martedì 24 giugno 2014

OTTAVO COMANDAMENTO

NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA
ottavo comandamento della Nuova Religione

- Ed è per questo che non si può non condannare quest'uomo, è per queste ragioni, che vi ho fino ad oggi presentato, che quest'uomo deve essere dichiarato colpevole! Giurati sta a voi decidere, ma credo di dovervi confidare che, se quest'uomo non verrà incarcerato, io non dormirò tranquillo la notte, sapendo che per le strade gira quest'uomo che, come le prove a parere dei periti dimostrano, ha ucciso con sedici coltellate un uomo perché gli aveva fatto pagare troppo un funerale! Vi prego, perché sia fatta giustizia, dichiaratelo colpevole! - terminò David Rushman la sua arringa finale. Ora, nell'aula silente, si preparava il difensore: una goccia di sudore scintillava sulla tempia destra. 
Il teste principale sedeva dietro di lui, oltre la balaustra in legno. Aveva giurato e poi aveva raccontato che una sera, mentre portava a spasso il suo cane (Dilly o Milly, chissà), aveva visto un uomo con in mano un coltello da cucina scagliarsi contro un secondo uomo, basso, ma con lo sguardo aggressivo. Lo aveva pugnalato selvaggiamente. 
Sul tavolo stavano l'arma del delitto e alcune carte del tribunale. Le impronte non c'erano sul coltello, ma il testimone lo aveva riconosciuto facilmente, ci avrebbe messo la mano sul fuoco. I documenti erano infilati disordinatamente in una cartelletta di cartoncino, qua e là si vedevano numeri e protocolli. 
" ... brutto bastardo - questa era forse una mail - per colpa tua ho dovuto fare un mutuo per un ca**o di funerale! giuro che se posso io ti ... ".
L'avvocato Rushman sorrise mentre osservava il suo tavolo. Il difensore continuava a parlare, e parlare, e parlare, e ancora parlare. 
'Ormai è vinta - pensò tra sé - lo dichiareranno sicuramente colpevole e al diavolo lui e questa causa!'
Il giudice aveva fatto accomodare l'avvocato difensore, ringraziandolo per le sue parole e poi l'usciere aveva invitato tutti ad alzarsi per l'uscita della corte. 
Si voltò e ignorò il suo teste. 

A casa accese il televisore e si scaldò una zuppa in scatola in un pentolino. Una giornalista, carina, parlava dell'imminente decisione della giuria di quel famoso caso che coinvolgeva un famoso poliziotto (noto per le sue indagini sulle gang) che era accusato di aver ucciso l'organizzatore di funerali.
Scorrettero le immagini dell'aula di tribunale, le lacrime dell'imputato durante l'interrogatorio e le parole 'io non ho fatto nulla' risuonarono per il piccolo cucinino. 

Rushman aveva dormito bene quella notte, nonostante l'ansia era riposato quel mattino, dinnanzi al giudice, in attesa che entrasse anche tutta la giuria. L'imputato era in piedi, gobbo e con il viso attraversato da un indicibile terrore, misto a tristezza. Poi, finalmente, il giudice fece la fatidica domanda: - La giuria ha raggiunto un verdetto?
- Sì - rispose la donna, che era il presidente, e passò un foglio all'usciere, questi lo consegnò al giudice.
- La giuria, per l'accusa di omicidio, ha riconosciuto l'imputato colpevole
Rushman sorrise mentre si sollevava un applauso dall'aula stracolma. l'ex-poliziotto cadde seduto sulla sedia, le lacrime scendevano copiose.

Rushman sedeva un po' agitato su una bella poltrona in pelle rossa. Iniziò a parlar un signore piuttosto in carne, con una sigaretta tra le dita e un bicchiere di vino in bilico sul ginocchio sinistro.
- Grazie, avvocato, grazie a lei ci siamo liberati e di un rompipalle della polizia e di uno stupido che non voleva pagare. Grazie davvero. Ora, con il mio aiuto discreto, potrete di certo aspirare al ruolo di Procuratore Generale della Contea: congratulazioni! E di nuovo grazie! - E Don Carletto John Rodi lo congedo con un grasso sorriso.

giovedì 19 giugno 2014

PARADOSSO

'Factum eram ipse mihi magna quaestis
Io stesso ero diventato per me un grosso problema


