giovedì 30 ottobre 2014

LA PIETA'

‘Adesso posso sedermi e ricordare, richiamare alla mente tutto quello che ho visto laggiù, in queste straordinarie settimane che mi è stato concesso trascorrere in un paese così particolare.
Oltre alla cultura dell’accoglienza e alle evidenti disparità di stili di vita c’è qualcosa d’altro che mi porto dietro: una ricordo intimo  e personale, assolutamente profondo, assolutamente spirituale.
Appena arrivammo, dopo aver cambiato la nostra moneta in quella locale, ci mettemmo in viaggio in pullman. Così ci sfilò davanti la straordinaria varietà di questa città (paradigma di tutto il resto del paese) mostrandoci le baracche di soli mattoni e cemento, le cisterne – caratteristiche – di plastica blu, gli altissimi grattacieli che sfidano i cieli e le leggi di gravità, le grandi strade lungo il mare costeggiate di alte palme che si scuotono al vento oceanico, e tutto il resto …
Non posso dire l’emozione di essere in mezzo a quel mondo così lontano dal nostro. Ma non è questo il ricordo intimo e spirituale …
Arrivammo in uno dei quartieri più ‘in’ , con alti condomini con portiere, con finestre oscurate  e vetri antiproiettile, con stucchi attorno agli infissi e fiori colorati sui davanzali.
Mentre ci trovavamo in coda lungo una di queste vie straordinariamente piene di ricchezza, oltre che di vita,  il mio occhio cadde su un gruppo informe appoggiato ad una vetrina luminosa: coperte e sacchi, scatoloni e cartone strappato, tutto ammassato apparentemente alla rinfusa.
Sembrava immondizia.
Ebbene immondizia non era, ovviamente.
A poco a poco il cumulo amorfo iniziò a muoversi, qui e là scivolavano pezzi di giornale e pubblicità di una telefonia.
D’improvviso una mano, un piede, una testa spuntarono da sotto quelle ‘macerie’, poi un’altra mano, un altro piede, un’altra mano, un altro piede, un’altra testa e infine due bambini furono finalmente liberi da quella sporcizia, con i capelli scompigliati per la dormita – pessima – che si erano concessi, o meglio, cui erano stati obbligati dalla fame. Un bambino aveva uno strano segno su una guancia, forse una cicatrice, forse una crosta di pizza che gli si era appiccicata.
Ricordo il colore dei piedi: neri, di un nero indescrivibile, di un nero che non ho mai visto, uno stato che mi è sconosciuto (che lo era prima d’allora) e che mi pareva chiaramente sporco!, ma in un modo a  me del tutto nuovo.
Ricordo che l’altro bambino tentò di alzarsi, tremante, ma, tremante, ricadde a fianco del suo compagno, appoggiando pesantemente la testa sulla sua spalla ossuta e nuda.
Poco dopo questa vista ripartimmo col nostro pullman per fermarci nuovamente pochi attimi dopo.
Un altro assurdo ammasso di immondizia, accumulata a mo’ di comodo giaciglio, che di comodo aveva poco e nulla, anzi, nulla assolutamente!
Non due bambini sepolti nella sporcizia, ma una donna seduta rassegnatamente fissando il vuoto, allungando i piedi per il largo marciapiede, ignorando se qualcuno per sbaglio le inciampava dentro.
In grembo teneva una scatola di quelle in cui si mettono sei bottiglie di vino in piedi, ma ormai tale scatola era consumata e i bordi alti erano piegati e consumati.
Solo dopo molto mi resi conto di cosa contenesse quella scatola: un bimbo.
Un piccolo.
Una creatura fragile e innocente.
Un bimbo.
Mi faceva strano quella pelle così delicata confrontata alla ruvida mano sporca della madre.
Mi sembrò un’immagine commovente, anche l’altra mi parse una scena da lacrime, eppure non piansi, non versai nemmeno la minima lacrima.

Semplicemente in me montò la rabbia.’

