giovedì 18 agosto 2016

BRICIOLA SECONDA - DOPO CRACOVIA 2016

Dimentico, man mano che i giorni passano, che cosa mi ha scosso a Cracovia, quando scoppiavo in lacrime perché ce n'era bisogno e basta. Dimentico, ma solo perché non mi va di ricordare, questa è la verità: sotto sotto so per certo di poter tornare a quel sentimento doloroso, quel dilaniarsi che si strappava dentro di me, ma 'non ne h voglia'. Mi sto assuefacendo alla non-memoria, sto tralasciando tutto perché … non lo so. Non lo faccio nemmeno con coscienza. Avviene e basta, senza che qualcuno ci si debba impegnare.
Non c'è molto da dire, né da fare, né da sperare: tornerò alla solita vita di prima, con quei problemi che avevo prima, quasi che non sia mai esistita Cracovia, quasi che le parole che ho sentito laggiù sparissero adesso, come un niente, come un granello di polvere annegato in una bacinella d'acqua. Sparisce tutto. Non mi ci impegno nemmeno. Sta passando e non me ne accorgo. Sta correndo via e non serve più a nulla.
Ho versato quelle lacrime inutilmente. Inutilmente? Sì, alla fine davvero inutilmente.

Vorrei combattere e reagire. Ma non succede. Forse non lo voglio davvero: in fondo il mio solito disastro è il mio comfort, lo conosco, è mio. Che stupidaggine.

martedì 16 agosto 2016

ATTIMI II

Mentre tutti pensavano a finire, con non poca fatica, i pisellini - quelle schifezzine verdi che chissà chi aveva deciso di mettere nel piatto! - c'era un bambino che, seduto a capotavola, in un angoletto della mensa, guardava il piatto, già vuoto (lui non si faceva troppi problemi a mangiare le verdure). Fissava la forma che s'era creata quando il sughetto della bistecca s'era mescolato con l'acqua dei pisellini. Era imbambolato, completamente perso in quella figura tutta informe. Sembrava impegnato a guardare un film.

Un cane corse per il paese e passò davanti al balcone della loro casa. Seduto, quel bimbo guardava i suoi mattoncini, sognando che forma potevano assumere tra le sue mani - e ancora non aveva bene capito che forma avessero in realtà! Sollevò lo guardo sulla bestia e lo fissò incredulo. Non sapeva di essere incredulo, ovviamente. Non si accorse nemmeno di averlo guardato. Poteva costruire una casa, con quel pezzo!

Dieci agosto. San Lorenzo. La memoria uccideva ancora il padre di quello che sarebbe poi diventato Pascoli, e tutti correvano a cercare uno straccio di cielo buio, senza le luci delle case e delle città. Io  pure cercavo uno spettacolo da vedere, pronto a perdermi di fronte al bello. Aprii pagina trecentoottantanove.

Dormiva sereno, con la boccuccia semiaperta. Non importava il rumore del mercato, i balzi che la carrozzina continuava a fare, le borse che di tanto in tanto sbattevano contro l'intelaiatura, la madre che ogni due secondi inchiodava all'improvviso, interessata da quei bei taglieri in legno d'ulivo o da quei pile dai colori terrificanti; non importava. Beato lui dormiva, con la boccuccia semiaperta e le manine rivolte verso il cielo. Solo questo spuntava dalla copertina: le manine rosee e cicciottelle e la sua faccia  rotonda.

Un mostro dalle mille braccia, tutti bracci sinistri!, si sollevò da quel liquido strano, denso e grigio. Sollevandosi mostrò di avere anche un'enorme bocca da rana, tutta incoronata da denti affilati e lunghissimi. Il suo corpo si rivelò essere un abnorme bozzo informe da cui spuntavano sette zampe da toro e quattro ali ampie. Si alzò in volo sopra quel liquido dall'odore putrido, rivoltante iniziò ad avanzare verso di noi. Garfagald sguainò la spada e urlò, pronto a combattere fino alla morte. Io estrassi la mia di spada e alzai lo scudo davanti al mento: sarebbe stato inutile ma … mi svegliai. è ora di andare, sei già in ritardo!!


Mi guardai attorno, felice del mio primo trenta e lode: tutti seduti senza voglia, qualcuno in piedi a dondolare assieme alla metro. C'era, qua e là, un sorriso, una voce rapida che parlava al telefono, ma nessuno era lì. Nessuno era lì. Tutti passavano.

martedì 9 agosto 2016

I MIEI PIEDI

Mi sono accorto di una cosa, quest'oggi. Stavo leggendo un libro - e no, non cederò a rivelare il titolo di questo libro, perché è una di quelle cose che si confidano al diario, a un amico speciale al massimo - e mentre leggevo il sole caldo mi scaldava i piedi: in montagna fa freddo se stai fermo al chiuso, in una casetta un po' troppo umida ma che è la stessa da vent'anni e non riesci proprio ad abbandonarla per una in una posizione migliore, meno incassata nella montagna. Allora quando il freddo diventa vero e proprio fastidio, e ti innervosisce non riuscire a scaldarti neanche con del tè o una pesante coperta di lana, beh, non puoi fare altro che metterti sul  balcone e aspettare. Io faccio da tanto tempo così: metto la mia seggiola proprio sulla porta, a metà tra il dentro e il fuori, così ho la testa all'ombra  e il libro non viene "bruciato" dal sole, ma i piedi stanno là, a prendersi i caldi raggi solari. Lì - devo ammetterlo - è proprio una bella sensazione, un lieto vivere che mi fa pensare che in paradiso ci si senta così, come quando i piedi gelidi iniziano a scaldarsi: è come vedere un cubetto di ghiaccio sciogliersi nelle calze, ma non lo vedi, lo senti e quel sentirlo nel tuo corpo, in qualche modo, è proprio come vederlo, è come immaginarselo in una maniera poetica, ma non te lo stai immaginando!!
Dicevo, comunque, che in questa condizione - piedi al sole e testa all'ombra, con in mano un libro - ho scoperto una cosa, mi sono accorto di qualcosa. Descrivo sempre le stesse cose. O meglio: c'è sempre il sole, sempre fa caldo e sempre la natura fa casino, cioè è rigogliosa, non viva, ma stra-viva. Sempre sempre sempre! Non capita mai che il paesaggio si riduca a un po' di inverno gelido e basta.
"Ma che assurdità! Ma non è assolutamentissimamente vero!" Mi ha risposto una voce dentro, quella parte logica e razionale che ancora sopravvive e che, ogni tanto, riesce a farsi sentire tra le grida dell'insensatezza. Peccato che la mia parte non troppo raziocinante abbia zittito quest'altra dicendo: "Taci: usi sempre anche la parola assurda 'assolutamentissimamente'! Taci!".
Sì, è proprio vero: ricado così spesso nelle mie solite dinamiche, in quelle poche cose che conosco e che mi pare non mi stanchino mai. Mi va così poco di vedere un bel cielo autunnale, con quel sole strano, quasi assente, che brilla lontano sugli alberi via via più impauriti? Non capita mai di desiderare un giardino in primavera, quando senti il marcio dell'inverno che riscopre cosa significa battere di vita, avere un cuore pulsante? è strano davvero. E poi quell'avverbio folle! Assolutamentissimamente. Che diavolo potrebbe voler dire? Sì, adesso che ci penso non so neanche perché mi piaccia così tanto. Perché riempie la bocca, forse. Mi è sempre piaciuto riempirmi la bocca di baggianate.
Ritorno sempre lì, a quel paesaggio d'estate, quando il sole è caldo e dà fastidio agli occhi - ai miei moltissimo! Ritorno sempre a quel caldo soffocante, anche quando viene mitigato da una leggera brezza, anche quando è soltanto afa e non più calore, quando è umidità pesante  o brucianti raggi di sole assassini.
Anche adesso: soltanto su un balcone, con i piedi al sole d'estate, mi sono accorto di questo. Al sole. I miei piedi. Quante volte parlo dei miei piedi? Moltissime volte anche questo!
"Ma cosa dici? Saranno due volte che tiri in ballo i piedi!!"
Ah. Stavolta cosa rispondi, parte irrazionale, un po' folle? "Eh.. niente" Oh, che meraviglia: sta zitta per una volta! Ma perché adesso ho tirato in ballo anche i piedi? Ah, già, stavo dicendo di quando mi sono accorto di essere un nastro inceppato, un disco che ritorna sempre sulla solita traccia, un'unica canzone che si ripete in loop per ore e ore senza mai fare una pausa. Anche questa è una cosa che mi ha sempre, per così dire, caratterizzato. Un po' un marchio di fabbrica, la mia Z di Zorro! Di solito prendo una canzone e via, la ascolto e la riascolto per ore e ore, giorni e giorni, finché non ne ho la nausea, finché non ricordo ogni minima nota, ogni respiro. Un po' ossessivo.. Ma la mia vera ossessione sono i piedi! Uh, sì, i piedi! Non che io sia un feticista, uno di quelli che si eccita quando vede, tocca, o addirittura lecca dei piedi, no! Io ho un unico tallone d'Achille, e quel tallone sono i miei piedi! Ironia? No, neanche un po': sono la parte più delicata di tutto il mio corpo, quella parte di me che mi preoccupa, cui penso, ogni tanto. è sicuramente colpa del dolore, delle fitte che mi vengono spesso ai lati e a volte sotto, sulla pianta. Sì, è così, ma anche se non fosse così, il motivo non mi importa: i miei piedi sono importanti.
Ma come diavolo parlo?! Come faccio a spiegarmi? Soprattutto, adesso che ho parlato come un pazzo furioso, come posso chiarire, con un po' più di senno, quello che volevo dire? Non lo so davvero. Beh, la frittata è fatta e non c'è molto altro da dire, se non che, che il mondo lo capisca o meno, io ai miei piedi tengo tanto, tantissimo. E ciò è assolutamentissimamente vero! Ah, caspita, di nuovo!! "Ritorni sempre sulle solite cose, sempre a ripetere le solite baggianate insensate e senza interesse alcuno per nessuno, probabilmente neppure per te!"