- Agostino

'Be', chi può non condividere questa frase sublime?! E per sublime intendo quell'idea romantica di straordinario e terribile che si condensano in un'unica intensa emozione che però non trova riscontri nei nostri vocabolari, non trova definizioni certissime e indiscutibili. Ma ritornando alla frase, rimane il problema del perché io creda di dover considerare tale frase sublime.
Eppure è inesplicabile, è evidentemente ineffabile, la ragione che mi spinge a rimanere così abbagliato e sconcertato dinnanzi a queste poche parole in latino.
Agostino era un genio, conscio del potere delle parole in quanto oratore esperto, egli era di fatto una mente eccelsa; visse anche nella dissolutezza e, a posteriori, definì la sua precedente esistenza come un insieme di problemi, un insieme di problemi talmente problematici, da aver ricondotto l'origine di tutto a se stesso, e avendo individuato in sé il vero problema. 
C'è frase più attuale di questa? C'è frase più universale di questa?
D'altronde, nella vita di un uomo, ciò che fa crescere e ci istruisce è in effetti questo continuo susseguirsi di problemi. Ma quando il problema più grande, per noi, siamo noi medesimi, allora come eliminare questo problema? Sembra un paradosso, quasi come quelli di Zenone, o il gatto quantico dei fisici quantistici, eppure questo 'paradosso' è la base della nostra esistenza, poiché in molti avvertono, ad un certo punto della loro avventura su questa terra, di essersi persi, di aver perso, per meglio dire, se stessi: è curioso come l'io, che si e perso e non sa di essere tale, scopre comunque, come se osservasse dall'esterno, di essersi effettivamente smarrito, e di ciò prende coscienza, ma non può, con una semplice decisione, cambiare. Curioso.Come sia strutturato il nostro io, come questo io si percepisca, come noi ci sentiamo inadatti a noi stessi. Curioso'

martedì 17 giugno 2014

DI NUOVO, DOPO TRENT'ANNI O POCO PIU'

una storia per la Quaresima

'Adesso mi pento, ripenso a tutte le idiozie che in questi anni potevo evitare, ripenso a tutto quello che ho fatto, tutto quello che è avvenuto da quando, ormai ventisette anni fa, forse ventotto, lasciai la mia città per la capitale ... sulle mie labbra scorrono tutti i baci rubati alle mie amanti, tra le dita mi sembra di stringere tutte le monete trattenute troppo poco quando ne ebbi l'occasione ... Non mi spingere, so camminare! Ah ... non devo più camminare ... è ora che mi leghino: quante volte ho deriso quelli che erano nella stessa situazione in cui sono io ora ... chi è quell'uomo? Ha degli occhi familiari, uno sguardo già visto, ma dove? Anche lui deve subire l mio stesso destino, il mio supplizio ... eppure ... quegli occhi ... sono verdi, ma è un verde scuro, quasi macchiato di marrone ... è triste eppure quegli occhi ... sono in pace e ... quella pace io me la ricordo ... io l'ho già vista ... ma DOVE?? Non riesco a smettere di fissare quegli occhi, sono straordinari: la fine per lui si avvicina, eppure quegli occhi sono sicuri, sono convinti! Io quegli occhi li ho già visti, lo so, sono sicurissimo, eppure... forse quando ancora non ero in capitale?! No ... Si!, invece ... ecco! Gli occhi ora sono immobili davanti a me, tutto sembra svanire, tutto si confonde attorno a quelle iridi così affascinanti.
Era primavera e la notte limpida; ero un bambino, ero ancora a casa e la mia mamma era ancora viva. Quella sera sulla porta, la tensa scostata, osservavo le stelle, erano luminosissime quella notte. Papà era fuori con il gregge - era sempre fuori con le pecore nella bella stagione - e a me mancava, ma io e lui avevamo fatto un patto "Se ti mancherò e non riuscirai a prendere sonno, guarda su, osserva tutte quelle stelle che ti ho insegnato a riconoscere e ricordati la mia voce, ti calmerai e dormirai con me a vegliarti ...". Guardavo su, tutte quelle stelle mi parevano decine e decine di monete, come quelle che si accumulavano nei cassetti del mercato ... tutte mi ricordavano la voce di papà, ogni luce era una parola che risuonava nella mia testa, nel mio piccolo testolino di bambino ... osservavo quella distesa eterna di piccole fiammelle e la voce di papà mi tranquillizzava, a poco a poco i miei occhi si appesantivano, la mente si alleggeriva e si liberava di tutto il resto. Ricordo che quella notte la luna non c'era, non era venuta a salutare la sua corte infinita, non aveva allietato noi di quaggiù con i suoi raggi luminosi, no, quella notte tutto il cielo era delle stelle, ogni piccolo angolino di cielo aveva la sua ospite raggiante, la sua inquilina scintillante. Ricordo che, come mi aveva insegnato papà, resi grazie al Creatore per quello spettacolo, nei miei occhi assonnati ora c'ero lo stupore che un bambino non può non avere dinnanzi al Creato ... chiusi gli occhi.
- Svegliati, **, svegliati! - mi scuoteva papà, era ancora notte, ancora le stelle erano l'unica luce in quel silenzio così vasto, ero ancora appoggiato allo stipite della porta, con la tenda scostata - Svegliati! Dobbiamo andare, oggi è un giorno grande! -
e non potei oppormi: papà mi prese per mano e mi trascinò verso una delle grotte che si aprivano poco lontano dalle case e che qualcuno utilizzava come stalla o magazzino. Dentro una di queste grotte stava una bambina, o meglio, una ragazzina, aveva degli meravigliosi, occhi semplici e gioiosi, occhi umidi di lacrime, occhi arrossati dal pianto, ma felici, davvero felici. Un uomo stava seduto poco lontano, vicino a un fuocherello, e scaldava dell'acqua per la sua sposa. La ragazza era coperta da una massa informe di abiti e stracci e coperte. Il mio papà mi fece avvicinare raccomandandomi con un semplice gesto di tacere. 
Gli occhi della ragazza erano i più belli che avessi mai visto e in quella notte non salutata dalla luna erano come fari, luminosi e rassicuranti.In braccio, sommerso anch'egli dalla montagna di indumenti, coccolava un bambino, piccolo, appena nato. Vedevo il faccino di quell'essere così bello, così debole, così indifeso; le guanciotte erano belle tonde, soffici, con un dito ne toccai rapidamente una, prima che papà mi desse un sonoro schiaffo sulla mano. La ragazza sorrise. La fronte era liscia e morbida, il nasino umido e delicato, le labbra socchiuse. E poi gli occhi: quegli stessi occhi che mi avevano incantato nella madre, mi stregarono nel figlioletto! Se sulla ragazza apparivano il coronamento di qualcosa di perfetto, sul neonato erano gioielli provenienti da un altro, lontanissimo mondo!
Eccoli là quegli occhi così belli,eccoli pronti a subire una tortura terribile, un orribile crudeltà! Ora mi scendono lacrime amare lungo queste mie guance indegne, tutti penseranno che pianga per la mia sorte, ma non è così: perché quegli occhi devono subire tutto questo? cosa può aver commesso quell'uomo per essere qui insieme a ladri e assassini come me?
- Hai visto quel nazareno? Ben-gli-sta: ha voluto dirsi figlio di Dio?! Si salvi! - dice qualcuno non lontano da me. Dunque è lui? Quello di cui tutti parlano è ora qui a morire come me che sono ladro e assassino? Ma ecco, mi issano sul palo: mi manca il fiato! Che dolore al petto! Cosa dice quello là? - Hai salvato altri salva te stesso e noi! - ma che dici! tu non meriti di essere salvato, no! - Taci - gli dico io - tu non meriti di essere salvato da questa tua fine, e nemmeno io! Io ti conobbi - mi rivolgo a quegli occhi così belli - tempo fa, in una grotta ... come io ti ricordo da allora ... ricordati di me domani, quando sarai nel Regno di tuo Padre, salvo ... - e abbasso lo sguardo: non merito di osservare quegli occhi, non merito di essere salvato, non merito nemmeno di morire come lui!!
- Sarai con me nel Regno - mi dice.'

