martedì 26 agosto 2014

DOVUNQUE C'E', MA COS'E'?

 Filosofi e pensatori, tutti si sono posti almeno una domanda su uno dei misteri più belli (perdonate se sembrerà un gioco di parole): la bellezza.

Soprattutto dopo un violento temporale estivo l’aria della città è fresca e sana, un vero piacere: se l’acqua giunge a confortare dalla calura graditissima, l’odore e l’aria che rimane quando l’acqua ha smesso di cadere, nelle anime grandi, lascia una certa sensazione goduriosa … ed è proprio in uno di quei momenti, quando l’asfalto restituisce all’aria sotto forma di goccioline fine la pioggia abbondante, che la nostra storia ha inizio. Forse Dante e Dostoevskij non saranno d’accordo, ma Aurora era davvero un’anima grande, uno di quegli spiriti grandiosi che talvolta camminano sulla terra: non avrebbe mai portato innovazioni né scientifiche né filosofiche, mai sarebbe divenuta una generalessa capace di sottomettere mezzo mondo, neppure avrebbe rappresentato l’origine di una nuova religione, ma ella era davvero uno spirito grande, un’anima elevata. Mentre un cinquantenne in canotta e calzoncini sciabattava nelle sue infradito lei sedeva davanti alla vetrina: si era fermata lì aspettando che il temporale finisse, tanto non doveva fare nulla, non aveva impegni.
Mentre pioveva aveva osservato un bambino che si era messo a correre felice sotto l’acqua violenta che cadeva sul sagrato della chiesa che le stava davanti: il viale era semideserto e la piazza che si apriva tra lei e l’edificio sacro era, fino a poco prima della tempesta, ingombra di gente. Il bambino era contento, allegro come non mai, probabilmente era uno dei sogni della sua ancor breve vita. Era solo, nei suoi sandali sporcati qua e là dall’erba, correva di qui e i là, senza apparente ragione per scegliere ora la destra ora la sinistra; era come se volesse prendere ogni singola goccia, come se tentasse di non perdere nemmeno una di quelle lacrime del cielo. Gli occhi erano praticamente chiusi, strizzati per non far entrare l’acqua dentro, la bocca spalancata verso le nubi e le braccia aperte come fosse un aereo.
‘E se andassi anche io? – si diceva Aurora tra sé – probabilmente mi prenderebbero per matta! Ma che importa poi? Che pensino pure ciò che vogliono! No, forse è meglio evitare … ma perché, in fin dei conti sono fatti miei di quello che faccio! No, meglio rimanere qui seduta … aspetto … aspetto che smetta di piovere’
E intanto la pioggia cadeva, violenta e fresca, le gocce si precipitavano giù veloci e si abbattevano in tanti piccoli tuffi per terra.
Una donna poi era venuta a richiamare il bambino; questi parve non sentirla per un po’, poi fu obbligato a seguire il suo ordine e rientrò dalla madre.
‘Ma non smette più di piovere?’
E finalmente, dopo qualche minuto, smise e agli occhi di Aurora si presentò la scena che è descritta poco sopra.
Si alzò, tra la pianta nuda del piede e i sandali penetrò dell’acqua: era tiepida, scaldata dall’asfalto rovente del marciapiede.