No, no questo no, mia cara parte folle di me: dei miei piedi, almeno di questo, mi interessa eccome, mi interessa assolutamentissimamente.

martedì 2 agosto 2016

DUBBIO - briciola prima - dopo Cracovia 2016

Dubbio.
Fondamento e tormenta
di tutto,
grava e sostiene
lei -
la speranza.
Dubbio.
L'unico motivo per
credere.

Parole nate all'ungaretti (un ungaretti giovane e acerbo, ma saggio e dolcissimo), come se fossero state scritte sulla carta delle munizioni di guerra. Parole separate e concentrate. Dentro si scuote una tormenta, una tempesta che sconvolge ogni certezza, sbrindellando i pochi stracci che erano stati riordinati nel mio animo. Eppure quell'assurda violenza è l'incomprensibile forza che mi sostiene adesso, che mi regge in piedi, capace di sorridere sempre dinanzi alle richiesta. Non sono un santo, non sono un servo, ma quell'unico male e bene che c'è in me, quel dubbio mi muove. 
Sono sconfitto, prostrato dalla stanchezza e dalla fatica (non quei mali fisici che si lamentano così spesso, ma quelle mancanze spirituali che troppe volte ricerchiamo), eppure, in tutto ciò, sento qua, nelle narici, un profumo di vittoria, l'aria del vigore e del coraggio. Il dubbio. In questi anni mi sono accorto che è proprio il dubbio a muovere la mia anima. è vero, me lo dicono in tanti, ma è capirlo che ti dà una qualche certezza, una sicurezza anche se apparentemente instabile. Nella mia giovane vita, nella mia breve esperienza nel mondo riscopro che è stato il dubbio a rimettere in moto una speranza spenta, un'incomprensione antica. Quest'incomprensione - è evidente! - non è stata risolta, non sembra volersi sciogliere nemmeno, ma è nel dubbio che tale speranza si riattiva, ravviva. è fede. L'unico motivo per credere. E parole come quelle che ho sopra scritte non sono altro che la descrizione semplice e chiara di ciò che complesso e cupo avviene dentro. Tali parole non comprendono, non intendono affatto l'essenza di quel dubbio, ma chiariscono all'anima mia che non devo cedere, che devo perseverare nel ricercare quel dubbio, nell'indagarlo e nell'abbracciarlo con tutto me stesso, perché solo in un simile dubbio si possa scoprire la via dell'affidamento completo, totale, assoluto a un amore vivo e fermo, sicuro, benché diverso da molte rappresentazioni che dell'amore abbiamo creato.

martedì 28 giugno 2016

LA NOVELLA DEL VECCHIO INNAMORATO DELLA NEBBIA

movesi il vecchierel canuto et bianco […]
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassù nel ciel vedere spera.
Francesco Petrarca, Canzoniere, 16

Era quasi l'alba: in inverno il sole sorge non appena gli studenti sentono la prima campanella che li invita nelle aule. Una mandria di giovani menti - la maggior parte delle quali, purtroppo, per nulla fresche! - si avvicinava alle scuole. Praticamente l'intera popolazione sotto i diciannove anni della città marciava tutta verso un'unica zona in cui s'erano via via accumulati gli istituti superiori. Lungo un viale in particolare la mandria si muoveva con maggior foga. Gli alberi gelati sorvegliavano il largo marciapiedi e per terra qualche pozzanghera era una superficie gelata scivolosissima. La prima campanella suonò e la giornata aveva inizio.  Trovarono quell'uomo come si trova un centesimo per terra: era una persona, ma non contava poi tanto. Proprio come una monetina, in molti se ne accorsero, ma solo un bambino fu travolto dalla curiosità, curiosità che riuscì a spingerlo a raccogliere quel tesoro. Sua madre, quando vide che il figlio aveva toccato il ginocchio dell'uomo e che quest'ultimo crollava di lato con la bocca spalancata, urlò. Gli studenti erano sfilati davanti a quel corpo, lo avevano di certo notato, però non se ne erano preoccupati. Quando la donna urlò, erano già da tempo rinchiusi nelle loro carceri, in attesa - un'attesa disperata! - che l'ultima campanella li liberasse dal supplizio quotidiano. Solo quel bambino e sua madre … oltre la fila di alberi sfrecciava di tanto in tanto una macchina, incurante di ciò che succedeva sul marciapiede. Il portinaio della caserma lì a fianco udì la donna e accorse. In poco tempo ci furono molte persone. Il bambino, ora in braccio alla madre sotto shock, continuava a fissare la sagoma ora coperta da un telo. Non sapevano chi fosse … qualcuno sembrava di riconoscerci una vecchia conoscenza, ma nessuno ne era certo. Accanto a lui trovarono un termos colmo a metà di tè. Addosso, oltre ai vestiti, non aveva altro che una penna, dei fogli scritti con una buona grafia, snella e brillante, e tre euro in monetine da venti o cinquanta centesimi. Una fotografia, forse una cartolina, in cui era ritratto un particolare di un affresco giottesco: Francesco sposa la sua amata, "madonna Povertà".
Qui di seguito viene riportato il testo scritto da quell'uomo (così si può supporre: certo sembra l'ipotesi più plausibile il fatto che quei fogli gli appartenessero e che fosse quella mano inerte ad averli vergati).