martedì 28 ottobre 2014

LOL

Quella sera faceva freschino in centro, ma, nonostante tutto, la gioventù dei tamarri e degli zarri si era ritrovata, come sempre, in piazza, con bottiglie e bicchieri, con in mano sigarette – e altro – sempre accese. Qualche uomo d’affari attraversava ancora quella mostruosa marmaglia di giovani ubriachi e strafatti.
Ginevra era arrivata da circa una mezzoretta con una sua amica e insieme si erano messe a fumare una cannetta sedute sotto la statua equestre di Vittorio Emanuele. Il vocio di quell’orda di ragazzini era fastidioso e opprimente, ma ad ogni tiro quei rumori si allontanavano un poco e la gente attorno non infastidiva più di tanto i sensi di Ginevra.
In quei momenti, con lo spinello in mano, seduta sulla fredda pietra sotto un cielo strano di città inquinata, il tutto perdeva di significato: dimentica di essere figlia di un animale che si dedicava senza troppi problemi all’alcol, fregandosene di lei e di suo fratello; dimenticava la terribile notte in qui l’ospedale li aveva chiamati a casa perché in ospedale sua madre stava lottando tra la vita e la morte dopo un tremendo incidente con un idiota che aveva bevuto un fottio di vodka liscia in un bar di un amico; dimenticava che a scuola tutti la odiavano, che i professori la guardavano come se fosse una sporca lebbrosa da tenere lontana; dimenticava che tra poco sarebbe diventato effettivo lo sfratto se suo padre non avesse dimostrato di essere un barbone alcolizzato assolutamente nullafacente!; dimenticava che giorno dopo giorno le visite degli assistenti sociali si facevano più insistenti e che ogni volta che si presentavano ricordavano a lei e suo fratello che presto sarebbero stati sottratti alle ‘grinfie’ di quell’ubriacone; dimenticava … Dimenticava tutto grazie a quel fumo così strano, quei respiri apparentemente normali, eppure capaci di darle così tanta pace.
In mezzo a quell’oblio così piacevole Ginevra osservava attorno a sé la gente che a poco a poco si ubriacava sempre di più: qualcuno salutava prima di allontanarsi per raggiungere la discoteca fuori città, qualcun altro arrivava e si metteva a girare per salutare tutti quelli che conosceva, poi arrivava quelle troietta vestita – se di vestire si può parlare – con un vestitino che a malapena copriva le parti intime, tutte traballanti su taccazzi esagerati, scomodi e assolutamente inumani!
MA guarda un po’ chi si avvicina?
Ginevra avrebbe riconosciuto quel fare da mignotta tra mille altre donnacce! Quella era Sonia, quella gran bastarda della sua compagna, che era a capo del gruppo che, nella classe, la sfotteva e la insultava ogni giorno.
Camminava sui suoi tacchi da quindici centimetri, le gambe nude, le spalle pure, un vestitino rosso aderente come non mai che sarebbe stato più adatto in una notte di sesso ‘strano’ che in una serata fresca e autunnale come quella! Era in compagnia del suo nuovo ‘ragazzo’ – probabilmente il quinto in meno di un mese, al quale probabilmente già faceva le corna con un sesto.
Era aggrappata a lui come una micina, un esempio di zoccolaggine come mai se ne erano visti precedentemente! E faceva finta di essere una povera innocente verginella, con la sua voce carezzevole e fin troppo dolce!
Il ragazzo era effettivamente figo, davvero un gran bel pezzo di gnocco, ma ciò era incomprensibile: lei aveva sicuramente un bel fisico, ma la faccia era davvero brutta brutta brutta!  Comunque quel gran bel figo era strepitoso e Ginevra sapeva bene che per Sonia quel ragazzo era l’obiettivo di una vita: erano mesi che stressava chiunque con quel povero ragazzo che tormentava!
Ebbene, Sonia stava con lui stasera: mentre a Ginevra le cose vanno sempre peggio, quella specie di vacca sta per coronare il suo sogno di farsi quello gnocco!
Ecco che Sonia, dopo aver salutato i suoi amici, si stava riavvicinando all’uomo della sua vita’  pronta a dargli un bacio in bocca e … il taccazzo si incastra nel selciato e la zoccoletta si accascia con un grido straordinario! Tutti si precipitarono a vedere cosa fosse successo mentre la gallinaccia continuava a gridare per il dolore.
Ginevra osservava in silenzio, seduta e immobile.
Per un attimo rimase senza fiato.
AHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!

Ginevra rideva, rideva, rideva e rideva! Non rideva così da secoli!

giovedì 23 ottobre 2014

DE RERUM NATURA I

Lucrezio scrisse a proposito della Natura, delle leggi che, secondo la sua filosofia epicurea, regolavano la natura e l’universo.
Non sono Lucrezio – grazie a Dio! – e non ho intenzione di fare un manifesto della filosofia di Epicuro – poiché non ne sono grande estimatore, lo ammetto – ma prendo a prestito questo titolo per introdurre e nominare l’opera che segue.
Non è un poema ‘scientifico’ e nemmeno un lungo trattato di fisica naturale, anzi, proprio non ha assolutamente nulla a che fare con la scienza e le regole della matematica, il mio ‘De rerum natura’ è una riflessione sentimentale – se così posso dire – o un ragionamento – aggiungerei, denigrando la mia opera, ‘delirante’ –  riguardo al mistero del mondo che ci circonda, riguardo alle domande che proprio la natura delle cose, le loro leggi e le loro caratteristiche ci pongono ogni giorno.
Allora – e in questo iniziamo come il poema lucreziano – con un canto ad Afrodite, con il trionfo della primavera della natura, con la gioia del creato al ritornare del sole.

