alla fine e forse, morendo felice, lo vedrò. No, senza forse: lo
vedrò.