Fatemi riposare, signori. Sono stanco: non tirate più! L'uomo non è una pelle di tamburo da tirare e battere! Oh, queste suonano come le parole di qualcun altro. Ma da chi vengono? Boh, non è così importante: per oggi le faccio mie, per oggi sono mie.  Ebbene, mi devo fermare un attimo, ho bisogno di riprendere fiato prima di quest'ultima mia corsa. Sì, temo proprio che sia l'ultima; in verità non 'temo' affatto quest'ultima mia corsa, perché è già da molto che aspetto. Sono nato parecchi anni fa, ma non è importante ricordarsi quanti di preciso. Parecchi, davvero parecchi anni. L'unica cosa importante è ricordare che sono anziano. Anziano … anziano è una parola gentile, in effetti: io preferisco definirmi 'vecchio', perché in fondo è ciò che sono davvero, ed è ciò che sono sempre stato. Fin da giovane, infatti, ho camminato per la vita come cammina un povero vecchiettino curvo sul proprio bastone: piano, delicatamente, quasi impaurito, osservando i lavori per strada da lontano. Sì, non uno di quei vecchi che si mettono a criticare gli operai, ma uno di quelli che, seduti ad un bar, dimenticano per ore il bicchiere con l'acqua tonica che hanno davanti alla mano e fissano l'altro lato della strada.
Ero così, ma non rimbambito. Ero cauto ed educato, attento, troppo attento, e osservavo, osservavo ciò che mi stava attorno. Vorrei dire di averlo fatto per piacere, perché mi dava un'immensa gioia osservare qualsiasi cosa mi circondasse, ma mentire: la verità è che è l'unico modo che ho mai conosciuto di incontrare il mondo. Guardare. Toccare è qualcosa che non sono mai riuscito a fare. Guardare, ecco tutto quello in cui, invece, sono sempre stato bravissimo.
In questi miei anni ho anche pensato a lungo a cosa stessi facendo, e ho spesso pensato che guardare è un po' come pregare. Tu ti metti lì e cerchi di capire che cosa ti trovi davanti. Inizia così un dialogo silenzioso tra chi guarda e ciò (o chi) è guardato: io, lì, fermo con gli occhi fissi, cerco di comprendere, e la testa si riempie di domande, tante e tante domande, che, via via, se si è fortunati (come io non sono), trovano qualche risposta. A volte, poi, non solo non trovi una risposta: trovi una risposta che, miracolosamente, è una nuova domanda. Un'idra interminabile di quesiti e nuovi interrogativi: tagli una testa e ne nascono di nuove. Ecco. Guardare è un po' come pregare: alzi lo sguardo del tuo cuore, proprio mentre chini il capo, incapace di osare, e scopri in te un mondo che non può non stravolgerti. è una tempesta che incessantemente ti sbatte di qui e di là; mille pensieri, mille immagini che cantano nella tua anima e … e niente. Nella preghiera cerchi rifugio, speranza, un segno, salvezza, sostegno, amore, forza, certezze, una via, un po' di bellezza. Nella preghiera, quella profonda, quella che si fa con la vita tutta, si adora. Ebbene, questo è guardare! Io mi sono sempre messo lì, come inginocchiato al banco della basilica cittadina, e, scomodo all'inizio, per poi diventare assuefatto alla posizione disagevole, osservavo. No, non vedevo, io: nella mia vita forse ho visto qualcosa solo un paio di volte, perché vedere significa riconoscere un qualcosa nell'altro, riconoscere una briciola di luce, un frammento anche insignificante di bellezza. Ecco, a me questo non è capitato così spesso. Ma di quelle due o tre volte … sì, anche se di questi rari casi non conservo, è vero, un ricordo nitido e chiaro, so che quei lampi improvvisi hanno brillato a lungo nella mia vita. In quei pochi momenti … in quelle fortunatissime sbadataggini del caso (o forse non c'era nulla di sbadato allora …) io … io ho incontrato, no anzi, io ho incrociato Dio. Come uno sconosciuto in una piazza affollata il sabato pomeriggio di primavera, quando la città si anima per la fiera di maggio.
Guardavo il mondo, da lontano, protetto dal mio carattere e dalle mie abitudini: nei giorni passati dietro alla mia finestra fatta di meditazione avevo più volte scoperto che l'uomo, in fondo, a davvero una bellezza nascosta da qualche parte. Certo, ogni secondo scoprivo attorno a me dei motivi per cui odiare quella creatura così incostante e volubile, ogni secondo ero costretto ad ammettere che davvero era una creatura troppo fragile quella che avevo davanti. Ma poi, poi andavo oltre a quelle orribili azioni, andavo oltre a quella stragrande maggioranza di persone che, dopo essersi costruita una fortezza di finta conoscenza, spadroneggiava sugli altri con la propria ignoranza profonda, riuscivo a lanciare il mio sguardo al di là di quelli che, arroganti, sfruttavano le loro doti per una dote (non rinuncerò a questo gioco di parole, che, seppur mi paia anche un po' scemo, mi piace davvero in fondo: permettetelo a un vecchio che ormai è solo stanco e vuole sfogarsi). Era faticoso, lo ammetto, un'impresa che, con molta poca modestia, posso definire ardua, ma alla fine riuscivo e scorgevo qualcosa di quei cuori così deboli, così instabili, così insicuri. Quante volte ho visto il male venire da un male più intimo? Davvero è impossibile contarle; e sebbene possa sembrare una cosa ovvia, è così strano che ancora così pochi si accorgano di quanto dolore stia dietro al marcio che s'accumula nelle nostre vite! O meglio: quanti si accorgono di questa solitudine che sta alla base della viltà del mondo che ci circonda e che, nonostante tale consapevolezza, preferiscono ignorare la verità, godendo di crogiolarsi in una simile condizione!!
Le mie parole suonano sempre più come quelle di un predicatore moralista, di un Savonarola incallito che solo pensa di avere la verità in tasca. Mi scuso. Non è questo il mio scopo.
Guardavo il mondo da lontano e, ripeto, in fondo scoprii che amavo quella creatura che era l'uomo, la amavo proprio per le sue piccole imperfezioni a volte, quelle piccole imperfezioni in grado di plasmare le più grandiose tragedie. Sì, perché attorno a quell'incrinatura di fondo nella natura umana girava tutta la vita di tutti gli uomini: dalla nascita fino al momento ultimo l'uomo doveva scegliere, l'uomo doveva modellarsi da sé secondo la propria volontà, e non per imposizione altrui; l'uomo si trovava a doversi plasmare, in un certo senso, più o meno consapevole di quella possibilità di sbagliare che si portava dietro come un tesoro. Ecco, finalmente (forse) riesco a spiegarmi con parole un po' più semplici: amavo nell'uomo quel possibile errore che incombeva su di lui, quella strada sbagliata che, a seconda del suo stesso volere, poteva imboccare o tralasciare. Senza quella, infatti, che cosa sarebbe stato l'uomo se non un semplicissimo angelo? E nemmeno un angelo coraggioso (parole blasfeme!) come Lucifero, ma un normalissimo angelo, perfetto e conforme al volere di un altro.
Vidi passare molte persone, con semplicità, sotto la mia finestra. Io solo di rado mi azzardavo a scendere dalla mia posizione privilegiata (l'ho sempre considerata tale, anche a dispetto di chi sostiene che, se non entri davvero in relazione con gli altri allora non hai vissuto affatto!). Per lo più io vivevo attraverso gli altri, scoprendo le sensazioni e le emozioni non attraverso la mia pelle, ma attraverso la vita di qualcun altro.
Ho scoperto che cosa significa l'amore di una donna, non nelle carezze di una mano con le unghie tagliate corte, non nelle dolcissime parole di due labbra sottili, ma nel guardare millemila coppie di innamorati, nel tentare di penetrare lo sguardo ricambiato di due anime infuocate. Oh sì, quante volte ho provato a intromettermi! E sempre ho scoperto sensazioni diverse: qui riuscivo a sentire i pensieri di una lei troppo grata di aver ricevuto proprio quel lui, quel lui così tanto cercato, pur con i suoi mille difetti; là riuscivo a vivere nelle spalle di lui, quando, stretto alla sua amata, sentiva le manine stringersi in un abbraccio semplice, ma pieno di premura, di attenzione, di cura; qua, poi, riuscivo a comprendere che l'amore poteva anche far male, poteva anche diventare qualcosa di malato, e non per cattiveria, ma per incapacità, per debolezza … Ho vissuto mille amori senza mai aver amato una sola donna. Mi bastava guardare e vivere in ciò che guardavo.
Ho scoperto cosa significa la rabbia: la rabbia di una donna tradita, la rabbia di un amico abbandonato, la rabbia di una delusione, la rabbia di un proprio errore valso una possibilità irripetibile, la rabbia per la propria condizione d'inferiorità, la rabbia per la cattiveria. Ho vissuto anche la rabbia, sì, e mai, dico mai, ho urlato contro qualcuno. Da piccolo, quando ancora non vivevo tutto il mio giorno guardando, allora sì ho gridato un pochino, e mi dicevano che ero un isterico, ma mai, alla fine, ho urlato davvero. Cosa significa? Come puoi gridare ma non urlare? Non lo so di preciso, ma qualcosa mi ha spinto a scrivere così, a credere nell'esistenza di una differenza tra il gridare e l'urlare, quasi che l'uno esprimesse solo un tono di voce, mentre l'altro pretendesse di definire anche l'emozione che ha guidato quel tono.
Ho conosciuto tutto, tutto quello che Dio ha voluto mostrarmi io l'ho conosciuto e so cosa significa perdere un figlio pur non essendo mai stato padre, so cosa sia una tortura, pur avendo conservato il mio corpo sempre intatto, so cosa sia una malattia incurabile, pur essendo vivo dopo dieci di queste! No, non sono un pazzo (o forse un po' lo sono). Sì io non ho vissuto tutto ciò, ma queste cose io le ho conosciute, cioè le ho vissute con la pelle di altri. è una stupidaggine? Non credo, perché è il mio massimo tentativo di vivere: non avrei saputo fare altrimenti. Inetto a vivere io, mi sono ridotto, ma non la considero una svalutazione della mia esistenza, a vivere attraverso gli altri, a conoscere ogni persona, a incontrarla nel più intimo aspetto, ricevendo anche dal più rapido sguardo tutto il carico di peso che quella creatura poteva concedermi. è stato un modo di vivere strano, lo ammetto, e forse un po' assurdo, ma ho comunque vissuto questa vita: questa vita ha conosciuto altre vite che hanno vissuto e allora ho vissuto anche io.
Contorto! Ma che senso avrebbe una vita semplice? Non ne avrebbe, perché la semplicità della vita sta nel fatto che una vita non segue una logica nostra, una logica grammaticale lineare: è un occhio diverso che considera la nostra vita semplice, facile e bella …
Dicevo? Dicevo parole senza senso, come sempre, ma quali parole in particolare non avevano senso stavolta?
Sì: ho detto che ho amato, grazie alla mia insolita attività di acuto osservatore, l'uomo in ogni sua fragilità, proprio dove stava la debolezza più terribile, più pericolosa. Era bello. Tremendamente bello. Negli anni si plasmava l'immagine di una creatura dalle mille possibilità, costantemente in movimento, incapace di arrestarsi, animata in ogni singola particella che la componeva. Questa creatura mi appariva come un infinito crogiolo di meraviglie miste a nefandezze indicibili e lì stava il mistero imperscrutabile: cosa si celava dietro a quel mondo inarrestabile ch'era, ai miei occhi, l'uomo? Sì, quel graffio di fondo nella sua natura, quella minuscola imperfezione, che giustificava la possibilità di qualcosa di male, era ciò che rendeva tale creatura perfetta, perché a lei sola spettava scegliere se insistere su quella fatale frattura o se tentare, piuttosto, una via diversa, di costruzione e di nuova bellezza. Ma perché? Perché quella possibilità così pericolosa, l'azzardo di dover "scegliere tra il bene e il male"? Era una domanda che, man mano che la mia vita trascorreva alla mia finestra, si arricchiva di nuove sfumature, lasciando il mio animo scosso da una infinita serie di possibili risposte. Ricordo, con affetto, una di queste risposte, in assoluto (forse) la più pittoresca, la più sciocca anche: era stata una strega, un essere gobbo e dalla pelle grinzosa e grigiastra, con una mano paralizzata dalla vecchiaia, a maledirci tutti, a decidere, un giorno, che non ci sarebbe stato più l'uomo buono e l'uomo cattivo, ma che ogni uomo avrebbe dovuto portare dentro di sé luce e tenebra, in perenne conflitto, come il giorno scaccia a ogni nuova alba la notte e come la notte scaccia a ogni nuovo tramonto il giorno. Che idea folle! Un'idea completamente folle, ma così comoda: la colpa veniva finalmente data a qualcuno, a qualcuno che non c'entrava niente con noi …
Con il tempo quest'ipotesi si è ridotta a una mera fantasia di bambino, a un ricordo lontano di una riflessione acerba. Oggi so qual è la risposta a quella domanda, oggi so bene perché viviamo in una continua scelta, ma non dirò, no, non rivelerò adesso la fatica di una vita, non cederò perché ognuno potrà, poi, provare a trovare una risposta.
Ebbene. Come posso proseguire adesso questo mio anomalo "racconto"? Ah, sì … devo ancora perdermi un attimo per ricordarmi di quella volta in cui ho conosciuto Dio, in cui l'ho visto proprio io, in cui - caso strano - ho vissuto sulla mia pelle la mia vita (è qui che sorge il dubbio atroce di aver sprecato la mia vita 'lontano': non vivendola ho forse rinunciato a molti più momenti in cui avrei incontrato Dio?). Sarebbe strano ricordarsi di questo evento in una stagione diversa da questa: era inverno anche allora e anche allora la nebbia era l'unica compagna nel mio viaggio. Quando l'autunno si condensava nei più materici giorni dell'inverno sapevo che si avvicinava il nostro incontro, e la aspettavo come fosse la mia amante, in ansia, desideroso di sentire di nuovo il suo tocco sulla mia pelle, di concedermi di nuovo a lei, l'unico mio vero amore. Era un dolore vederla ripartire, quando arrivava la primavera, ma lei mi lasciava con un bacio soffice che mi avrebbe accompagnato fino all'anno successivo: ogni volta che sentivo dell'acqua fresca sulle mie labbra mi ricordavo di lei, di quella sensazione tutta strana, che sembra un abbraccio impalpabile … Quel giorno era come oggi: la nebbia avvolgeva ogni cosa, con il suo candore, con quella sua magia sovrannaturale, dove tutto sembra fatto di qualcosa di più duro del metallo, della pietra, del legno. è tutto ghiaccio, è tutto freddo e insensibile ghiaccio, impossibile, però, da scalfire. Non camminavo più, quella sera. Sera? Dovrei chiamarla notte quella, perché ormai tutti si erano ritirati e c'era da prepararsi per andare a dormire. Io non dovevo rintanarmi da nessuna parte. Avrei dormito lì, stavolta, e mi sarei goduto la notte d'amore con la mia fidanzata.
Una donna, distratta, camminava veloce. Perché rincasava così tardi? Sembrerà solo la preoccupazione di un vecchio, ma non è conveniente per una donna girare sola in una notte di nebbia. Era tutta imbacuccata e quasi correva sotto i portici del centro. Era passata davanti alle meraviglie di pietra, davanti alle mie chiese preferite senza nemmeno degnarle di uno sguardo, quasi che non meritassero nulla, quasi che fossero fortunate solo per il fatto di essere ancora in piedi e non rase al suolo per sfruttare meglio lo spazio. Sembrava assorta in quale complicata questione: mentre camminava potevo sentire il rumore del suo cervello, il lavorio incessante dei suoi neuroni, disperati, alla ricerca di un qualcosa di introvabile. Man mano che si avvicinava notavo in lei nuovi dettagli, nuovi minuscoli dettagli insignificanti. Io non la fissavo, e anzi, cercavo di non voltarmi verso di lei, per non farla spaventare, ma non smettevo di osservarla, di cercare in lei tutto ciò che potevo trovare.
Mi superò. Non si lasciò dietro alcun profumo.
La nebbia mi accarezzò e mi appisolai. Poi mi svegliai, qualcuno mi toccava e mi scoteva la spalla: due occhi normalissimi, un naso non grosso, non piccolo, un po' all'insù, due labbra coperte da una sciarpa tirata ben in alto. Era lei. Era tornata indietro? Sì, in una notte di nebbia, pericolosa e meravigliosa insieme, era tornata indietro. Mi lasciò un termos, pieno di qualcosa di caldo. Una tisana? Forse un tè particolare. Disse poche parole e si scusò di avermi disturbato.
Si rialzò in piedi e mi superò: ricordo ancora il profumo di quell'infuso caldo. Per quella notte tradii la mia amante e invece che danzare con la nebbia volli fare l'amore con quel profumo.
Ecco, io ho conosciuto così Dio. Non ero un senzatetto, un vagabondo (per dirla con quella bella canzone) perché anche quando ho dormito per strada è stata per incapacità, per inettitudine mia, ma Dio, in quelle scuse, in quella tisana mi si mostrò grande quanto una briciola di pane: così inconcepibilmente meraviglioso!
Quella sera, con il suono di quella voce che mi chiedeva scusa per il disturbo, scoprii che nella vita c'era un qualcosa che scintillava sempre, che brillava nell'opacità di tanta parte dell'esistenza. Quelle parole avevano riacceso vecchie impressioni che avevo già avuto e che s'erano assopite, stravolte da troppi altri suoni e rumori. Riconobbi quella notte, quella notte soltanto, che in ogni respiro c'era una corda che, dal collo, voleva issarmi verso l'alto, costringendomi ad allungarmi, a stiracchiarmi. Era così per tutti: tutti tirati su verso qualcosa e noi troppo spesso intenti ad accumulare zavorra per non staccare i piedi da questa terra, la nostra sicurezza. Quella sera, quando conobbi Dio e ne sentii la voce, quando sentii il suo profumo, compresi che c'era la possibilità, per noi, di lasciare andare un po' di quel peso. Scoprii che potevo abbandonare tanta fatica semplicemente permettendo a quella corda di tirare, di tirarmi verso l'alto.
Ora è il momento, ora devo ricordare di quello di cui ho scritto poco sopra: perché, dunque, la vita è una scelta incessante? Perché dobbiamo scegliere di lasciarsi issare in alto? Perché incessantemente dovremmo scegliere il "bene", una luce profumata che viene da dentro di noi, piuttosto che abbandonarci e rispondere una sola volta sì al "male", quell'abisso che non esiste se noi non proviamo a crearcelo da noi? Perché la vita sarà sempre sinonimo di mille scelte da fare? Perché qualcuno ha voluto questo? Perché ci ha amato, quel qualcuno, e lo ha fatto per dimostrare proprio a noi che eravamo, che siamo, creature fantastiche, capaci di scegliere il bene, di scegliere la vita e tutto ciò che non è solo e soltanto marciume, tristezza e infine morte. Perché ci ha amato e ci ha abbracciato, dicendoci ok, vai pure per la tua strada e cerca di vederti come io ti vedo, meraviglioso. Perché quando scopriamo chi siamo, quando ci vediamo scintillare, è allora che smettiamo di cercare dei pesi per tenerci ancorati quaggiù e iniziamo a salire, ad avvicinarci a quell'alto così pieno di luce e di profumo, di bellezza.
è giunta, alla fine, anche quell'ultima risposta, quella risposta che non è per nulla soddisfacente, perché ha bisogno di essere sempre ripetuta nel nostro animo, incessantemente, come un mantra che eternamente va accettato. Sentirsi dire che sta a noi scegliere di scegliere di vivere è forse la cosa più frustrante del mondo. è la fatica più difficile, certo, quella di dover ammettere di essere una meraviglia e non può essere altro se non il frutto di una vita. Non importa quanto lunga quella vita sarà, sarà la vita tutta a rendersene conto.
Io ho vissuto. Sì, una vita strana, una vita-non-vissuta lo ammetto, ma ho vissuto questa vita fino in fondo e ho scoperto questo: è l'insegnamento di un vecchio che forse non sa davvero nulla della vita. Ci sono grandi maestri di vita, ma altrove, in altri mondi, lontano dalla vita delle persone normali. Io sono ignorante davanti a loro, ma ho vissuto la mia vita-non-vissuta e questo ho imparato.