Qualcuno ha mai disdegnato una di quelle giornate straordinarie che ci colgono a metà maggio? Io credo di no, credo sia impossibile odiare quella luce calda che invade ogni casa, quel verde che improvvisamente si fa violentemente strada tra gli alti edifici grigi, quelle gemme così affascinanti che ciondolano, pronte a liberare i loro aromi più potenti! Chi potrebbe odiare questa natura? Chi potrebbe?! Un matto, una creatura il cui cuore conosce solo odio e freddezza, ma – credo e spero – tale persona non esiste, non è esistita e non esisterà: c’è sempre un po’ di tenerezza nel cuore, sempre sempre sempre!
Ebbene è in uno di questi giorni che il sole sembra una sorta di giornalista, un giornatilsta che, ogni qualvolta sentiamo i suoi raggi caldi sul volto, sulle guance e sulla fronte, ci stuzzica – caso curioso –  suscitando in noi un senso di gratitudine: quel senso di gratitudine, a sua volta, funge da innesco e subito ci chiediamo a chi stiamo dicendo grazie. E allora: a chi diciamo grazie?
La natura, ci insegna la scienza, è solo aggregato di particelle minuscole, gli atomi, che si incontrano e si ordinano secondo leggi sempre immutate. Eppure la natura ci pare, in un qualche modo, tendere sempre al domani, tendere sempre a qualcos’altro che sta un po’ più in là.
Una foglia nasce dal ramo di un albero e giorno dopo giorno si invecchia, perde qualcosa di sé, fino a quando, in autunno, cade seccata, ormai raggrinzita perché l’albero ha ‘deciso’ di non nutrirla più.
Un neonato nasce come embrione, poi cresce e diviene bambino, poi ometto, poi ragazzino, poi ragazzo, poi giovane, poi uomo, poi adulto, poi anziano, poi morto!
Lo scorrere del tempo ci sembra in qualche modo parte integrante delle cose, come se le cose stesse avessero, in sé, questa profezia di sviluppo e decadenza.
Ma procediamo con ordine.
La scienza ha iniziato, ormai da poco più di tre secoli, ad essere sempre più precisa e puntuale, scandagliando sempre meglio l’intera categoria dei creati (uomini, animali, terra, stelle ecc…) riuscendo a carpire molti risposte ai tanti problemi e quesiti che ognuna di queste cose rappresentavano.
Tuttavia sembra – questo è evidentemente la distinzione tra ciò che fa la scienza e ciò che è prerogativa, ambito e oggetto delle religioni e delle filosofie – essersi dimenticata di andare alla ricerca di cosa sta dietro a tutti questi fenomeni: la scienza si accontenta di definire tutti i parametri, di scoprire tutti i dati e incasellarli secondo precisi algoritmi o equazioni; ma questo è tutto ciò che la natura delle cose ci dicono?
La natura ci dice solamente che ad ogni azione di un corpo su un altro corrisponde un’azione di eguale intensità e direzione, ma di verso differente? La natura ci dice solamente che le basi della definizione dei caratteri della nostra persona non sono altro se non catene di basi azotate, zuccheri e gruppi fosfato?
La natura ci dice solamente che per far andare un oggetto più rapidamente su un piano inclinato una delle opzioni è quella di trovare un modo per ridurre l’attrito con la superficie, riducendo così l’azione frenante della stessa? La natura ci dice solo regole e leggi, ci trasmette solo dati e numeri, ci informa solo su stati e trasformazioni?
Be’ se la natura è solo questo permettetemi di non preoccuparmi più della natura, mi si permetta di accelerare la distruzione di questo pianeta continuando a sfruttarlo incessantemente, permettete che tutti se ne freghino della propria ‘impronta ecologica’ e che tutti siano assolutamente egoisti!
No, la natura non può essere solo questo, la natura non può e non voglio che sia solo questo!
Vado a spiegarmi.
Se la natura fosse davvero solo un universo di numeri e regole matematiche che agiscono indipendentemente da ogni fattore, questo significherebbe che tali regole e leggi valgono anche per noi … bene allora non sarebbe assolutamente importante ciò che facciamo nel mondo, o meglio, non avremmo assolutamente alcuna responsabilità di ciò che combiniamo, poiché, volendo seguire un’idea tipicamente meccanicistica, allora saremmo ‘necessitati’ nelle nostre azioni, ovvero sarebbe la natura stessa a chiederci questo.
Vi pare possibile?
Personalmente – forse sarà merito (e dico MERITO) della mia religione – ritengo che l’uomo sia dotato di una volontà, oltre che dalla responsabilità, che è libera di agire in questo mondo. Però –  ed ora forse il ragionamento si fa contorto anche per me che ne sono il creatore – come è possibile che l’uomo, parte della natura, sia essere-non-solo-materia e invece Ella sia essere-solo-materia? Perché noi saremmo stati dotati di questa particolare prerogativa di essere altro che ‘pura materia’?

Dunque la natura è o non è solo materia? Dunque la natura è o non è solo atomo?

