martedì 11 novembre 2014

DI NASCOSTO

All'uomo che mi ha parlato di Dio con così tanta naturalezza dedico questa storia esotica, lui che fu esiliato possa esiliarsi da sé in un mondo più lieto attraverso queste parole. 
Nel giorno della sua nascita, a Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
J.D.

Faceva un gran caldo all’epoca, vivevo ancora nella mia città d’origine, quando ancora ero un bambino e non ancora un commerciante che attraversava il Mediterraneo sulle mie navi cariche. Ricordo che in quei giorni le donne ci proibivano di uscire anche nel cortile interno per il gran caldo che faceva e quindi eravamo costretti, noi bambini della casa, a giocare nelle stanze delle nostre madri, rincorrendoci su e giù per le scale che arrivavano fino alle terrazze, ma senza mai poggiare i piedi sul rovente pavimento dei tetti. In quei giorni correvamo pressoché nudi, noi bambini, e le ragazzine non avevano alcun pudore, non ancora nemmeno preoccupate di coprirsi il capo con i veli. I bambini più grandi di noi, i nostri fratelli e le nostre sorelle, ci rimproveravano seccati quando li disturbavamo con le nostre scorrerie per la casa: i maschi ci tiravano i sandali dietro colpendoci le spalle chiare; le ragazze, quelle che già sapevano cos’era la pudicizia e ci tenevano a coprirsi con i più bei veli della casa, ridevano e ci rimproveravano come madri in miniatura, ma senza alcuna severità.
Poi c’erano i più grandi. Loro pensavano a giocare con le scacchiere, le ragazze cucivano e tessevano, ricamavano e rammendavano; qualcuno dei grandi si metteva su una delle porte che dava sull’ingresso, in mezzo all’aria che spirava dalla strada, e intagliava un pezzetto di legno a forma di delfino (sarebbe presto stato un dono per una sorella o una cugina).
In quei giorni ero felice di una gioia tutta particolare, sincera e semplice, che esulava dai piaceri di cui godo oggi. Era vera gioia, era felicità.
In uno di quei giorni io stavo rincorrendo mio cugino e lui si era nascosto da qualche parte vicino ai bagni – infatti noi eravamo molto ricchi e i grandi non andavano spesso ai bagni comuni, ma si lavavano direttamente a casa.
Mio cugino quel giorno si era nascosto molto bene e io ad un certo momento mi ero stufato di cercarlo. Dov’ero finito? Ero davanti alla porta che dava sulle scale che usavano i servi per salire fino ai bagni quando qualcuno dei grandi chiedeva di essere lavato. A noi era vietato utilizzare quelle scale, quindi proseguii e aprì un paio di porte intagliate, tutte lavorata in una sorta di rete fine, perché passasse attraverso un po’ di luce. All’interno l’aria era meno soffocante e il fresco che veniva dalle vasche era una piacevole carezza per il mio corpo seminudo. Mi sedetti qualche minuto sul marmo intarsiato del pavimento. Ah! un’ondata di freddo saliva per tutta la schiena e i brividi erano una piacevole sensazione, mentre la calura e il sudore svanivano dalla mia persona. Nel silenzio di quella mia pausa udii dei rumori di acqua provenire da qualche parte alla mia destra. Mi rialzai e seguii lo scrosciare dell’acqua finché non giunsi al piccolo cortile interno dei bagni su cui si affacciavano quattro grandi arcate da cui pendevano leggere lunghe tende leggere, che rendevano sfocata l’immagine della stanza retrostante.
Continuai a seguire l’acqua fino alla stanza che per me, da quel giorno a finché rimasi in quella casa, fu la ‘Camera Azzurra’:
l’ambiente era quadrato e ad un angolo si trovava un grande bacile di pietra scolpita, che emergeva da una sorta di piccola vasca, anch’essa circolare. Il getto d’acqua scaturiva dall’angolo tra le due pareti, da un rubinetto di ottone. La parete era intermente rivestita di piastrelle color turchese, tutte disposte a formare una fascia di colore uniforme fino a due metri da terra, dove iniziavano le volute e allora, dopo una linea di piastrelle tutte decorate, la parete si riempiva di piastrelle bianchissime, su cui erano state dipinte con tintura blu antiche frasi sapienziali. Le volte salivano, scolpite tali da sembrare drappi bianchi che scivolano giù dall’alto, e là dove si sarebbero dovute congiungere in una stabile chiave di volta c’era un oculo che permetteva al sole luminoso di penetrare tra quelle mura, riempiendo l’ambiente di una luce bianca e pura.
Alla parete in fondo erano appesi degli asciugamani e sgabelli di canna erano disposti un po’ ovunque, un paio di sandali rialzati erano abbandonati sul pavimento.
Al centro della sala c’erano due donne, una seduta e l’altra in piedi, la prima dalla pelle chiara, la seconda dalla pelle scura, con bracciali argentei ai polsi e alle caviglie
Mia sorella era comodamente seduta su uno sgabello e osservava il bordo della piccola vasca, dandomi le spalle; la serva, con i seni nudi, con sul capo un telo rosso e giallo da cui pendevano curiosi cerchi di metallo, sfregava la schiena di mia sorella con una spugna, attenta a che non le cadesse la veste colorata che portava intorno alla vita.
Mia sorella era bellissima, dava il braccio destro alla serva e la sua posa, con le gambe incrociate, mi pareva stranamente attraente come mai mi era sembrata prima: scoprivo la sensualità delle donne. Rimasi a lungo a osservare il bagno di mia sorella, spiandola attraverso la tenda, osservando la schiuma che colava sulla sua morbida schiena chiara fino alle natiche nude; di nascosto osservavo i suoi capelli crespi raccolti sulla nuca in maniera semplice, senza troppa attenzione.


Jean-Léon Gérôme, Il bagno

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