giovedì 12 giugno 2014

IO E I TANTI ME

'Io sono una persona strana.
Io scrivo di ciò che conosco e qualcuno dice che lo faccio perché son giovane, ma credo che scrivo di ciò che conosco solo perché di fatto si scrive di questo, l'unico vantaggio di essere cresciuti non è di riuscire a scrivere di altro per maggiori capacità, ma di riuscire a scrivere di altro per la maggiore esperienza. 
Io non so scrivere di amore eterosessuale, io so solo cosa ho vissuto, cosa ho scoperto nella mia vita che, seppur breve, mi ha fatto conoscere qualcosa della natura umana.
Io non so scrivere di un amore che non sia quello che ho provato. 
Io scrivo di ciò che sento, scrivo ciò che mi ispira e ciò che mi raggiunge, ciò che, mi pare per caso, emerge nelle tenebre della mia mente confusa. 
Io non so scrivere di tutto.
Io scrivo di ciò che voglio.
Io sono un giovane che ama da sempre l'arte, ha voluto conoscere il più possibile, ha tentato di assaporare più informazioni possibili, ha ricercato le curiosità che si nascondono anche dietro la più ovvia ovvietà. 
Io mi faccio numerosi, lunghissimi, erti, disorganizzati e disordinati viaggi mentali, poi arrivo alle mie conclusioni e allora ricostruisco il ragionamento, mi scopro contento di ciò che ho trovato e il ragionamento segue una logica che a tanti pare illogica, ma che quasi mai si basa su capricci. 
Io mi immergo in mondi strani e lontani, amo circondarmi di personaggi assurdi e inventati, amo parlarci, amo comprenderli, amo interrogarli, amo condividere con loro le loro, ma soprattutto le mie emozioni!
Io sono una persona strana. Questo è indubbio. Anche ora, sto facendo un mero elenco di caratteristiche perché sono di fatto un egocentrico, un megalomane, voglio lodarmi e voglio giustificarmi, ma si può non compatire un giovane che siede solo in una stanza e sogna la gloria e il trionfo? 
Io sogno di essere famoso, sono un inetto che come aspirazione più alta ha quella di vedere il suo nome sopra una parete, illuminata da decine e decine di lucine abbaglianti; io sogno la fama, la gloria; la mia parola preferita è TRIONFO, il mio trionfo. 
Io sono una persona che invidia ogni successo altrui, sono un meschino.
Io voglio essere ricordato e mentre sono qui che scrivo mi accorgo che sono un miserabile, sono un ridicolo scemo che si sopravvaluta e si sovrastima. 
Io sono una persona strana. Io ho questo desiderio di gloria, ma proprio ora, proprio mentre bramo la fama, mi sento comunque uno schifo.
Io sono una persona strana. Io sono uno schifo. Ma sogno la gloria: qualcuno un domani mi dovrà ricordare, a questo punto non mi importa se mi ricorderà con disprezzo o con ammirazione.
Mi ricorderà!'