martedì 21 ottobre 2014

LE BACCANTI parte seconda

È davvero un mistero come la mente di un adolescente perda facilmente l’attenzione e il senso logico di qualcosa! Comunque Benedetto camminava ancora e orami la lunga via Andrea Costa era terminata  e anche la via successiva era già lontana; i passi del giovane ora erano su ciottoli lisci e ovali che tante volte erano stati motivo di odio per tante e tante signore che avevano pensato bene di raggiungere il teatro su alti tacchi da dodici o più.
Gli edifici correvano con i loro porticati e le loro finestrone, gli stucchi e i bar  e negozi.
A un novarese Novara stufa spesso e volentieri perché è una città piccola e con molte poche cose da fare (per chi è pretenzioso come lo sono i giovani di oggi), ma a Benedetto questa città piaceva, in fondo, perché ogni volta che si perdeva nell’osservare la sua caratteristica cupola si sentiva proprio protetto, in un qualche modo e per una qualche ragione felice. Comunque …
Mentre ormai si era dimenticato della sua questione filosofica, era finalmente arrivato alla meta che per lui era, in quel frangente, Piazza Gramsci. Questa, già Piazza del Rosario, era una delle piazze più care a Benedetto perché talvolta, quando in realtà avrebbe dovuto essere a scuola, era stata sua accogliente ospite, facendolo sedere comodo su una delle sue panchine, proprio davanti al piccolo supermercato – fonte inestimabile di ovetti Kinder, cioè amati compagni di quei momenti di cazzeggio totale.
Seduti ai piedi della statua di Icaro – un’istallazione ancor oggi estremamente discussa tra i cittadini che si degnano di prestare attenzione a ciò che si incontra per la via – lo aspettavano Ivan e Camilla.
Ivan era un amico che Benedetto considerava tale più per abitudine che per vero sentimento: gli anni di frequentazione che si erano man a mano accumulati permettevano di dire a entrambi dell’altro di avere una discreta conoscenza, perciò si erano iniziati a definire ‘amici’ non essendo, però, da nessun moto dell’animo, da nessun affetto reciproco.
Carlotta era tutt’altro discorso. La classica ragazza intelligente che spesso pare quasi morbosa in alcuni suoi atteggiamenti, bella – o almeno carina – con una folta chioma di capelli ricci rossi, con due grandi occhi verde chiaro, sempre in movimento, mai fissi su qualcosa, pronti in continuazione a indagare ogni cosa. Lei era indubbiamente un’amica, una vera amica per Benedetto: la loro non era solo consuetudine, non erano solo i giorni passati insieme a fare di loro degli amici, ma un affetto sincero che era nato, all’improvviso, in una mattina in cui Carlotta era arrivata a scuola triste perché mollatasi con l’ennesimo ragazzo e aveva trovato nel suo vicino di banco – impostole dalla professoressa di italiano – un paio di orecchi pronti ad ascoltarla.
Quella sera dovevano ‘fare aperitivo’, nonostante fosse solo giovedì, e avevano deciso di ritrovarsi solo loro tre un po’ prima di incontrare anche gli altri. Il giorno seguente, venerdì, la scuola sarebbe stata chiusa in seguito all’accertamento della presenza di una certa muffa strana: per la disinfestazione – se così si può dire per una muffa – sarebbero occorsi quattro giorni: venerdì, sabato (domenica saltava), lunedì e martedì; poi tutto sarebbe ricominciato come prima, solo con in più la certezza di non intossicarsi con certi funghi strani.
Questa manna dal cielo – tanto per gli studenti quanto per i professori, ben contenti di poter allontanare dai propri occhi quel numero infinito di adolescenti acneici! – aveva rappresentato la miccia per una serie di ‘eventi’ che tutti si erano sentiti in dovere di programmare: quel giovedì aperitivo, venerdì discoteca, sabato discoteca (ancora).
Dire che Benedetto fosse visceralmente contento di questo programmino di svago sarebbe assolutamente errato, infatti avrebbe di gran lunga preferito chiudersi per quei quattro giorni nella sua cameretta, con il computer acceso sul mondo reale e le pagine di un libro a introdurlo in un altro mondo; ma per una volta aveva ceduto, poiché ogni tanto – quasi per dare il contentino agli altri – si dedicava alla ‘vita sociale’ e non rifiutava alcun invito, così da non parere uno sfigato o uno snob o qualsiasi altra cosa gli volessero imputare.
«Alla buon’ora!» fece, con la sua usuale simpatia da stitichezza, Ivan.
«Sono venuto a piedi» replicò Benedetto sperando che questo tacciasse il rompi.
«Non importa, tanto abbiamo prenotato per le sette e mezza e sono solo le sette e cinque!» intervenne, mediatrice come sempre, Carlotta.
«Be’, che hai fatto oggi pomeriggio?»
«Nulla: appena arrivato a casa mi sono delicatamente e molto leggiadramente adagiato sul letto e ho dormito per tre fottutissime ore!» e all’idiozia di Benedetto risero tutti e tre.
«Che scemo – Carlotta – io invece non sono riuscita a vedere Carlo …»
«Che gran perdita!» insisté con la sua ironia stitica Ivan.
«Stronzo!» rispose, evidentemente non più conciliante, Carlotta.
Insieme, dopo questo affettuoso scambio di battute, si incamminarono verso la direzione dalla quale Benedetto era appena arrivato, ma non ripercorsero l’intero tragitto, infatti si erano trovati in quella particolare piazza perché da lì dovevano fare una piccola sosta prima di dedicarsi al loro giovanile edonismo.
Lontano dagli occhi di molti, proprio da una delle strade più importanti e trafficate del centro, vicino ad un negozio di scarpe, parte, a Novara, un piccolo vicolo piuttosto stretto che in un certo qual modo si curva, facendo così in modo da creare un punto in cui non si può essere visti dalla via principale. Qui, proprio dove le vetrine ospitano – lo sguardo di nessuno – piccoli oggetti in pelle e bracciali e borsellini e portadocumenti, qui si trovava lo scopo della deviazione dei tre giovani.
Ivan andò avanti e precedette i suoi due amici, i quali, assolutamente disinteressati al motivo per cui erano arrivati lì, parlavano scherzosamente tra loro, commentando una vecchia pazza vestita da baldracca che avevano appena visto.
Ad un certo punto Ivan si voltò, scuro in volto e chiese che i due rimanessero lì dov’erano, proprio in corrispondenza della piccola deviazione della via.
Non si opposero i due amici e continuarono a parlare senza domandarsi alcunché.