Io muoio qui, in una mattinata d'inverno. Muoio così, solo, abbracciato dalla mia dolce, dolcissima compagna. La nebbia mi cullerà fino alla fine e forse, morendo felice, lo vedrò. No, senza forse: lo vedrò.

martedì 31 maggio 2016

TEMPORALE

La pioggia è
l'origine
del mondo.

Dicevano il fuoco,
qualcuno l'acqua,
ma è la pioggia:
le nuvole crescono,
ingrassano
sulle nostre teste,
poi vomitano vita,
crollano sulla gente.

La nostra prima emozione
la prima nostra azione
è pioggia,
rumoroso
temporale
stridulo.
Pianto di neonato?
Pioggia dell'universo.

Ecco, la pioggia,
ecco cos'è:
l'origine del mondo.

Poi si dimenticarono,
persi in mille follie,
di quella strada,
di quell'inizio,
della pioggia
e del suo profumo.

Mi perdo.

Ma è così:
quando non vuoi pensare
allora pensi ancora di più.
E rincorri idee sciocche,
stupide e inutili. Sei folle tu!
E mi piace perdermi,
devo perdermi,
è l'unico modo che conosco,
per andare avanti:
tornare indietro,
all'origine del mondo.
Ascolto i rumori del temporale.

martedì 24 maggio 2016

PARLAMI

Non volevo scriverti,
avrei preferito ricordarmi di te
ma senza tornare davvero da te:
ogni volta che ci sfioriamo,
fosse anche un sussurro
accompagnato dal vento e dall'aria,
tu mi leghi a te
- io mi lego a te -
tu non sai nemmeno com'è,
ma è così.

No, potevo tacere,
potevo evitare, angelo,

"Ci penso da tanto; ma poi ...
non posso mostrarmi a te,
debole, fragile ..."

Che? Vuoi essere il mio eroe?
Tu, proprio tu?
Ma tu sei un eroe: lo sei e basta!

A me, davanti a me devi essere forte?
Ma chi sono, stupido uomo meraviglioso che non sei altro,
per meritare questo?

"Scusami"

Scusami? Scusami tu:
parlami -
fallo se hai bisogno,
ma fallo.

martedì 17 maggio 2016

QUANDO DORMI

Tanti e troppi silenzi.

Durano a lungo, scorrono
come acqua nell'antico, placido acquedotto romano,
scorrono lunghe giornate di nulla:
tanta fretta, eppure è nel nulla.

Dolcezza e silenzi,
non è bello - la gioia della solitudine?
Troppo comodo scappare così.