martedì 10 giugno 2014

TERZO COMANDAMENTO

RICORDA DI SANTIFICARE LE FESTE
terzo comandamento della Nuova Religione

Il cielo era carico di neve e appariva come un infinito ammasso soffice, un trionfo di involuzioni che si arrampicavano l'una sull'altra. Il sole era nascosto da qualche parte dietro quella vastità bianca, ma nessuno se ne curava, nessuno alzava gli occhi al cielo per perdersi in quella immensità pura e morbida. Era tempo di regali, di doni, di panettoni e pandori, di arrosti e capitoni. Le vetrine erano un tripudio di colori, con tutte luci, quelle belle decorazioni, tutti quei doni pronti per essere impacchettati e posti accuratamente sotto un pino di plastica in un salotto o in una cucina. 
Le strade del centro quel sabato pomeriggio erano affollate e la gente camminava veloce avvolta nei giubbotti da un negozio all'altro, scappando dal gelo dell'aria e rintanandosi, di tanto in tanto, in un bar per un caffè o una cioccolata calda.  
Quel pomeriggio però era un pomeriggio particolare. 
Quattro ragazzine si erano incontrate per comprare i regali per i rispettivi ragazzi che avrebbero visto la sera per gli auguri - e che avrebbero rivisto ancora il giorno dopo -. 
«Finalmente l'ho trovato! Devo ammettere che è difficile fare un regalo a un ragazzo! Chissà cosa avrà preso per me Luca?»
«Spero per lui qualcosa di bello, sennò sei capace di arrabbiarti come una iena solo per quello!» rise una delle amica rispondendole. 
«Ma smettetela!» rispose alle risate delle amiche la prima.
E, mentre le tre ragazzine continuavano a scherzare sulla povera ragazza preoccupata per il suo regalo, una donna entrò di fretta nel bar. Poco dopo, quando si era appena chiusa la porta, questa si riaprì ed entrarono altre due signore abbarbicate nelle loro pellicce soffici e calde. Dopo aver raggiunto la prima entrata si misero a parlare mentre venivano serviti loro cappuccini bollenti con molta, moltissima schiuma. 
«Quest'anno Juanita si è allenata nel preparare un arrosto di maiale con una sfiziosissima crema ai frutti di bosco!» si inorgogliva una delle seconde venute e la prima le rispondeva - anch'ella notevolmente soddisfatta -: «Il mio cenone sarà favoloso! Ho invitato tutti e ho fatto allestire un enorme albero anche nella sala da pranzo, inoltre, per i miei nipotini, ho comprato talmente tanti regali che dovranno portarseli via con la carriola del giardiniere!» e le amiche continuarono a vantarsi, chi per il dolce più gustoso, chi per il camion dei pompieri con le rifiniture firmate, chi per qualcos'altro ancora. 
Intanto il cielo si scuriva e la sera calava veloce, rivelando un nuovo mondo: le luminarie. Sospese tra un edificio e l'altro, le lucine disposte in mille pose diverse si illuminarono non appena il sole accennò a lasciare la volta celeste. Qualche bambino si fermava ora davanti a una vetrina piena di giocattoli e dolciumi, ora alzava il nasino freddo e si incantava nello studiare quello scintillio così magico; ma la magia durava comunque poco perché all'improvviso, tra le voci confuse della gente, si udiva un 'Marco svelto, dobbiamo sbrigarci!' oppure un 'Se non ti sbrighi ti mollo lì e me ne vado!'.
Il tempo correva veloce e c'era chi era sempre più preoccupato per non aver trovato il regalo adatto per questa o quest'altra persona: un signore correva come un forsennato da un negozio all'altro alla disperata ricerca di un paio di orecchini che stessero bene con una collana che aveva regalato qualche anno prima. Ma ormai i negozi iniziavano a chiudere e lui o si sbrigava a raggiungere quella bella gioielleria in Via 'Cinque Maggio' oppure avrebbe dovuto inventarsi un'ottima scusa da raccontare alla sua bella. 
Già, ormai i negozi iniziavano a chiudere. Chi aveva comprato i regali era ora pronto, era in grado di affrontare il Natale. Chi non aveva comprato i regali era disperato: cosa avrebbero fatto senza i regali, che Natale sarebbe stato senza i regali? Già, che Natale sarebbe senza regali? 