Ivan proseguì e, nell’ombra della sera ormai scesa in quel giorno d’autunno, incontrò qualcuno: Carlotta  e Benedetto non riuscivano a carpire nulla dell’aspetto di questa persona perché, appoggiato ad una vetrina, era avvolto in una tuta larga, che rendeva informe il corpo che ricopriva, lasciando all’apparenza un’insieme di pieghe e pieghette; un cappuccio profondo coronava l’aspetto della persona.

giovedì 16 ottobre 2014

JD 00 Aa 095

Oggi ringrazio, null’altro. Oggi ringrazio un’amica straordinaria, con una capacità meravigliosa di emozionare.
Non posso dir altro che grazie.
Credo che ognuno di noi conosca almeno una di queste persone, credo che ognuno di noi abbia avuto la fortuna – enorme fortuna – di incontrare nella sua vita, in questa terra un po’ triste  e crudele, un’anima gentile, che, non si sa bene perché, riesce a scuotere qualcosa dentro, riesce a far vibrare una corda particolare, celata nel cuore, nascosta tra i muscoli in perenne contrazione, che ogni tanto, solo se sfiorata da una di queste persone, si anima e diviene fonte di qualcosa di ineffabile.
Non posso dir altro che grazie.
Non posso dir altro che grazie.
Quando parlava le sue parole non dovevano attraversare l’aria e stuzzicare il mio orecchio interno, quando parlava la sua voce era già, in un qualche modo, dentro di me, era già parte di me!
Non capisco davvero come sia possibile l’esistenza di talune persone, ma ringrazio anche il Divino perché ci ha donato quest’esperienza straordinaria, che ci ha concesso questa vera e propria grazie!
Non posso dir altro che grazie.
E mi rivolgo, ora, a te, **, perché davvero tu sei straordinaria creatura, davvero sei gioiello del creato, davvero sei principessa del genere umano!
La tua arte mi è dolce, mi è cara.
Com’è possibile che tu talvolta non te ne renda conto? Come riesci, a volta, a cadere, a piegarti?
Tu, cara amica, hai superato prove che nessuno ha superato tra noi, hai conosciuto sofferenze che davvero meritano tale nome, tu hai saputo combattere, hai saputo prendere tutto e farne tesoro vero.
La tua innocenza talvolta mi è quasi irritante, parli con un’ingenuità quasi infantile dei più grandi problemi, eppure poi le tue parole ritornano nei miei pensieri, nelle mie riflessioni e ringrazio te per averle fatte.

Ti ringrazio in segreto, perché mi vergongo, perché non posso venire da te un giorno e dirti: ti ricordi tre anni fa che dicesti ‘..’: sembrerei pazzo! Eppure molte delle tue parole mi sono care – come cara mi è la tua arte.

martedì 14 ottobre 2014

OPS

Io sono un mago.
Una persona in grado di fare cose che la gente comune non può, una creatura che può creare dal nulla cose che prima non c’erano. Insomma tutti sappiamo cos’è un mago!
Un mago è una persona dotata di capacità magiche, no?!
Ebbene io ho delle grandi capacità magiche, ho dei poteri straordinariamente potenti … ahahahah scusate il gioco di parole ma è così.
Io sono un mago perché ho questa capacità che mi viene da dentro, ma sia chiaro, questo non significa che io sia l’unico qui: anche voi tutti che mi ascoltate avete un potere, anche in voi c’è quest’energia che proviene da dentro ed è straordinariamente potente! L’unica differenza tra me e voi e che io ho studiato e ho coltivato questa mia capacità: voi l’avete accantonata perché avete ritenuto più importanti altre cose, perché nella vostra vita vi siete concentrati su tante altre cose che vi parevano più utili e necessarie.
Io invece – forse per voi stupidamente – ho deciso di perseguire in questa mia propensione, in questa mia possibilità.
Ho sbagliato. Non so. Nessuno in realtà lo sa.
Però sono contento di aver preso questa decisione perché, da mago, riesco a fare cose che, senza questa mia capacità magica, non sarei mai stato in grado di fare!
Dite che sono un matto?
No! Non scherzo: io sono un mago davvero, e davvero riesco a far magie!
Vi faccio un esempio: una volta, dal nulla, feci uscire un ciuchino su un palco davanti  a tante e tante persone che rimasero incantate a questo spettacolo!
Io non so perché voi facciate quelle facce: pensiate ancora che sia un matto??
Ma perché?! Io sono una persona assolutamente sana di mente – sono certificato da uno dei più grandi psichiatri del mondo, un certo prof. ** – in grado di fare qualsiasi cosa normalmente, anzi, proprio grazie a questa mia magia sono in grado di fare molto molto di più.
Io posso fare quello che fa un idraulico con la mia magia ed è una cosa meravigliosa, perché in casa mia spesso e volentieri si rompe qualcosa, sia questa un lavandino o la manovella dell’acqua calda!
Non vi ho convinto?
Ah be’, non me ne importa più di tanto: credetemi pure un pazzo … tanto …
Comunque buon giorno e proseguite pure la vostra vita senza magia, ma ricordate che un po’ di magia la potreste trovare, se solo lo voleste, dentro di voi, da qualche parte proprio sotto il vostro cuore pulsante (se ancora pulsa!).
È stato un piacere.
Addio.





Ops …

Mi dispiace davvero tanto, dovete perdonarmi!!!
Ho un problema con le parole e il parlare, cioè ogni tanto confondo una parola con un’altra.

Ho detto che sono un mago? Volevo dire che sono un attore!