Un vocio sostenuto invadeva il lungo corridoio, riempiendo l’ambiente di vita e animando quelle antiche pareti. È curioso come anche coloro cui importa poco e niente di antiche e preziose tele in alcuni luoghi rimangano in un certo modo scioccati: dura un attimo, poi magari si riprende a essere indifferenti, ci si mette a gridare e a sbraitare da una parte all’altra, ma c’è sempre quell’attimo, quell’istante in cui tutti i sensi si annullano improvvisamente e rimane solo ciò che si ha davanti agli occhi, tutto si cancella e scompare per un momento a favore di un inaspettato spettacolo.
I busti antichi si allineavano ordinati, ognuno sulla sua colonnina, ognuno con il suo bello strato di polvere sopra, ognuno con la sua piccola targhetta al fianco, o subito sotto l’ascella. I vetri si affacciavano sulla via sottostante e di lì si osservava l’immane ressa di gente che premeva per accedere a quel tempio particolarissimo dove erano raccolti secoli e secoli. Le porte che si aprivano verso i saloni e le sale erano spalancate, pronte a vomitare gente nel corridoio o a inghiottirne all’interno. Gauthier era arrivato in città da due giorni e si era dedicato a ‘esplorare’ le strade, ad andare in cerca delle meraviglie evidenti, ma allo stesso tempo sconosciute dei vicoli e delle piazzette più nascoste. Poi si era finalmente deciso a dedicarsi ai musei, alle gallerie, alle collezioni e allora eccolo lì, con il suo opuscoletto preso all’ingresso, gli occhiali inforcati per cogliere meglio ogni dettaglio minuto: si era concesso quattro ore per quell’impresa. ‘Esagerato!’ potrebbe pensare qualcuno, eppure per Gauthier quattro ore erano anche poche: il francese aveva un modo tutto suo per affrontare un museo, un modo particolare.
Inspirò e mosse il primo passo.
Ogni tela, ogni scultura antica, ogni pittura, ogni pennellata, ogni cesellatura, tutto si incise profondamente nella sua memoria, anzi, sarebbe meglio dire che ogni tela, ogni scultura antica, ogni pittura, ogni pennellata, ogni cesellatura, tutto si incise profondamente ed eternamente non nella memoria, ma nel suo cuore: quelle opere d’arte, se per chiunque erano solo oggetti da osservare e – qualora piacciano – lodare, per lui erano amanti, donne cui rimaneva legato da una passione effettiva, corporale, sensuale; ma non erano compagne di una notte, non erano passioni passeggere, lussuriose e peccaminose, no!, erano amori ‘completi’, amori veri.

William ricordava bene, dopo averle viste tante e tante volte, quelle linee e quelle forme straordinarie … in particolare gli era rimasta impressa un’immagine, una sorta di ‘quadretto’ che avrebbe ben potuto diventare una di quelle fotografie che fanno diventare arcinoto un reporter. Davanti a una capanna - una di quelle che nella foresta si costruiscono provvisoriamente, perché si vive in viaggio, sempre in movimento – vicino a un mucchietto di foglie larghe e chiare, una donna, nuda completamente eccetto che per una sorta di straccio – ricordo di un contatto con gli ‘occidentali’ – drappeggiato in maniera scomposta sul pube, con a fianco un bambino - non più di otto anni – senza nulla addosso, con un’aria imbarazzata, mentre si mangiucchiava un ditino sottile. La donna aveva i capelli corti, rasati, la sua pelle marrone chiaro era stranamente pulita, nonostante fosse esposta alla natura più superba … il suo collo era lungo e liscio, il suo sguardo fisso e serio, indagatore, ma anche rabbioso, arrabbiato. La bocca era serrata nel silenzio, ma l’impressione era che la sua lingua avesse in realtà troppe cose da dire! Il seno di lei era cascante, pendeva dal suo petto, attirato dalla terra e nulla resisteva alla forza attrattiva del pianeta. Il suo bacino era ampio, ma magro, non troppo – fortunatamente – ma magro … le sue gambe erano storte, i piedi nudi affondavano nell’erba bagnata.

Il bambino era nudo, la sua vergogna non era coperta come quella della madre. La pancia era gonfia e l’ombelico sporgeva. Un po’ di bavetta gli usciva dal lato della bocca mentre si ciucciava il ditino. I suoi occhi erano un po’ spaventati, ma in realtà anche curiosi, intelligenti, vispi.  William li aveva osservati a lungo, appena arrivati al villaggio e nonostante la povertà, la miseria della scena era rimasto senza fiato, immobile, in silenzio.

Nessun commento:

Posta un commento