Ebbene: il cuore non riesce a scrivere niente,
ed è ancora più solo.

martedì 26 aprile 2016

E UNA SERA QUALUNQUE

Anche stasera mi corico con un dubbio,
il dubbio che avvolge i pensieri;
ti lascia muto, perso in mille follie
"Cosa c'è qui, quaggiù, nascosto,
in fondo a ciò che chiamano cuore?"
Corrono i ricordi, tanti e pochissimi in un attimo
profumo, sorrisi, occhi e labbra:
non ti ho mai sfiorato ...

Cosa ci separa? Un mare,
un oceano, un deserto, la steppa,
la Siberia,
l'Himalaya,
l'Amazzonia,
il Sahara,
l'Antartide.
Mondi diversi, diversi siamo noi.
Ci separiamo noi stessi.

Forse è solo follia, follia di un momento,
l'ennesima follia, una fra le tante.
Buona notte,
ninna nanna,
dormirò e come ogni notte spero:
spero di sognare -
nei sogni la Siberia è le Azzorre,
nei sogni l'Himalaya è una collina,
nei sogni l'Amazzonia è il giardino di Versailles,
nei sogni il Sahara fiorisce,
nei sogni l'Antartide è New York:
i sogni sono sogni;
i sogni possono tutto.

martedì 19 aprile 2016

ANCHE DI NOTTE

Di come nacque
non posso parlare
non so.

So che c'era luce,
quel giorno,
e la luce è un dono,
sempre.

Nacque,
germoglio irruente
tra rovi soffocati,
verde di domani
tra nero di morte,
nacque.

Fu solo un attimo
- il sogno si fa in un istante -
e poi corse via,
fuggita quella briciola,
nel mare del tempo.

Fu un baleno,
tutta la luce spendeva,
nell'aria ancora bagnata,
tutti i colori nella luce,
e la luce è un dono,
sempre.

Le parole,
a volte non servono:
sono ingombranti, di troppo.

Le Parole,
quel giorno,
furono luce:
raggi rapidi
perfetti.
Vita.

Come un sole,
come luce ...
e la luce è un dono.
Sempre.

martedì 12 aprile 2016

DESTINATARIO .. NON C'E'

Destinatario? Non lo so, sarà la fine di questa 'lettera' a decidere a chi verranno inviate queste parole.
Stasera è una sera strana: non scriverò sul mio diario e quelle pagine le ignorerò fino a domani; stasera c'è aria di stanchezza e sorrisi. Ecco, sì ... domani è una giornata difficile, una giornata che mette molto alla prova le mie forze, e questo mi fa sorridere: ci sarà la disperata lotta per trovare la bellezza e la gioia anche nel domani. Ma la cosa che mi preoccupa è quello riguardo cui sono stato chiamato a riflettere. Parlo in maniera oscura, ma presto chiarirò.
Sono giorni, molti e troppi giorni in cui rifletto su molte scelte fatte varcata la soglia del liceo; mi accorgo di non trovare soddisfazione in una scelta in particolare, scelta che mi entusiasma tuttora, ma che non mi emoziona. Mi percorre un brivido se soltanto penso a cosa sto facendo, a cosa mi sto dedicando, a quanto mi senta inadatto allo studio in università; sento uno slancio coraggioso e contento, felice anche dopo le molte ore a sudare e sentire tirare i muscoli. Ma c'è un ma, un ma che ormai sento quasi come parte irrinunciabile della mia giovane vita: c'è un motivo per cui questo ma ritorna spesso, perché ci sono due parole, due parole che da sole mi paralizzano, e sono gioia e servizio.
La prima, la gioia, è un animo che mi costa fatica, perché sì, sono così irritabile a volte, perché sono isterico, perché è difficile non cedere alla solitudine.
La seconda, il servizio, è un animo che mi lascia dubbioso.
Ma che cosa ho detto? 'Un animo'? Sì, un animo, nel senso latino ... soffio ... è un mio vezzo, quello di dare significati insignificanti alle parole.
Torno a servizio. Il servizio. Io sono una creatura che cerca di credere in Dio. Non mi sento troppo a mio agio a parlarne, purtroppo, anche se potrebbe sembrare, spesso, che di questo io sia molto fiero. Ebbene, ne sono fiero, ma è così difficile parlare di Dio senza sembrare dei bigotti. Eppure è così, io ho bisogno di parlare di Dio, ho bisogno della Domenica, ho bisogno di una vita scandita da quel momento così particolare. Ed è per questo momento così straordinario, è per quella persona così misteriosa, Dio, che sono 'tormentato' dalla parola servizio.
Ho più volte incontrato, nelle mie peregrinazioni cerebrali e 'spirituali', questa parola e sempre più spesso mi sono ritrovato a considerare il vero significato che queste poche lettere in fila l'una dietro l'altra potrebbero acquisire nella mia vita.
Sono giovane. Molto giovane. Ma quando verrà il tempo in cui non potrò usare questa giustificazione?
Sì, sono stato confuso, un'altra volta estremamente confuso, ma questo è ciò che ho nel cuore ... è questo che rende difficile ogni giorno, anche quello più felice, perché quando il giorno è felice sento che la felicità è dovuta a qualcosa di particolarissimo!
Oggi, oggi ne è un esempio. Un'ora a spostare scatoloni e riempirsi di polvere, nient'altro, solo io e Don Sandro ... la più bella cosa; i sorrisi più felici!
Poi di nuovo a scuola; ho visto quelle bambine scherzare e fare il loro balletto. Felice, molto. Felice di questa felicità, per la semplicità di quello che avevo davanti.
Ma poi? Sono troppo fragile per una qualsiasi altra cosa, e forse sono fragile anche perché non sono abbastanza 'valoroso' per affrontare qualcosa di diverso da questa infantile semplicità. Che strada posso seguire allora?
Che cosa posso scegliere?

Che consiglio posso ricevere? Da chi?

giovedì 7 aprile 2016

ALLE VOCAZIONI - un cattolico omosessuale

Non dirlo mai più.. non dirlo mai più! "Oh, adesso pensa anche lui di diventare prete!" .. e anche voi, non ridete! ... io ho ascoltato quelle testimonianze ed è così straordinario ciò che hanno fatto! Ma io non posso, non posso accettare una simile proposta, no, perché ... perché ci sei tu, tu che mi lasci brividi dolcissimi di piacere quando mi sfiori, tu che mi muovi qualcosa dentro, tu che mi scuoti e mi tieni in pugno senza nemmeno saperlo ... non ridete, per favore, perché io ho sperato davvero che la mia via potesse essere quella, io ho sognato di poter diventare parte della Sua luce in una maniera che ormai nessuno più vuole azzardare. Eppure non sono mai riuscito a dire , non ci sono riuscito perché paralizzato da sentimenti troppo forti che palpitavano, e palpitano tuttora, nel mio cuore. Vedete, a me dispiace, ma voi troppo spesso riconoscete nelle parole che sentite alla domenica solo la ripetizione di una solfa già sentita. Anche a me capita quella domenica in cui le orecchie sono tappate a qualsiasi cosa, ma voi ... alcuni di voi sembra che non vogliano proprio aprirle mai, sembra che si sia lì solo perché ci si è abituati. Ecco, no, per favore: quando mi alzo la domenica devo sempre andare alla ricerca di quel motivo che mi spinge fuori di casa. Allora, e solo allora, mi accorgo che quello che sto per fare mi dà uno strano piacere, mi consola alla fine (ma anche all'inizio) di una settimana.

martedì 5 aprile 2016

AULA 407

>Lo ammetto: quest'opera è la mia preferita in assoluto! Sì, insomma, mi dovete scusare già adesso e dovrete scusarmi nuovamente quando avrò finito … ok, ma forse non avrei dovuto dirglielo: magari non ve ne sareste mai accorti! - risata - Ebbene ecco … stavolta non vi chiederò che cosa vedete, non vi chiederò di lanciarvi in una qualche descrizione, non vado ala ricerca delle vostre personalissime impressioni, no! Davanti a questo particolarissimo dipinto sarò io a raccontarvi le mie, davanti a questo piccolo capolavoro dimenticherò il manuale e vi racconterò una storia … Era luglio e c'era profumo di ciliegie in cucina: nonno le aveva raccolte la sera prima, quando s'era messo in veranda ad aspettare che la nonna chiamasse per la cena; se ne era stato seduto per qualche minuto, ma poi, incapace di rimanere lì fermo senza far nulla, aveva notato che qualche ciliegia poteva essere raccolta: una, due, tre, dieci, quando sul tavolo se ne furono accumulate un paio di dozzine, nonno si accorse di non poter lasciare tutto lì, quindi cercò una zuppiera e … e niente: continuò fino a quando gli sbuffi di mia nonna non sfiorarono gli ottanta chilometri orari! Erano dolcissime, maturate al sole di un'estate felice. E insomma, quel mattino la cucina era piena di profumo di ciliegia. Non so se avete presente: è un profumo fresco, ma avvolgente come una coperta soffice e tiepida. Mio padre era già fuori nei campo, a sudare nella fresca aria dell'alba. Presto il sole non avrebbe scaldato nessuno: avrebbe soffocato chiunque! "Andiamo!" mi chiamò mia nonna. Tutte le mattine io e la nonna camminavamo lungo la stradina che circondava il paesino fino al forno dove compravamo il pane per la giornata: man mano che andavamo avanti sentivamo aumentare quel buon profumo di pane croccante. Il profumo stesso era croccante! Quel profumo mi manca parecchio: appena uscivamo dal negozio, lasciandoci dietro il campanellino squillante, la nonna apriva il sacchettone di carta marrone e mi guardava sorridendo; infilava la sua mano dentro la busta e "crocreck", quel rumore meraviglioso che preannunciava l'arrivo di un culetto di uno di quei pani!! Mentre si tornava, poi, era il momento di salutare tutti. Ma questi saluti non fanno parte di questa storia. Quello che vi ho raccontato è il 'potere' che ha questo quadro su di me … quando ero piccolo avevo attorno a me tutta quella fatica che sudava e non si lamentava nemmeno, non c'era da piangersi addosso perché il quel sudore e in quella fatica era nascosto il motivo per cui bisognava vivere! No, non era il lavoro, no, non era la ricchezza, ma eravamo noi, noi piccoli che stavamo a casa e scorazzavamo in giro felici: quella fatica era il sacrificio necessario al bene di tutti!<
Tutti stavano lì, in silenzio, e guardavano la sagoma di quell'uomo, un'ombra proiettata contro al muro: la sua silhouette sembrava far parte del dipinto e in qualche modo adesso anche lui faceva parte del quadro, delle pennellate del pittore …
>Vedete … forse non piacere a tutti questo dipinto e temo che troppi di voi disprezzeranno con arroganza quest'uomo tanto particolare, ma non mi interessa! Oggi voglio che torniate a casa con solo questo: in un quadro scovate anche quella poesucola minuscola nascosta chissà dove: sta oltre, non nelle pennellate sottili o materiche, non in un'infinità di parametri utili, ma costrittivi … cercate oltre! Da qualche parte scoprirete che ci sono anche cose che io non vi dirò, che questo manuale non sa!!<
Silenzio.

