Oltre il mare di Jai
li stendono le rigogliose pianure e le boscose montagne della Terra di
Balbartens. Questo è uno degli attributi della Signora, e significa, in Antica
Lingua, ‘Splendente e Potente’ e le terre che portano questo nome sono
considerate una delle case terrene della Signora.
In queste terre
vissero per secoli e secoli popolazioni di costumi diversi, talvolta in
sintonia, talvolta in conflitto, poi qualche popolazione ne inglobò un’altra,
oppure una ne annientò una seconda, e nacquero regni e città-stato, paesi e
nuovi popoli: a nord, dove la Terra di Balbartens si avvicina molto alle isole
degli Elfi, un condottiero straordinario guidò i suoi alla conquista di altre
‘tribù’, espugnò città e rase al suolo decine di villaggi in riva al mare. In
molti lo videro quasi come un dio, bello e capace, straordinariamente
intelligente e, ora, finalmente, potente!
Creò uno dei reami più
grandi di tutta Balbartens e, appena ventiduenne, decise di fondare la sua
capitale, che poi avrebbe preso da lui il nome: il condottiero si chiamava
Sorren e la città sarebbe stata conosciuta da tutti come Sorretred, ‘il
gioiello di Sorren’.
In vent’anni sorse una
delle città più grandiose di sempre: edifici in pietra, alti e ariosi,
scintillanti alla luce del sole del mare di Jai. Il luogo, inoltre, era
straordinario: attorno ad un colle a strapiombo sul mare si spandevano le case
e le piazze, le strade e le mura; sotto
il colle il mare era protetto da una scogliera e si creava così una baia
pacifica e tranquilla; il colle era sormontato da un immenso palazzo, coronato
da oltre cinquanta torri alte e regolari.
Davvero la città fu
costruita in tempi impressionanti, ma d’altronde non poteva essere altrimenti:
il giovane re non poteva attendere, era impaziente, bramoso com’era di gloria e
fama.
E ad aggiungere altra
legna alla fiamma del suo ego (che già allora era un incendio smisurato)
accorsero anche i supremi principi della natura, le creature che in assoluto si
avvicinano di più al volere della Signora e lo rispettano: gli Elfi.
Giunsero all’alba di
un giorno d’estate, con la brezza notturna nelle vele; mossero le loro navi
entro la baia e ormeggiarono i loro
immensi scafi tra centinaia di barchette da pescatore.
Fu un incontro
memorabile: il sovrano vestito quasi esclusivamente di oro, gli Elfi nelle loro
vesti di argento finissimo, la grande sala stracolma di gente; e se si pensa
alle feste che seguirono! Banchetti e festeggiamenti, doni da parte degli Elfi
all’intera cittadinanza, regali del sovrano ai graditissimi ospiti, grandi
fuochi d’artificio, giochi e spettacoli per tutti! Fu un tripudio di ricchezza
e di gioia.
Gli elfi furono
ammirati ospiti e quando venne il momento di ripartire non si risparmiarono
complimenti: «Uomo potente e glorioso – iniziò Kagrandur, l’Elfo più anziano di
tutti – generoso verso gli ospiti e saggio re, ti ringraziamo umilmente: che la
Nostra Signora, comune sovrana di ogni sovrano, comune padrona di tutte le
creature, ti guardi e ti protegga! Ti ha concesso un grande dono, la Regina, e
tu hai accresciuto il dono da lei fatto, ma non posso fermarmi ai
ringraziamenti: attento, uomo! La tua Regina ti osserva, sappi che ti
richiederà in cambio qualcosa. Attento, uomo: le cose non sono destinate a
rimanere eternamente immutate, le cose possono cambiare, evolvere, finire.
Attento, uomo! Bada al reame che ti è stato affidato e glorifica, per questo,
la tua Signora! Grazie ancora Uomo glorioso, sii attento e rispettoso!»
In seguito gli Elfi se
ne partirono, con la promessa di non interrompere i rapporti con il nuovo
reame. Sorren continuò il suo sogno di gloria: a quarant’anni o poco più vedeva la sua città, la sua capitale, gemma
di un reame da lui solo conquistato, un reame ricco e florido.
C’erano, allora, dei
sacerdoti della Regina che sceglievano di non vivere in comune nei monasteri e
nei santuari, ma che preferivano girovagare per tutte le terre, chiedendo
passaggi o camminando per lunghissimi tragitti, traversando i mari solo in nome
della Regina e valicando le montagne con il solo aiuto di un bastone ricurvo.
Uno di questi, un
giorno, raggiunse, nei suoi pellegrinaggi infiniti, la città di Sorren e, in
qualità di sacerdote, cui tutto è dovuto in qualità di servo della Regina, si
presentò al sovrano chiedendo udienza: gli fu concessa e i due si incontrarono
da soli, nella grande sala che aveva visto i fasti delle feste in onore degli
Elfi.
«Uomo sovrano, sono
Dario, figlio di uomo e di donna, generato settanta anni fa nelle terre di
Meridian: mi sono offerto sacrificio alla mia Signora e la servo, o uomo
sovrano, e vengo a te per portarti il suo nome, ché ti sia caro e ti porti
fortuna»
«Monaco, ringrazio per
la tua presenza la nostra Regina, dimmi: hai visto le bellezze della mia
città?»