(anche se in realtà è più o meno la stessa cosa)

giovedì 9 ottobre 2014

JD 00 Aa 092

Trovo che sia assolutamente più facile scrivere delle pagine fini a se stesse. Difficile è, di questo son certo, scrivere un racconto, una storia complessa e costruita.
Per i fogli rubati è facile: ti fermi un attimo, ti osservi dentro ed eccolo lì: un sentimento, una sensazione, un'emozione, un qualcosa che si trasformano da sole in parole.
Nemmeno questo è da tutti, assolutamente vero!, però per me questo è più facile che scrivere un racconto.
Amo scrivere racconti, la trovo una delle cose più appaganti e portatrice di gioia che mai mi si siano presentate, eppure la trovo una delle cose più faticose e difficili che esista: la mente deve ascoltare il cuore ma non può pensare di spalmare sul foglio quello che ha ascoltato tale e quale, deve impegnarsi e costruire un qualcosa, un edificio con porte e scale, finestre e balconi, terrazzini e corridoi, deve immaginare un senso evidente, oltre che conoscere il senso profondo. Mi spiego?
Forse no, però è così che - credo - lavori la mia mente: si studia da sé un'idea e fino all'ultimo me la tiene nascosta, rivelandomi solo alla fine il risultato, stupendomi con qualcosa di assolutamente inatteso - e, devo ammetterlo, insperato.
Ringrazio il mio intelletto, come se non fosse parte di me, se il risultato mi piace; do a me la colpa, d'altra parte, e privo il mio ingegno di ogni responsabilità, se il risultato non mi soddisfa.
Ritorno a dire che scrivere un foglio è semplice, è più semplice, per così dire è 'intuitivo', è 'implicito', mentre il racconto ha un non so che.
Insomma: un racconto, mi si conceda questo, deve essere compiuto - anche nella sua incompiutezza per taluni racconti - in se stesso. Un foglio rubato non ha ragione di esistere né in sé né in altro, esiste e basta.
Questo almeno è chiaro?
No, forse anche questo è solo confusione.
Perché avevo iniziato a scrivere stavolta?!
Ah, sì: scrivere racconti e fogli.
Dicevo che scrivere racconti è più appagante, anche, in un certo modo che mi riesce assolutamente inspiegabile, fisicamente: quando un racconto si conclude c'è uno strano brivido di piacere che corre un po' dovunque, quando poi si tira il cosiddetto 'sospiro di sollievo' c'è anche un qualcosa che si muove in fondo alla pancia, che si scuote nei visceri e un poco si torce, è quasi doloroso, ma di quei dolori assolutamente goduriosi che a me tanto piacciono: sai che la storia è finita, sai che l'inizio ha ora una fine e questa è la fine dettata dall'inizio stesso, sai che la storia è conclusa, che la storia è completa e che è soddisfatta, è appagata e non chiederà - per ora - altro: tu le hai dato la parola fine e lei la apprezza, la riceve e la accetta.
Quando invece scrivo un foglio non sovviene, al termine, una sensazione di qualche piacere: so solo che ho finito, ce ho scritto un ragionamento, un sentimento, ma null'altro, sai che quello che è scritto è vero, è SOLO vero, ma proprio in questa sua assoluta verità manca qualcosa, qualcosa è assente.
In conclusione potrei forse dire che quello che mi appaga e poter servirmi dell'immaginazione? 
Credo di sì, credo di poter affermare che quello che mi dà piacere è la fantasia, l'immaginazione, il 'sogno', ciò che nasce dal cervello in unione con i sentimenti del cuore.