>Il Cristo Giallo fu dipinto da Paul Gauguin nel 1889 - la sua voce era tornata piatta - Nell'anno dell'Esposizione Universale di Parigi, un secolo dopo la Rivoluzione, su un quadro piuttosto piccolo (fate caso alla didascalia sul manuale!!) compare un crocifisso trapiantato ai giorni moderni: è il mondo contemporaneo che assiste all'orrore del sacrificio estremo; e l'oggi che tutti i giorni deve scoprire la propria dose di sofferenza. Tutto per la salvezza, tutto per il bene, tutto perché - e la voce mutò ancora, fu qualcun altro, nascosto nell'intimo, a parlare - perché la vita è il servizio dell'altro: in Cristo crocefisso per l'umanità intera, così come nel sudore dei campi perché a casa c'è il futuro da crescere. Due sacrifici, sacro e profano, si incontrano … no, forse Gauguin non volle questo consciamente, ma, di fatto, ha rappresentato l'amore<

giovedì 31 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - lettera a S.

a S.
"Se ora fugge, presto inseguirà
se non accetta doni, ne offrirà
se non ama, presto amerà

pur se non vuole"

maggio 2015
Vedi, ho appena finito un racconto lungo, una storia che non ha la presunzione di essere un romanzo e che ho avuto il piacere di dedicare a te: questo racconto è nato d'estate, in una di quelle settimane che ho passate in solitudine a lasciar correre i pensieri e a permettere a ciò che avevo dentro di schiarirsi. Inizialmente l'avevo progettato in una maniera diversa, ma poi, dopo un periodo in cui SKIN-TIGHT JEANS non è stato minimamente parte dei miei pensieri, la storia si è plasmata da sé in un altro modo, un modo che non avevo considerato e che mi ha fatto arrivare alla fatidica parola di quattro lettere: fine.
Ma questa lettera non vuole essere l'esposizione di come questo racconto è venuto alla luce, non m'interessa spiegarlo e non credo ti possa interessare - e poi non ricordo quasi niente di tutto ciò - piuttosto questa lettera vorrebbe darti alcuni consigli, oltre a quelli che ti ho già dati, consigli e pensieri che ho sentito la necessità di legare a questa storia semplicemente perché questa storia è un simbolo, il simbolo di quello che è l'amore di quegli omosessuali che ancora hanno dei 'problemi' con la loro sessualità perché non riescono a superare quel conflitto interiore che, sia esso causato da un qualcosa di religioso (non m'interessa discutere s'esiste o meno un'anima e se le religioni abbiano senso!) o da un impianto socio-culturale, è una condizione miserevole, tra le peggiori di cui l'uomo possa avere esperienza.
Ho iniziato questa storia con quattro versi di una poetessa che in molti amano per la sua straordinaria capacità, per la sua imperitura bellezza: Saffo. Credo tu sappia chi sia, anche solo per sentito dire. Lei è famosa per aver descritto in poesia i 'sintomi dell'amore' che ancora oggi gli scrittori e i registi ricordano quando creano una scena d'innamoramento. Ma di Saffo i versi che più mi colpirono furono proprio questi: c'è un che di profetico in queste parole che le rende immortali non solo perché frutto di una poesia meravigliosa, ma perché sono la maledizione incisa sul cuore di ciascuno di noi, dall'origine dei tempi fino alla fine dei secoli.
Saffo comprende che l'amore è una forza, ancora prima che tutti gli scienziati si disperassero a ricercare le forze nel mondo fisico lei aveva scoperto l'unica forza in grado di sconfiggere ogni forza. Sì, perché l'amore - e tu lo sai bene - è qualcosa di impossibile, qualcosa di stranamente illimitato e immensamente potente, è quel qualcosa che potremmo immaginare alla base dell'universo, e non perché sono cristiano e la penso così per catechismo, ma perché davvero la mia mente trova solo nell'amore tutta l'energia e il vigore per spiegare ciò che esiste.
Saffo sottolinea che l'amore 'colpisce' tutti, è inevitabile, non c'è nessuno che ne sia immune, non c'è modo di tenere lontano dalla propria esistenza tale esperienza.
Ma perché dico tutto questo?
Perché vorrei che tu trovassi anche in Saffo una testimonianza, un sostegno, quando ti diranno che l'amore omosessuale non è amore, che è solo amore carnale, che è solo piacere dei sensi, che sei malato, che sei sbagliato: rispondi pure che non è una scelta, l'amore, che tu non scegli di essere omosessuale, rispondi che tu sei omosessuale, che se potessi sceglieresti volentieri di non esserlo, se questo ti consentisse di vivere una condizione un po' meno spiacevole di quella in cui sei costretto a vivere per colpa di tutti quelli che ti stanno attorno e non hanno ancora capito nulla!
Rispondi così, te ne prego, sii pronto a non cedere anche tu, perché so bene che dentro al tuo cuore - il tuo, perché sei una persona che ha ancora quei famosi 'problemi' con la propria persona - nasceranno ancora, forse sempre quei dubbi che ti conducono alla disperazione, quelle perplessità che ti trascineranno in momenti di crisi profonda, in una crisi odiosissima e dannatamente dolorosa! Ti prego, sii pronto a rispondere sempre, e questi dubbi che ti sorgeranno nell'animo accoglili, affrontali e, infine, sconfiggili: parla con qualcuno, confidati, trova una forza, anche uno sfogo … apriti e abbatti questi dubbi, poiché se questi dubbi portano solo alla disperazione, allora significa che sono dubbi un po' marci e non importa se sia stato Dio a farli sorgere o una tua follia momentanea, importa solo che sono dubbi bacati, malati, sbagliati; loro, non tu!
Abbiamo già parlato a lungo di cosa sia l'omofobia: sicuramente non è una cosa piacevole per noi omosessuali, ma mi sono sempre chiesto che cosa significasse essere omofobo.
Non ho trovato nessun omofobo in grado di spiegarmi cosa ci fosse di male in me, semplicemente dicono che siamo sbagliati e amen. Ma anche se non lo sanno dire, anche se dicono solo infamie, assurdità e stupidaggini, tutto quello che dicono a me qualche volta penetra fino in fondo nel cuore, mi ferisce come una frusta e così l'omofobo è in grado di farmi pensare davvero di essere sbagliato, malato …
Non so davvero spiegare come, ma succede e mi sono sempre convinto che un possibile modo per superare tutto ciò sia l'amore, quell'amore di cui parla Saffo … ho sempre sognato che l'amore potesse davvero essere la risposta, proprio perché pare così potente in tutto, in ogni situazione. Ma davvero basta? Qualche volta mi ritrovo a non essere così ottimista, talvolta non riesco proprio a vedere nell'amore un motivo sufficiente per rimanere e continuare a combattere giorno dopo giorno. E allora mi viene in mente quest'altra terribile domanda che non trova davvero nessuna risposta: perché a volte l'amore non basta? perché a volte l'unica cosa che sembra essere la più potente e forte di tutte cede anch'essa e ci ritroviamo nuovamente persi, soli, abbandonati anche se qualcuno accanto ci sarebbe? Cosa c'è, dunque, di più forte dell'amore?
Sono domande tremende, soprattutto l'ultima, ma sono domande che a volte devo pormi, come se fossi necessitato a farlo. Sono domande che rivelano un'anima indecisa e confusa, non perché volubile e sfrenata, ma perché disperatamente smarrita, cui sono venute meno tutte le sicurezze, anche quelle che giudicava inviolabili, incorruttibili, eterne.
Perché a volte l'amore non basta?
Io sono alla ricerca di questa risposta da tempo e spero che qualcuno, un giorno, possa o smentirmi questa domanda o darmi una risposta certa, che mi sazi la coscienza e chiarisca ogni mio dubbio.
Ma capita a volte e giuro che pregherò - perché io in Dio voglio crederci - perché tu possa essere tra tutte quelle persone per cui l'amore basta, quelle persone che davvero sono salvate dall'amore, che davvero sono finalmente e totalmente felici nell'amore. Ti auguro questo, ti auguro la più grande gioia che possa capitare ad un uomo su questa Terra: trovare un amore che basti e che ti basti!
Questo è l'unico augurio che merita d'essere fatto, a chiunque, non solo a te; perché sta nel non trovare un simile amore la più grande maledizione che possa abbattersi su qualcuno.
Non mi dilungherò oltre: forse sono stato anche un po' confuso; perdonami.
Ti rinnovo ancora una volta il mio augurio e ricorda:
"… se non ama, presto amerà, pur non volendo …"
Buon vivere a te e buona fortuna.
Con affetto sincero
James
P.S.
Prova a immaginare cosa sia successo ad Alberto: io non so davvero cosa possa essergli accaduto, non vedo niente … se ti venisse in mente qualcosa, dimmelo, per favore: mi dispiacerebbe saperlo infelice.