lunedì 9 giugno 2014

LA TEMPESTA

Rimasi colpito da quello sguardo che mi lanciava lei,  mi sconvolse la sua naturalezza nello stare lì, nuda, coperta solo da un panno candido, mentre allattava il suo bambino. 
Il cielo era carico di pioggia, era estate. Il temporale, pian paino, avanzava verso la città e io mi ero incamminato per tornarci. La roggia scorreva tranquilla quella sera d’estate e ricordo che gli uccelli, avendo avvertito l’arrivo della tempesta, si affannavano ad appollaiarsi in posti abbastanza riparati.
Gli alberi resinosi profumavano l’aria mossa da un vento prepotente e fresco, piacevole compagno del mio ritorno in città. Fu qui, più o meno vicino al ponte di legno, là dove antichi resti combattevano contro l’edera prepotente, pronta a soffocare quei nobili blocchi di marmo purissimo, proprio dove la roggia è attraversabile comodamente che una donna, bella, bionda, nuda allattava il suo bel bambino. Era seduta vicino a un cespuglio e la sua mole nuda sembrava perfettamente in armonia con la natura circostante. Mi vide e non disse nulla, mi osservò per qualche attimo e poi riprese a badare al suo piccolo che avidamente le ciucciava la poppa carica di latte. Distolsi lo sguardo dalla donna - devo ammettere che ero non poco imbarazzato – ed ecco che vidi un giovane uomo, con una lunga asta e capelli ricci, che la osservava. La guardava con un sorriso compiaciuto, da ragazzino che scherza con i compagni sulle vergogne di maschi e femmine. Stava oltre la roggia e non osava muoversi, ma rimaneva lì, nella sua posa da Adone, appoggiato al suo bastone, nelle sue vesti modeste, ma di colori brillanti. Non capivo se la donna lo avesse notato oppure solo io avevo attirato la sua attenzione.
Le nuvole correvano sempre più veloci sulle nostre teste e il cielo carico di pioggia riversava tra noi quell’odore caratteristico che sempre accompagna i grandi e straordinari temporali estivi. Il vento scuoteva le alte piante che circondavano la piccola radura e mentre io contemplavo la giovane qualche uccellino ritardatario si era affrettato a correre sopra un solido ramo.
Di nuovo spostai il mio sguardo dal giovanotto impertinente alla bella fanciulla dai capelli biondi. Ella ancora fissava il suo angioletto che avidamente si nutriva di quell’oro bianco che dà la vita e la forza. Una visione celestiale! Ecco come i Magi si sentirono quella giorno quando videro lo spettacolo della Vergine con il suo pargoletto! Mi parse di essere proprio come uno di quei sapienti d’Oriente e mi parse che quella soave fanciulla altri non fosse che la Madonna Madre di Dio!
Indugiai a lungo e colmai i miei occhi di quella scena, come se mi trovassi dinnanzi a un affresco immane io mi incantai dinnanzi a quella scena così celestiale. Sparì la città, sparirono gli alberi e gli uccellini impauriti dal temporale in arrivo, sparì il giovanotto, sparirono le rovine: solo lei e il bambino.

Lei alzò lo sguardo, lo girò verso la città e poi, improvvisamente, lo impiantò su di me: non appena mi guardò fisso negli occhi un lampo attraversò il cielo sopra la città.

Giorgione, Paesaggio con figure (la tempesta)

sabato 7 giugno 2014

LA MORTE DI FIDIA

Oggi nasceva nel 1848 un uomo particolare e estremamente curioso, Paul Gauguin. Questo è un vecchio racconto che ho ritrovato nelle mie carte e forse apparirà grezzo o altro, ma voglio che si presenti così, per ora almeno, e voglio leggerlo per ricordare un artista straordinario. A Paul Gauguin.
J.D.