«Ho ammirato le torri
e il tuo palazzo, le mura e il tuo porto, ma una domanda mi logora il cuore:
dove hai posto il Suo luogo sacro, dove hai edificato una dimora degna e della
sua padrona e di questa città?»
«Vicino alle mura,
alla porta Ovest, ho edificato un tempio alla Regina»
«Uomo sovrano: uomo
sciocco»
«Come osi, monaco?»
«Ella ti diede e tu
rispondesti così?»
«Bada alla tua lingua»
«Rimedia in fretta e
sarai salvo: dedica questo tuo luogo alla Regina, non tutto, ma la gran parte:
questa sala sia data a Lei sola, ospita i sacerdoti in codeste mura e allora
sarai salvo»
«Monaco pazzo e
delirante: vattene da questa mia casa»
«IO me ne vado, IO»
E il monaco se ne
andò, senza alzare lo sguardo sulle case
di pietra, ignorando le bellezze della capitale di Sorren e camminando triste,
dispiaciuto per il triste destino che sarebbe toccato al re e, purtroppo, a
tutto il popolo sotto di lui.
Gli Elfi, intanto,
mantennero la loro promessa e continuarono a presentarsi alla città per scambi
commerciali e altro, ma l’ospitalità del sovrano non fu quella antica: accolse
gli eminenti ospiti come stranieri qualsiasi, non riconoscendo loro la loro
importanza, ma trattandoli come commercianti e navigatori da nulla. Addirittura
un Elfo fu colpito da dei soldati di Sorren perché non inginocchiatosi al
passare della lettiga reale. Furono poi informati del triste evento capitato
con il monaco errante: fu scandalo.
Gli Elfi se ne
ripartirono solo per tornare armati: ormeggiate le navi in una caletta poco
lontana dalla città, si misero in cammino per raggiungere Sorretred pronti per
combattere per la caduta della città.
Il sovrano, intanto,
si preparava a ricevere ulteriore gloria derivante dalla sconfitta di un
esercito elfico, sconfitta che lui vedeva imminente: preparò i suoi uomini alla
lotta, chiuse le porte della città e schierò parte delle milizie dinnanzi ad
esse.
Lo scontro sarebbe
stato terribile e catastrofico per entrambi se si fosse verificato, ma i piani
della Signora non erano questi: un sacerdote errante arrivò nel campo elfico e
rivelò che la Regina non voleva questo, che Sorren non era destinato a cadere per
mano elfica, che altra sarebbe stata la fine della città e del reame.
Lo stuolo di Elfi si
ritirò, prese il largo e salutò quelle coste oramai maledette: gli Elfi non
avrebbero più conosciuto un suddito di Sorren.
Il sovrano intanto si
ritenne soddisfatto, credette infatti di essere riuscito a spaventare in
qualche modo quelle creature immortali.
Passarono altri anni,
non molti, ma furono anni sereni in cui il monarca riuscì a dimenticare di
avere un conto in sospeso con colei che tutto ricorda, la Memoria stessa
dell’intero mondo. La città sostituì a poco a poco i commerci che erano stati
con gli Elfi con altre rotte, forse meno proficue, ma sicuramente più brevi e
sicure.
Un giorno Sorren
ricevette la notizia che ventuno sacerdoti, di quelli erranti, erano arrivati
alla città e che si erano seduti sui gradini della porta del palazzo reale. Il
sovrano diede l’ordine di farli entrare. Rifiutarono. Il re doveva presentarsi
di persona a loro: loro non si sarebbero spostati da quella scalinata.
Il re si oppose a
lungo, ma alla fine dovette incontrarli: il popolo cominciava a indispettirsi
per l’empietà sempre più evidente di Sorren.
I ventuno salutarono
concordi la venuta del sovrano e gli dissero poche parole, ma chiare, in coro:
«Uomo sovrano, uomo
sciocco: abbandona questo luogo, tu e tutti i tuoi; consacra questo luogo a Lei
e sarai salvo, otterrai così anche la salvezza di tutti i tuoi.»
Il re scoppiò a ridere
e rispose: «Uomini savi e potenti: questo luogo è mio, questa città è mia,
questo trono è mio: io sono il re! Andatevene!»
«Preghiamo per te,
speriamo che Lei ti conceda un’ultima possibilità»
Ma la vendetta della
Signora giunse e non ci fu un’altra, ultima possibilità.
Venne il terremoto e
un incendio: la città cadde tutta, morirono tutti; si salvarono solo quella che
era stata la sala del trono, che aveva visto la venuta degli Elfi e
l’ammonimento del primo monaco, e Sorren, l’unica vita a non essere stata
spezzata dal disastro.
Sorren uscì dalle
rovine nudo, correndo e urlando, gridando vendetta contro colei che tutto gli
aveva tolto. Non si seppe mai cosa fu di lui.
I ventuno sacerdoti
osservarono il tutto da lontano, su una collina, e mentre tutto crollava e
bruciava intonavano i canti dei riti funebri per tutti gli innocenti destinati
alla morte per la stupidità di un unico individuo cieco.
Da allora le terre che
furono di Sorren furono rette da una comunità di sacerdoti e tutti i contadini
riconobbero in loro un governo giusto e saggio: le rovine non furono toccate e
i monaci tutt’oggi ci vivono dentro, lodando la Regina in eterno.
Oggi la sala del trono
è ancora l’unico edificio ancora integro ed è uno dei più grandi templi
dedicati alla Regina che si possano trovare in tutte le terre di Aigam.