martedì 7 ottobre 2014

LE BACCANTI parte prima

Scendeva a poco a poco, un’onda sottile che avanza lentamente, un velo diafano steso con leggiadria, la notte. Al calore del sole si affiancava l’ascesa delle tenebre, ma queste erano ancora, in un certo qual modo, incerte, timide. Il caldo del giorno, che a fatica nelle ore diurne si era conquistato il dominio del creato, tristemente abbandonava gli alberi e le pietre, lasciava soli gatti e lucertole: una fresca coltre iniziava ad assalire ogni cosa, tentando di espugnare il tepore del sole.
Dunque vi era una battaglia, un conflitto vero e proprio che investiva tutto, indistintamente; non il sangue era lasciato sul campo, non cadaveri né feriti, ma solo perché non macabra non si neghi fosse battaglia.
Quando, poi, il sole svanì finalmente dietro le montagne scure, quel crepuscolo delicato e soave cadde nel freddo e nell’oscurità più opprimente: la battaglia, una delle tante che compongono l’infinita guerra del tempo, era vinta, vinceva la notte sul giorno.
Mentre questa guerra infuriava, comunque, la vita dei ‘civili’ trascorreva senza feriti, senza stragi, senza anche la pur minima preoccupazione.
Abbattuti, stanchi e affamati si tornava a casa dopo la giornata di lavoro, tutti – ovviamente – pensando ai propri affari, tutti – è scontato – preoccupati per la cena, tutti – è innegabile – impegnati a guardare se stessi e nulla d’altro. Immagine significativa di questo esodo?
Via Andrea Costa sfilava con le sue due corsie verso il centro, salendo gradualmente tra alti condomini; le automobili erano tutte puntate con il muso verso la periferia, allo stesso tempo disposte ordinatamente e alla rinfusa – come sempre appare una coda in autostrada, ad esempio; la corsia che saliva alla città era pressoché sgombra. In auto tutti sedevano rigidi e immobili, stufi e arrabbiati, con la faccia tesa e silente, tutti a passare in rassegna gli errori degli altri, a ricordare le sventure (proprie) della giornata.
Se questo sia uno degli effetti collaterali del progresso, il fio che dobbiamo pagare per i nostri agi non è qui che si discuterà, però, in quella strada, su uno dei due marciapiede, solo a risalire la via verso il centro qualcuno stava pensando al mondo, al progresso, alla società.
Benedetto rifletteva come riflettono tutti – o quasi – gli adolescenti.
Erano le prime domande che il mondo gli poneva e in qualche modo si sentiva alquanto inorgoglito del fatto che quelle domande fossero poste proprio a lui. Certamente riconosceva che quei quesiti erano universali, ma ogni volta che rifletteva si accorgeva che per ognuno non potevano essere proprio le stesse, che qualcosa, in quella sorta di questionario che l’adolescenza ci propone quando ci accoglie in se stessa, di caratteristico per ciascuno.
Be’ quella sera, mentre il sole era ormai calato verso ovest e le montagne a nord si erano ammantate di nero, la domanda che gli toccava di quelle ‘scritte’ dalla sua età era una delle domande più comuni: cos’è l’amore?
Non sapeva perché, ma quel ‘paesaggio’ di desolazione urbana, con le macchine simili a scatolette di sardine che ospitano uno solo di questi pesciolini stiracchiati, con il sole che si è stufato di scaldare uomini tanto antipatici, gli provocava una strana sensazione di rilassatezza ed era proprio in uno di quei momenti che, immancabilmente, si presentava una di quelle grandi domande sulla vita e sull’esistenza.
Allora aveva accettato la sfida e ponderato bene il quesito in cui era imbattuto per caso.
'Cos'è l'amore? L'amore sono i miei genitori quando si sposarono, l'amore è una mamma con il proprio bambino, amore è ... ho dato solo esempi?! Sì, mi vengono in mento solo e soltanto esempi, non riesco a trovare una definizione ... che scemo che sei, certo che non trovi una definizione! I gradi filosofi antichi e moderni hanno fallito nel definire l'amore e pensi di poter arrivare tu è dare la risposta così, in un batter d'occhio? Però adesso voglio sapere ... che cosa diavolo è l'amore? Be' è un sentimento e fin qui non ci piove ... no?! Dici che ci piove invece?! Beh sì perché forse dire che è un sentimento è riduttivo, forse sarebbe meglio dire che è un'emozione?! Si mi soddisfa già un po' di più: l'amore è un'emozione che nasce da ... che nasce da? Nasce? Dove nasce l'amore? Forse è più importante questo, cioè capire dove nasce, prima di provare  a individuare l'origine ... dici che è la stessa cosa? No io non credo sia la stessa cosa: dove nasce significa capire se è una cosa celebrale, o se nasce nella pancia, o nel cuore ... capire da dove nasce significa, invece, capire perché, stimolato da cosa ... oddio che confusione! Ricominciamo: cos'è l'amore. Un sentimento, no!, un'emozione ... beh insomma qualcosa che nasce dentro, nello stomaco o nella pancia che sia, sicuramente non nel cervello! Ma siamo sicuri che non nasca nel cervello? Eddai ci sono quelli che si innamorano della mente di un altro, delle sue idee ... quando succede è il cuore che si innamora della ragione o è la ragione che si innamora? Caspita ancora più casino sto facendo! ... Forse una cosa l'ho capita, però ... Ho capito perché nessuno ha mai dato una risposta soddisfacente alla domanda cos'è l'amore: a ogni possibile risposta sorge, in ognuno, un piccolo dubbio, una piccola critica che di fatto fa crollare il tutto! Ma in effetti non era la risposta che cercavo: chissene del perché tutti hanno fallito. Io devo capire. Cos'è l'amore? Riproviamo con gli esempi, magari esce qualcosa di buono ... dunque dicevo: amore erano i miei genitori il giorno del loro matrimonio, belli, vestiti tutti impeccabilmente, sorridenti davanti alla macchina fotografica, dietro il tavolo con la tovaglia bianca a tagliare l'enorme tortona che si sono fatti preparare con i loro gusti preferiti; amore  è una mamma con il suo bambino, quando si guardano intensamente come se null'altro ci fosse al mondo, e gli occhi dell'una osservano quell'esserino straordinario, che in un corpicino racchiude in sé il segreto più grande del mondo, quello della vita, e proprio questo esserino osserva colei che è, di fatto,  l'unico amore vero e stabile che mai potrebbe sognare, non importa se il loro rapporto fallirà, tra loro ci sarà sempre un filo che, sebbene invisibile, li legherà in eterno, qui ed oltre; amore però è anche un bambino orfano - o abbandonato - nelle braccia di una donna che ha deciso di prendersene cura, non importa se per desiderio - egoistico - di maternità, no! ha accolto la creatura e l'ha accolta come Sua, non come figlia di altri in casa, come Sua!; amore sono Annalisa e Dario, che si amano come ci amiamo noi alla nostra età, scrivendosi notte e giorni, terminando ogni messaggio con un cuore di un qualche colore, sentendosi tristi quando uno o l'altro è triste, sentendosi morire se non si vedono ogni sei ore per almeno altre otto!; amore è anche un padrone e il suo cagnolone bavoso?! forse sì, massì consideriamo anche questo amore, in fondo anche tra loro - credo io - si instaura qualcosa, una sorta di relazione ... comunque non mi sembra di essere riuscito a trovare un indizio facendo questa rassegna: sono come prima. Cos'è l'amore? Io sulla mia pelle l'ho provato? Se lo ritrovo tra le mie esperienze personali forse posso tentare di definirlo meglio. Allora ... amore amore amore ... cosa ho vissuto: sono figlio e credo di essere amato, ma l'essere amato non mi comunica alcuna caratteristica particolare, so solo che fa piacere essere amati, anche quando la mamma, che mi ama, sembra opprimermi in un certo senso ne sono grato .. però non mi aiuta con la mia definizione; sicuramente non so cos'è l'amore coniugale: sono un ragazzino!; poi non ho ancora provato cosa sia l'amore sinceramente, non mi sono mai innamorato come Annalisa e Dario quindi ...; nemmeno ho avuto un cane o un gatto .. nemmeno un pesciolino rosso in effetti! Be', adesso che mi sono detto questo mi sento un po' depresso: che vita penosa! Sembra proprio la vita di uno sfigato apatico e asociale, eppure conosco gente, sono estroverso, ho amici ... ho amici! Forse l'amore ha qualcosa a che far con l'amicizia?? Non credo proprio, cioè sono cose simili, forse collegate alla lontana, ma non credo che provare una delle due sia come provare l'altra, non credo che in amicizia ci sia dell'amore e viceversa: ciò che è amicizia è amicizia, ciò che è amore è amore! No?! Boh. Bastardo mi hai quasi preso sotto! Grazie per avermi fatto passare! Corri corri prima che anche questo cambi idea! Dov'è l'appuntamento? In Piazza Puccini? No! Forse abbiamo detto Gramsci!'