Era ormai un corpo rinsecchito e debole e i suoi muscoli ormai erano solo fibre secche tese su ossa fragili. Sdraiato in una piccola stanzetta buia, con una sola piccolissima finestrella posta in alto, vicino al soffitto, solo stava Fidia. Le sue braccia, un tempo tenaci e poderose, erano distese lungo i fianchi, le gambe mollemente abbandonate a terra e la testa stanca poggiava con la fronte a terra. La sua carne, bruciata dal sole dell'estate che a poco a poco si dileguava, era solcata da rughe profonde. 
Dalla piccola finestra presto sarebbero entrati i primi raggi di sole del nuovo giorno e allora Fidia avrebbe saputo che era giunto il momento di andarsene, ma ancora non era sveglio, ancora dormiva un sonno agitato che era arrivato solo dopo tre nottate passate sveglio. Fidia dormiva e mentre dormiva sognò.
Era pressoché nudo nel suo sogno, indossava solo una stoffa leggera sul pube, ma i suoi piedi erano nudi e saldi nella sabbia, la sua pelle era tornata giovane e i suoi muscoli erano nuovamente vigorosi e guizzanti. Dinnanzi a lui c'era solo il mare e lui, dalla spiaggia dove si trovava, lo osservava silenzioso. 
La vista era strepitosa e il suo cuore traboccava di gioia; le onde spumeggiavano e l'aria di mare era inebriante: a ogni respiro il petto si riempiva di acqua salata, si riempiva di quello strano odore, che odore non è, ma che su ogni spiaggia si sente. Fidia osservava estasiato.
Ma sappiamo come vanno queste cose, quando qualcuno è così immerso in una simile gioia, è inevitabile, per uno strano scherzo, che giunga la disgrazia. 
Il cielo, fino ad allora sereno, si fece scuro, soffocato da nuvoloni neri e pesanti, di quelli che i contadini sperano dopo una primavera che è stata troppo secca. Il mare si fece mosso, le onde divennero cavalloni, meravigliosi e terrificanti muri di acqua scura. 
Un'onda iniziava la sua corsa, prima sollevandosi, quasi innocente, poi arricciandosi, arrabbiandosi e ricadendo su se stessa, e fu allora che Fidia lo vide, vide un architetto con le armi del mestiere imprigionato nella parete di acqua. L'uomo portava in mano le sue squadre e i suoi fili a piombo, si dimenava nell'acqua e sulla sua fronte era scritto:'il mio nome si scorderà, viva lo Stato e il Popolo!'. 
L'onda si richiuse su se stessa e l'architetto svanì.
Di nuovo un cavallone si avvicinò alla spiaggia e di nuovo Fidia intravide qualcosa nella parete liquida: una donna, una vecchia dalla pelle tirata e secca, dal volto lungo e triste. La sua pelle era scura, grigiastra, e le rughe si affollavano su quella carne vecchia, si rincorrevano l'una con l'altra e allora si creavano come dei fasci di queste rughe, e sulla fronte sembrava che disegnassero tante finestrelle, disposte ordinatamente. Sul petto nudo, sopra il seno flaccido e sgonfio, erano incise queste parole: 'io mi vesto di statue e guglie: sono nuda, come la pietra'.
L'onda si richiuse su se stessa e la donna, la vecchia rugosa svanì.
Ancora, per la seconda volta, l'onda finita in se stessa, fu seguita da un più alto cavallone. Per la terza volta una figura, di uomo, si fece avanti nell'acqua. 
Indossava degli abiti simili a quelli del suo tempo, ma il volto era di uomo superbo, quello di presuntuoso e altezzoso uomo. Portava una barba dalla forma curiosa e tutta riccioluta. Su uno dei panni che gli cadevano dal braccio portava una scritta: 'Io ho nostalgia di ciò che venne molto prima di me, disprezzo da dove vengo e vaneggio un mondo lontano'. 
L'onda si richiuse su se stessa e la terza figura scomparve nelle acque.
Una quarta volta le acque si incresparono e per la quarta volta Fidia vide qualcosa, qualcuno. Era una donna, una bella, prosperosa donna, con lunghissimi capelli neri tutti acconciati in pose esagerate attorno a quel visino incarne, con un grandioso vestito dai mille colori, decorato in maniera esagerata, talmente vario da dare la nausea per la confusione. 'La mia epoca è quella in cui tutto è irrequieto: tutto esagera se stesso' portava scritto in fili di perle abilmente intrecciate nei capelli. 
L'onda si richiuse su se stessa e la quarta figura scomparve.
Inutile dire che vi fu una quinta volta in cui l'acqua si innalzò verso il cielo scuro, ma proprio mentre qualcuno emergeva dalle acque - era una donna - Fidia non si trovò più su quella spiaggia, ma di nuovo nel suo buco e dalla finestra entravano i raggi caldi del sole. Sua figlia lo osservava silenziosa. Si mise a sedere e fissò i suoi occhi sulla carne della sua carne, sulla più meravigliosa opera d'arte che avesse mai plasmato.
- Padre - gli disse lei - cosa hai? Facevi dei versi senza senso!
E il padre rispose, con i suoi occhi rassegnati:- Io ho sognato cosa verrà dopo di me e dopo di noi 
- Cosa hai sognato?
- Ho sognato il mio amore crescere e perdere il nome, l'ho visto invecchiare e farsi un mero gioco di luce, l'ho visto rimpiangere me e il mio tempo, l'ho visto, poi, perdersi di nuovo. Muoio, figlia mia, e so che ciò che ho visto avverrà, ma sappi una cosa: tu sei mia figlia e ti ho amato anche più del mio primo amore, l'arte. Quando sarò nell'Ade continuerò a osservare te e il mio amore, ma sono certo che nessuno mi darà più preoccupazione quanto me ne dia il mio amore, l'arte. L'arte subirà i potenti, si dovrà chinare a sempre nuovi signori e non sarà libera per molto tempo, addirittura un giorno si crederà libera, ne sono certo, ma poi di fatto sarà ancora più schiava di quanto non lo fosse prima! Muoio, figlia mia, e mi mancherai
- Padre! Stai forse delirando? Cosa significano le cose che vai farneticando? 
- Figlia mia, non dovrò bere la cicuta della mia condanna e di' a tutti che mi dispiace aver rubato quell'oro, ma il cuore umano è avido ... ti prego, fa' che tutti mi ricordino non per come sono morto, non per l'infamia ultima della mia vita, ma per essere stato fedele servitore, amante e sacerdote dell'arte. Dillo a tutti
- Padre - ora la figlia era in lacrime, guardava Fidia piangendo lacrime sincere e commosse - io so che muori tu e muore l'arte
- Non essere sciocca - fece Fidia con un sorriso paterno - io muoio, ma l'arte è immortale, nonostante rinneghi se stessa, si muti e si trasformi, si penta e si rimpianga l'arte vivrà sempre!

giovedì 5 giugno 2014

'IN VOI E' LA CAGIONE'

' ... Però, se 'l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia ...' 