martedì 29 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - settima parte

MARTEDÌ notte
La svegliarono i suoi genitori, agitati, scuotendola con la mano tremante: lei non aveva sentito il telefono squillare di là. Dietro di loro la luce dal corridoio era accecante. Non le avevano voluto dire nulla, l'avevano solo svegliata e le avevano detto che doveva vestirsi in fretta. Lei si era vestita senza fretta, mentre la madre stava lì, sulla porta, le mani giunte sul ventre e gli occhi fissi nel vuoto, un po' umidi, preoccupati e addolorati. Papà era andato di là e Adriana lo sentiva trafficare con qualche chiave.
Quando fu pronta sua madre l'accompagnò in salotto, non preoccupandosi di spegnere le luci né di controllare che tutte le finestre fossero chiuse. Insieme uscirono di casa, chiudendo la porta con solo una girata di chiave. Le mani di papà tremavano, i suoi occhi erano agitati e si muovevano qua e là senza tregua.
Più volte chiese cosa stesse succedendo, ma nessuno dei due rispondeva: l'una rimaneva incantata, assolutamente assente, l'altro si agitava parlottando qualcosa di incomprensibile, saltellando agitato come fosse un tarantolato.
In macchina papà guidava spostando il suo sguardo ansioso da uno specchietto all'altro, agitato come se si trovasse in un incrocio trafficato all'ora di punta.
Finalmente, davanti al parco, papà fermò la macchina e si voltò verso la figlia.
«Io non volevo portarti, ma lei ha insistito per vederti, diceva che solo tu potevi aiutarla, che solo tu avresti potuto capirla, che aveva bisogno di abbracciarti e di stringerti …» quasi piangeva mentre parlava. La sua voce pareva quella di un isterico, di uno schizofrenico.
«Beatrice ha bisogno di me? Cosa è successo?»
Ma la domanda stroncò ogni parola nella gola di suo padre. 'Beatrice ha bisogno di me?' Udire simili parole spense ogni forza nel corpo di quell'uomo e lo lasciò lì, ormai liberato dalla sua agitazione, invaso solo da un immenso dolore: «No … - disse facendosi un poco coraggio, fissando un punto inesistente ai piedi della figlia - non è Beatrice che ha chiesto di vederti, non devi aiutare lei …»
Ormai Adriana era completamente confusa: la preoccupazione pulsava dentro di lei e raggiungeva picchi elevatissimi; il cuore si agitava ansioso e sembrava desiderare di essere strappato dal petto; sudava freddo, inzuppando la tuta che si era messa addosso mezza addormentata.
«Che cosa succede!!» gridò Adriana, ormai impossessata dall'ansia.
«Adriana … Beatrice … Beatrice è morta! - disse con un filo di voce quel pover'uomo - I suoi l'hanno trovata in camera sua, allungata sul letto verso la lampadina»
Non un'emozione, non una lacrima, non un gridolino. Nulla.
Gli occhi di Adriana si persero nello sguardo del padre e smarrirono il loro colore, si spensero nel vuoto.
Balbettò: «C-c-com … come è successo?»
Ma il padre non ebbe la forza di rispondere, si voltò e riprese a guidare, riprendendo la strada verso la loro meta; mentre guidava le lacrime gli rigavano il viso, andandosi a perdere nella barba folta.
Quando giunsero a casa di Beatrice l'ambulanza era ormai ripartita da molto e sul luogo rimanevano solo i vicini, i curiosi e i carabinieri.
I genitori di Beatrice piangevano in un angolo del portone, sorretti da qualche vicino caritatevole: quando vide Adriana la madre di Beatrice le corse incontro e la strinse a sé, piangendole nei capelli, urlando il nome di quell'angelo che quella sera si era involato verso un mondo più sereno.
Adriana dal canto suo ancora non piangeva, quasi in catalessi osservava tutto quello che le accadeva attorno e, quando la donna l'aveva abbracciata stretta stretta, lei era rimasta immobile, senza muovere nemmeno un dito, lo sguardo perso.
«Lei t'amava davvero! - urlava la misera - Lei t'amava!! BEATRICE! AMORE MIO!!! Perché? Perché a lei? Perché lo ha fatto? Perché? PERCHÉ?»
Il cuore di Adriana, bloccato per la disperazione, recepì quelle parole di dolore e ad un tratto si accorse di ciò che significavano: Beatrice si era uccisa! Il suo amore, la ragazza che aveva visto così tante volte sorridere per certe idiozie così sceme ora era morta, si era tolta la vita; quella ragazza che diceva di sentirsi davvero felice con lei, di sentirsi finalmente se stessa quando erano insieme, era morta, andata via per sempre dalla sua vita!
Il dolore fu qualcosa di straordinario, qualcosa di quasi meraviglioso: in un cuore che si era fermato alla notizia della morte della persona amata, tutto ad un tratto, tutto si rimise in moto: una fiamma ardente straziante iniziò a bruciare e divorare con il proprio fuoco; le lacrime finalmente scesero copiose e il dolore si manifestò con alte grida e lacrime terribili!
Adriana crollò a terra e il suo corpo scivolò tra le braccia della madre di Beatrice.
Rivoltandosi sull'asfalto la ragazzina gridava e piangeva, stringendosi il viso con le mani, graffiandoselo con le unghie, stringendo i denti in una morsa dolorosa, che tentava di impedire alla disperazione di uscire.
Passò molto tempo.
Quella notte non dormì nessuno e non ci fu spazio per le parole.
Quando la mattina Adriana fu portata di nuovo a casa le lacrime continuavano a sgorgare come da una fonte inesauribile, una fonte nascosta non dietro gli occhi, ma giù, nel cuore, celata nei sentimenti più intimi e privati della sua persona. Questo pianto non era attraversato da singhiozzi e scossoni, ma scendeva come un ruscello, rigandole il viso e scivolando lungo il corpo.
Sua madre le sedette vicino sul letto dove l'avevano adagiata. Almeno nella mamma sembrava tornata un po' di vita: osservava la figlia dispiaciuta ma non più inebetita, non aveva più gli occhi sbarrati, ma dolci occhi materni che si dispiacciono e per la sofferenza di ciò che hanno di più caro.
«Amore mio - disse a bassa voce, sfiorando la fronte della figlia con la mano - c'è qualcosa che mi hanno dato i carabinieri: è solo una copia questa, ma a quanto pare in cucina c'era un foglio su cui ha lasciato scritto qualcosa … c'è scritto qualcosa anche per te … vuoi che te lo legga?»
La figlia cui si rivolgeva non l'aveva mai vista: una creatura sofferente che stava sdraiata senza un cenno, senza un minimo movimento …
«No! Lascialo sul comodino ed esci»
Non c'era rabbia nella sua voce, ma nemmeno dolore, nemmeno tristezza: la sua voce aveva perso ogni colore, ogni forza, ogni slancio.
La madre obbedì e lasciò la stanza, non chiudendo la porta dietro di sé, indugiando qualche secondo sull'uscio a osservare quel corpo immobile.
Adriana chiuse gli occhi e ritrovò il volto di Beatrice, riuscì a richiamarlo a sé con il suo amore: sentì nel naso il profumo dei suoi capelli biondi, percepì tra le sue dita le mani di quella creatura meravigliosa, poté riammirare quegli occhi così grandi e luminosi, timidi ma felici. La guardava con quell'aria innocente e fanciullesca che aveva sempre prima di avvicinarsi e baciarla, con quel sorrisetto un po' birba che le faceva venire le fossette sulle guance.
Quando quest'immagine le fu chiara davanti agli occhi, Adriana gridò. Un grido lungo, alto e sofferente che riempì la casa e fece accorrere i suoi. Entrambi la tennero stretta, mentre Adriana ricominciava a urlare e disperarsi,a piangere l'amore perduto, l'amica ormai morta.
Ci volle del tempo perché si calmasse di nuovo, ma finalmente, stremata da tutto quel dolore, Adriana s'addormentò e dormì un sonno senza sogni.
Quando si svegliò era notte e di là i suoi si tormentavano per la figlia. Accese la luce del comodino e ritrovò il foglio che vi aveva lasciato sua madre.
La fotocopia era scura, ma si leggeva bene la grafia: quella r riccioluta l'aveva incontrata già tante volte in biglietti di auguri e fogliettini carini, in dediche scritte su quel cd o su qualche busta contenente una frase romantica o una lettera d'amore.
Le lacrime avrebbero voluto trionfare ancora ma il sonno aveva concesso ad Adriana di resistere e leggere.