giovedì 2 ottobre 2014

QUANDO INCIAMPAI LIETAMENTE

o 'COMMENTO PERSONALE DI UNA POESIA DI PRéVERT'

I ragazzi che si amano - Jacques Prévert

"I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore"


Lessi queste parole per sbaglio, di sfuggita, per caso. Una delle poesie più famose - in molti hanno sentito almeno il titolo se non proprio l'intero testo - mi è venuta incontro come un passante che sbadatamente si incroci con un altro. 
Una poesia semplice e in qualche modo banale, scontata e ovvia. L'evidenza di quello che è scritto è disarmante, è shoccante quanto queste parole così comuni siano intrise di un qualche significato di verità estremamente profondo e toccante.
Lessi queste parole per sbaglio e scesero nelle profondità della mia memoria, sotterrandosi sotto infinite altre parole udite, lette, pensate. Si persero, o almeno io dimenticai di averle mai conosciute, anzi nemmeno questo: mai mi resi conto di essermene dimenticato perché mai mi venne chiesto, anche dalle sole circostanze, di ricordarle. Non ci pensai.
Ma quando uno sconosciuto è fondamentale per la tua vita, questi si ripresenterà più e più volte sulla tua strada, fino a quando finalmente non gli presterai attenzione ... così accadde con queste parole.
Un giorno annoiato, uggioso (per dirla poeticamente), questi versi sfilarono nuovamente dinnanzi a me e mi richiesero attenzione, stavolta pretesero che io rimanessi ad ascoltarli, non permisero che io passassi oltre con leggerezza, senza badarci: mi fermai, obbedendo al volere di queste parole e le rilessi due, tre quattro cinque sei sette volte.
Lessi e rilessi soprattutto il terzultimo e l'ultimo verso, convinto che ci fosse davvero qualcosa di fondamentale in quelle due semplici teorie di parole.
'Essi sono altrove molto più lontano della notte ... nell'abbagliante splendore del loro primo amore'
Quale sensazione provoca ai giovani innamorati l'amore? Nessuna tra quelle definite, ma un senso di estraniamento, di solitudine - sebbene una solitudine condivisa - una strana sensazione di paradiso isolato, come di una rocca inviolabile da cui si osserva il mondo, in cui si gode disperatamente, in cui si riesce ad ignorare il 'fuori', un'isola felice in mezzo a un mondo di molteplici tristezze, un'isola di immobilità in un mondo di fermento e ansia.
Che amore è questo primo loro amore? Davvero è l'Amore, quell'amore che riesce ad essere ingenuo e infantile, un amore fanciullesco che non conosce ancora le logiche del mondo, che ignora i meccanismi dell'età adulta e triste.
'... li segnano a dito ...'
Com'è bella questa frase dei passanti! I giovani innamorati sono additati, sono oggetto di odio e invidia, sono indicati come diversi e strani, ebbene è vero: loro hanno qualcosa che i passanti (adulti) hanno perso, qualcosa che nella vita si va smarrendo, qualcosa che nel crescere rimane indietro, come se in una corsa uno dei corridori inciampasse e il secondo ignorasse il tutto, non accorgendosene nemmeno.
Mi dispiace.
'Per chi?' mi si chiederà 'Per i passanti o per gli innamorati?'
Per tutti. 
Gli innamorati perderanno, colpa di questa nostra vita, quest'esperienza fantastica e la maggior parte di loro si dimenticherà di averla mai avuta - in pochi infatti oseranno ricordare, oseranno dico, non riusciranno, poiché quello che qualcuno, come il poeta, fa è davvero qualcosa di quasi sacrilego, un qualcosa che destabilizza la noia e il grigiume del mondo comune.
I passanti sono dei miseri che meritano pietà e compassione, mi pare chiara la ragione - e a chi non parrà chiara tale ragione allora davvero meriterà tutta l'attenzione di tutti per questa sua limitatezza e deficienza.
Questa poesia ora posso dire che mi è cara, che 'mi piace'. Però preferisco dire che questa poesia ora 'mi appartiene', è entrata in me e spero vi rimanga, spero che quando crescerò questa poesia possa ancora essere una specie di motto personale: anche da cresciuto vorrei essere uno di quei 'ragazzi che si amano.