Dante Alighieri
Divina Commedia
Purgatorio
Canto XVI, vv. 82-83

'Leggo questi versi mentre sto studiando e nonostante io debba andare avanti, cercare di studiare attentamente parafrasi e temi, non riesco a non tornare con lo sguardo e con la mente su queste poche parole, semplicissime, ma ricolme di una verità straordinaria e sconvolgente, terribile. 
"Perciò, se il mondo che ci circonda sbaglia, si allontana dalla retta via, in voi si trova la ragione, in voi di cerchi" dice Marco Lombardo a Dante, e attraverso Dante lo dice a noi tutti, sciocchi viventi che camminiamo su questa terra e che talvolta siamo tentati di incolpare, per i nostri errori, qualcosa di sovrannaturale, qualcosa di cui ci ricordiamo solo quando necessitiamo di una giustificazione. Non è strano che il mondo del '300 di Dante sia così simile a quello della nostra epoca? Eppure le cose sono cambiate, secondo qualcuno addirittura si sono evolute, ma nonostante questo progresso siamo sempre alla ricerca di giustificazioni, siamo sempre pronti a compiere qualcosa di sbagliato certi che riusciremo a incolpare di tale operato i condizionamenti esterni, terzi che sono assolutamente estranei all'accaduto. 
"in voi è la cagione"
Queste parole mi tuonano nel cervello e mi offuscano la vista, i pensieri si disperdono e queste pochissime parole invadono il cervello, questa breve infilata di lettere opprime la  mia mente. 
"in voi è la cagione"
Quest'opera davvero è l'enciclopedia della vita umana; nonostante questa stramaledetta scuola mi faccia odiare queste pagine, questa straordinaria fatica poetica è l'eredità vera di tutte le nazioni, di tutte le genti. Decisamente, pur odiando questo costume assurdo di studiare meticolosamente per anni e anni nella scuola questo documento, io amo la Commedia!
Dante fu sicuramente un poeta sublime, un genio delle parole che seppe costruire immagini intramontabili e celestiali componimenti, ma giorno dopo giorno mi scopro sempre più convinto dello splendore e della straordinaria importanza di questa sua immensa e strabiliante opera. 
"in voi è la cagione"
Siamo noi a fare la storia, siamo noi a disviare, ad allontanarci e a deviarci, è in noi la ragione della storia, e nonostante io possa credere che Dio sia attivo nella storia, sono le decisioni degli uomini - troppo spesso eccessivamente stupidi e ottusi - a plasmare i giorni, gli eventi, i secoli. Siamo noi la ragione, siamo noi il motivo dei nostri mali e sono le nostre scelte a determinarci! Le nostre, che forse nasceranno in un certo modo perché sorte in un certo ambiente, ma nostre, siamo noi, i responsabili di quelle scelte, di quelle decisioni. Di nuovo, passi pure che le nostre scelte siano influenzate dalle "stelle", come dice Dante, ma una volta espresse, una volta attuate divengono parte di noi, e come noi siamo responsabili di ciò che fa la mano destra, così siamo responsabili di ciò che scegliamo. 
"in noi è la cagione"
E allora ancora le parole di Dante sono linfa per le nostre giornate, come aforismi colmi di una saggezza eterna, che è vera sempre e per sempre."

' ... Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che 'l mondo ha fatto reo ...' 