"Fate avere questo foglio anche ad Adriana, per favore: non c'è persona che m'abbia più aiutato, che m'abbia più amato! Grazie Adriana, perché senza di te non avrei mai capito chi sono, perché con te ho scoperto che cosa significa stare bene, perché sei stata la persona che mi ha abbracciato sempre quando ne avevo bisogno. Grazie … non pensare che la colpa di quello che sto per fare sia tua: non hai colpa, amor mio, non ne hai e non te ne devi imputare … sei stata meravigliosa ma il mio cuore non riesce a sopportare. Tu hai dato forza a questo mio cuore, una forza che mi ha fatto superare tante e tante cose, ma oggi nemmeno la forza che viene da te riesce a farmi andare avanti, oggi la forza che avevo trovato è venuta meno e … e nulla. Ti amo, Adriana, e, qualsiasi cosa sarà, io sarò con te, vicino a te, in ogni tuo nuovo amore, in ogni tuo nuovo giorno: vivi per me, abbi la forza che non ho avuto io e aiuta un'atra come hai aiutato me! Sei la persona più meravigliosa che esista e t'amo, ti amo, ti amo, TI AMO! Dicono che siamo solo ragazzine e che non possiamo sapere cosa sia l'amore, ma quello che provo io lo riesco a definire solo così, con queste parole: TI AMO!"

venerdì 25 marzo 2016

VENERDì

3 aprile 2015
Oggi non c'è spazio per i colori e le parole, non c'è posto per i canti della grandezza di Dio, ormai tutto è finito e bisogna che tutti se ne vadano via dalla chiesa in silenzio e col capo chino: non possiamo dire 'Domani tanto resuscita, sappiamo già che non è morte definitiva la sua!'.
Oggi Lui muore, oggi l'Altissimo, il Re dell'universo, il Creatore del Cielo e della Terra, che s'è fatto uomo per salvarci e redimerci dalla colpa, oggi proprio Lui muore.
E se un mistero immenso è la Sua incarnazione, se un mistero profondissimo è la Santissima Trinità, quello che accade oggi è forse un mistero ancora più assurdo … sì, è assurdo! Come è possibile? Ieri il Signore si è inginocchiato e s'è cinto di un asciugamano, oggi addirittura viene ucciso, innalzato sull'alta croce, stanco e sanguinante, torturato dalla crudeltà ignorante della sua gente … che Dio è questo?
S'è fatto uomo, ha camminato povero tra i poveri ed ora muore …
E chi lo ha innalzato su quel legno maledetto? Chi ha dato quell'ordine folle? Chi ha acclamato un ladro pur di non concedere a quell'uomo buono e docile la libertà?
Oggi la riflessione lascia spazio allo sconforto: sembra che anche il Creatore sia impotente dinnanzi alla grandiosa malignità degli uomini, quasi che tutto l'universo sia nulla dinnanzi alla prepotenza dell'uomo.
Non rimane nulla, finisce tutto, come una festa che ormai s'è spenta, che non ha più da far ridere e divertire nessuno: "È compiuto!" e, chinato il capo, consegnò lo spirito. Chi rimane? Nessuno: la gente che ha assistito allo spettacolo di questi uomini crocifissi è tornata a casa, si è avviata alla vita normale; si ritorna alla monotonia delle strade tutte uguali, alle grida dei mercati e alla sete che prende la gola nelle giornate caldissime e secche. E ormai non c'è più nulla.
Con che coraggio posso ora ricordare le parole ch'hai dette ieri? Ieri avevi detto già tutto, ora lo comprendo, ora capisco perché quelle parole così strane ... oggi è morte: ti sei fatto uomo ed ora sei solo un uomo.

Davanti a questa croce non c'è granché: polvere e pochi sassolini. Cose grandi e belle, il profumo e la luce qui non ci sono più. La speranza? Dimenticata, smarrita in un angoletto sperduto nella notte. Tutto, tutto è scomparso, tutto e tutti. Non rimane che il silenzio che ora lascio calare quaggiù. Nemmeno un sospiro romperà questo silenzio: dopo quest'ultimo tuo respiro noi non oseremo vivere, nemmeno dinnanzi a te. Ce ne andiamo, ti abbandoniamo perché queste cose ci sovrastano: la vergogna, la paura, la delusione, il nulla ... non abbiamo le forze nemmeno per rimanere davanti alla tua croce. 

giovedì 24 marzo 2016

GIOVEDì

2 aprile 2015
È il giorno dell'istituzione di quell'attimo straordinario che per tutto l'anno rievochiamo per sostenerci, il giorno della nascita della nostra Chiesa, il giorno che è l'ultimo istante almeno apparentemente sereno prima di un precipitare di eventi drammatici, il giorno che ci restituisce la grandezza della divinità, quando, dopo un lungo periodo di silenzio, ci concediamo quel "Gloria nell'alto dei cieli, pace in terra agli uomini che Egli ama!"; è il Giovedì Santo, l'inizio di quell'ultimo cammino, un cammino che s'affretta alla salvezza.
È Giovedì. Ormai la settimana si avvia alla fine, presto assaporeremo il piacere dell'attesa del finesettimana, non manca molto a che noi riusciamo a riposarci, a godere un po' di tranquillità. Ed è proprio in questo particolare momento, in mezzo alla frenesia della nostra vita, che tutto si ferma, tutto si sospende, come un vento che fino a poco fa soffiava vivace, e che ora tace, lasciando immobili le foglie sui rami: si alza da tavola, depone le sue vesti, prende un asciugamano e se lo cinge attorno alla vita. Ecco, tutto è immobile: la cena non può proseguire, la settimana, per noi, deve arrestarsi. "Capite quello che ho fatto per voi?" No. Non capiamo. Sappiamo solo che non possiamo andare avanti, perché adesso ci hai sconvolto, ci metti in difficoltà, ci impedisci di continuare come abbiamo fino ad ora: i tuoi, quando tu facesti queste cose, rimasero sbigottiti, Simon Pietro esterrefatto, scandalizzato; e noi uguale: la settimana ora deve bloccarsi, il tempo scorra pure ma noi … noi non possiamo scorrere con lui.
Rimango qui ad osservarti, rimango immobile a scrutarti: quante domande, quanti dubbi, quanti interrogativi, quante perplessità, quante preghiere, quante lamentele, quante cose … e tu? Tu cosa fai? Ti alzi da tavola e deponi le tue vesti, prendi un asciugamano e te lo cingi attorno alla vita.
Ecco l'istituzione della Chiesa, a fianco all'istituzione dell'Eucarestia.
Quando qualcuno chiede 'Perché per tre giorni? Che senso ha iniziare il giovedì e finire il sabato notte, in attesa della domenica?', è difficile rispondere. Ma una risposta la possiamo trovare, è lì, proprio lì, da dove abbiamo letto queste parole: "Capite quello che ho fatto per voi?"
Abbiamo di tre giorni, solo perché ogni volta bisogna avere il tempo di accogliere ciò che succedendo, di comprendere quello che sta succedendo, almeno provarci: è qualcosa di straordinario, quello che sta accadendo, qualcosa che - e nessuno può negarlo - cambierà per sempre la storia.
Il Dio che già aveva portato scandalo facendosi uomo, accettando di rinchiudersi in un corpo di carne e fatica, l'unico Dio ch'era impazzito d'amore per una creatura che pareva ignorarlo, a tal punto da decidere di scendere in Terra, ecco che ora è pronto per dare scandalo l'ultima volta: Dio muore.
Il sacrificio che si verificherà domani nella carne e nel sangue di Gesù, nel Giovedì è anticipato, è annunciato, quasi che gli avvenimenti del Venerdì fossero solo una conseguenza ovvia degli atti di quest'oggi: Gesù si china ai piedi dell'umanità, si fa servo dei servi, e come quella donna gli aveva profumato i piedi, devota, così Lui, l'Altissimo, si inginocchia e si fa piccolo dinanzi ai calcagni di gente che presto sarà solo un mucchio di codardi; domani non si chinerà, anzi domani sarà innalzato da terra, ma anche allora sarà l'ultimo degli ultimi, morto per un branco di peccatori che gode dei propri peccati.
Davvero oggi è un giorno particolare, davvero è solo apparentemente un giorno sereno, un giorno allietato dalle alte note del Gloria: oggi inizia a scendere quel velo di morte, quella coltre di tenebra che farà 'buio su tutta la Terra'.
Ma come affrontare la domanda di nostro Signore?
"Capite quello che ho fatto per voi?"
Ogni volta che questa domanda si affaccia al mio udito, sfiora i miei orecchi, sempre il mio cranio rimbomba vuoto, invaso solo dall'infinità eco di queste parole. Perché non capisco, non comprendo cosa tu abbia fatto: ti sei chinato dinnanzi a me, e io, oggettivamente, chi sono? Sono un peccatore, un lurido mentitore, un perverso, un pervertito, una creatura deviata! E allora perché ti chini?? "Tu lavi i piedi a me?" Ma assolutamente no! Tu sei il Maestro, sei il Signore, l'Unto: perché mi lavi i piedi?
Ma poi smetto di ragionare con la mia mente, riconosco che il mio intelletto, per quanto capace di meravigliose creazioni, non è il tuo Intelletto: in quella risposta che dà Gesù a Pietro ("Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo") io ci vedo sempre un sorriso, un bel sorriso affettuoso sul volto di Cristo; mi immagino Pietro spaventato, oltre che strabiliato, e vedo Gesù che sorride affettuoso, lo guarda con quegli occhi che vogliono calmare, tranquillizzare, abbracciare. E quando vedo questo, ho finalmente smesso di ragionare: ascolto ora non la mia mente umana, legata, o meglio, incatenata a logiche terrene, ascolto ora il mio cuore, che non comprende completamente, ma che almeno si avvicina a te, si accosta al tuo viso, accetta senza fare domande.

Aspettiamo domani. Domani anche questo velo fittizio di serenità, quest'ultima immagine pacifica di una cena tra amici sarà svanita: ci sarà l'oscurità di un giardino, il crepitio delle torce … ci saranno madri distrutte, prosciugate delle lacrime … oggi è ancora giovedì, oggi, siamo Chiesa e proviamo a pensare a questo e basta: per il dolore ci sarà posto domani; per oggi, preghiamo e serviamo.