Dante Alighieri
Divina Commedia
Purgatorio
Canto XVI, vv. 103-104

martedì 3 giugno 2014

QUEL GIORNO

Quel giorno gli toccava il turno lungo, era necessario che attraversasse il bosco e che raggiungesse i campi per portare in città tutto il cibo necessario. si preparò lentamente, all'alba, e si saziò con una buona e sostanziosa colazione. Mangiò finché non si sentì sazio, perché sapeva bene che facilmente non avrebbe mangiato fino al suo ritorno in città. Si prese qualche minuto e poi uscì di casa, raggiunse i confini della città e finalmente su in strada, una lunga fila si allungava attraverso tutta la fitta boscaglia e non era possibile vedere la fine di quella immensa processione. Si mise pazientemente in fila, e iniziò il suo lungo tragitto. La strada passava lungo un piccolo villaggio in cui abitavano numerosi suoi conoscenti che, dalla città, in seguito alla decisione dell'amministrazione di controllare la dimensione delle case, avevano deciso di allontanarsi e 'fondare' un nuovo agglomerato di case grandi quanto si voleva. Ma il loro progetto era destinato a fallire: per il cibo e tutto quanto dipendevano dalla città e tutto, per un caso molto strano, era venduto a caro prezzo a quei 'ribelli'. Ne era molto dispiaciuto, ma in realtà sapeva che l'amministrazione si era comportata giustamente; risultato?!: molti abitanti di quel villaggio ora mendicavano lungo la strada che conduceva alla città pregando qualche anima caritatevole di lasciare loro anche solo un misero pezzo di focaccia, o una minuscola fettina di prosciutto. Ma molti rimanevano impassibili. I soldati sorvegliavano il lungo tragitto e badavano affinché nessuno creasse disordini. I pochi coraggiosi, che osavano concedere a quei disgraziati una parte del loro carico, erano attenti a non farsi notare, calcolavano l'esatto istante in cui non erano osservati dalle sentinelle, e badavano di essere ben lontani dai gruppi di pattugliamento.
Il suo lungo cammino era quasi terminato, doveva solo passare attorno al grande fiume e poi sarebbe finalmente arrivato ai campi di cibo. E quando vi giunse il suo cuore si aprì e il suo animo si innalzò fino alle più alte vette del cielo. Un'enorme montagna giallognola si ergeva nel mezzo del bosco e oscurava la luce del sole che altrimenti baciava calda i lavorati affaticati. La montagna era attentamente sorvegliata da folti gruppi di soldati e, nell'aria, si muovevano molti reparti aerei dell'Esercito Totale, e osservavano attentamente le grandi folle che raggiungevano i campi di cibo. Lui doveva prendere una parte di quel grande 'lago' roseo che era in realtà un'immenso deposito di eterno prosciutto cotto, che si estendeva ad un'estremità della montagna ma che si insinuava profondamente nella pancia di questa, perdendosi nei suoi abissi giallognoli, profumati di olio e rosmarino. Si caricò di quanto più poteva e si rimise in viaggio, prendendo però una seconda via, come indicavano gli addetti al traffico, che si distinguevano perché stavano appollaiati nel fitto della foresta urlando agli operai. Il cammino per la città cominciava, e di nuovo dovette passare attorno al lago di acqua purissima, freschissima. Decise che aveva un poco di tempo e si sedette per qualche secondo al limitare della grande distesa di acqua, guardò il cielo e si trovò a osservare quelle maestose creature dal poderoso busto e dalla capigliatura varia e verde, mossa spesso dal vento: erano i Grandi, che da anni e anni osservavano dall'alto dei cieli l'operato che occupava gli abitanti di innumerevolissime città. A volte le strade della città avevano portato gli operai fino a quelle altezze, ma le spedizioni duravano poco, per il rispetto dovuto ai luoghi che quelle altezze sfioravano. Non v'era nulla di più alto. Nulla di più poderoso e potente. Nulla, se non i Giganti. Erano enormi, non come i Grandi, ma erano più pericolosi e in effetti erano loro la motivazione per cui numerosissime città erano scomparse, centinaia di milioni di milioni erano morti a causa di quelle creature, che erano in realtà in numero ridotto, ma che determinavano solo morte e distruzione. Erano esseri orribili che, nonostante talvolta si rivelassero benevoli lasciando cadere cibo dalle altezze dei cibi, la maggior parte delle volte si divertivano a sterminare la loro razza che viveva sulla pancia della terra, senza desiderare raggiungere le loro altezze. Ma come potevano cambiare le cose? Gli anziani continuavano a sostenere che nulla poteva essere fatto, solo sopportare, solo sperare che la fine dei tempi giungesse in fretta, perché allora sarebbero finiti tutti i tormenti. Ma nessuno sapeva quando questo giorno sarebbe giunto. Pensò a quel giorno in cui, in prima persona, aveva assistito a una delle Donazioni dei Giganti. Un immenso masso dolce era caduto dal cielo e una lunghissima ombra si era distesa su tutti i territori che si estendevano dai campi di cibo alla città, incutendo a tutti, anziani, giovani, operai, sentinelle, soldati dell'aria, un indicibile terrore. E il terrore crebbe. Fu solo un attimo, un misero attimo e tutta la periferia nord della città fu distrutta da quell'essere così enorme e così terribile, i cieli si rischiararono presto, ma tutto, in quell'ombra notturna, era mutato per sempre: in migliaia erano morti al tocco distruttore del Gigante. Brandelli di mura e di case furono ritrovati lontano, finanche ai campi di cibo, cadaveri e cadaveri furono ammassati nei grandi cimiteri fuori le mura e furono seppelliti tutti assieme indistintamente, erano infatti troppi. Ricordava ancora il dolore di tutta la città, il suo personale dolore, ma presto quella pena si trasformò, si evolse in un odio profondo, in una rabbia furibonda che lo spingeva a sognare la notte il giorno in cui, finalmente, i Giganti sarebbero tutti stati sterminati, non importava come o da chi, l'importante era che tutti, TUTTI sarebbero stati cancellati per sempre dalla faccia della Terra! Quei pensieri lo occuparono a lungo, quindi si rimise in viaggio, lui, operaio, con il suo carico di prosciutto rosa, verso il formicaio profondo.