All'uomo che mi ha parlato di Dio con così tanta naturalezza dedico questa storia esotica, lui che fu esiliato possa esiliarsi da sé in un mondo più lieto attraverso queste parole.
Nel giorno della sua nascita, a Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
Nel giorno della sua nascita, a Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
J.D.
Faceva un gran
caldo all’epoca, vivevo ancora nella mia città d’origine, quando ancora ero un
bambino e non ancora un commerciante che attraversava il Mediterraneo sulle mie
navi cariche. Ricordo che in quei giorni le donne ci proibivano di uscire anche
nel cortile interno per il gran caldo che faceva e quindi eravamo costretti,
noi bambini della casa, a giocare nelle stanze delle nostre madri,
rincorrendoci su e giù per le scale che arrivavano fino alle terrazze, ma senza
mai poggiare i piedi sul rovente pavimento dei tetti. In quei giorni correvamo
pressoché nudi, noi bambini, e le ragazzine non avevano alcun pudore, non
ancora nemmeno preoccupate di coprirsi il capo con i veli. I bambini più grandi
di noi, i nostri fratelli e le nostre sorelle, ci rimproveravano seccati quando
li disturbavamo con le nostre scorrerie per la casa: i maschi ci tiravano i
sandali dietro colpendoci le spalle chiare; le ragazze, quelle che già sapevano
cos’era la pudicizia e ci tenevano a coprirsi con i più bei veli della casa,
ridevano e ci rimproveravano come madri in miniatura, ma senza alcuna severità.
Poi c’erano i
più grandi. Loro pensavano a giocare con le scacchiere, le ragazze cucivano e
tessevano, ricamavano e rammendavano; qualcuno dei grandi si metteva su una
delle porte che dava sull’ingresso, in mezzo all’aria che spirava dalla strada,
e intagliava un pezzetto di legno a forma di delfino (sarebbe presto stato un
dono per una sorella o una cugina).
In quei giorni
ero felice di una gioia tutta particolare, sincera e semplice, che esulava dai
piaceri di cui godo oggi. Era vera gioia, era felicità.
In uno di quei
giorni io stavo rincorrendo mio cugino e lui si era nascosto da qualche parte
vicino ai bagni – infatti noi eravamo molto ricchi e i grandi non andavano
spesso ai bagni comuni, ma si lavavano direttamente a casa.
Mio cugino quel
giorno si era nascosto molto bene e io ad un certo momento mi ero stufato di
cercarlo. Dov’ero finito? Ero davanti alla porta che dava sulle scale che
usavano i servi per salire fino ai bagni quando qualcuno dei grandi chiedeva di
essere lavato. A noi era vietato utilizzare quelle scale, quindi proseguii e
aprì un paio di porte intagliate, tutte lavorata in una sorta di rete fine,
perché passasse attraverso un po’ di luce. All’interno l’aria era meno
soffocante e il fresco che veniva dalle vasche era una piacevole carezza per il
mio corpo seminudo. Mi sedetti qualche minuto sul marmo intarsiato del
pavimento. Ah! un’ondata di freddo saliva per tutta la schiena e i brividi
erano una piacevole sensazione, mentre la calura e il sudore svanivano dalla
mia persona. Nel silenzio di quella mia pausa udii dei rumori di acqua
provenire da qualche parte alla mia destra. Mi rialzai e seguii lo scrosciare
dell’acqua finché non giunsi al piccolo cortile interno dei bagni su cui si
affacciavano quattro grandi arcate da cui pendevano leggere lunghe tende
leggere, che rendevano sfocata l’immagine della stanza retrostante.
Continuai a
seguire l’acqua fino alla stanza che per me, da quel giorno a finché rimasi in
quella casa, fu la ‘Camera Azzurra’:
l’ambiente era
quadrato e ad un angolo si trovava un grande bacile di pietra scolpita, che
emergeva da una sorta di piccola vasca, anch’essa circolare. Il getto d’acqua
scaturiva dall’angolo tra le due pareti, da un rubinetto di ottone. La parete
era intermente rivestita di piastrelle color turchese, tutte disposte a formare
una fascia di colore uniforme fino a due metri da terra, dove iniziavano le
volute e allora, dopo una linea di piastrelle tutte decorate, la parete si
riempiva di piastrelle bianchissime, su cui erano state dipinte con tintura blu
antiche frasi sapienziali. Le volte salivano, scolpite tali da sembrare drappi
bianchi che scivolano giù dall’alto, e là dove si sarebbero dovute congiungere
in una stabile chiave di volta c’era un oculo
che permetteva al sole luminoso di penetrare tra quelle mura, riempiendo l’ambiente
di una luce bianca e pura.
Alla parete in
fondo erano appesi degli asciugamani e sgabelli di canna erano disposti un po’
ovunque, un paio di sandali rialzati erano abbandonati sul pavimento.
Al centro della
sala c’erano due donne, una seduta e l’altra in piedi, la prima dalla pelle
chiara, la seconda dalla pelle scura, con bracciali argentei ai polsi e alle
caviglie
Mia sorella era
comodamente seduta su uno sgabello e osservava il bordo della piccola vasca,
dandomi le spalle; la serva, con i seni nudi, con sul capo un telo rosso e
giallo da cui pendevano curiosi cerchi di metallo, sfregava la schiena di mia
sorella con una spugna, attenta a che non le cadesse la veste colorata che
portava intorno alla vita.
Mia sorella era
bellissima, dava il braccio destro alla serva e la sua posa, con le gambe
incrociate, mi pareva stranamente attraente come mai mi era sembrata prima:
scoprivo la sensualità delle donne. Rimasi a lungo a osservare il bagno di mia
sorella, spiandola attraverso la tenda, osservando la schiuma che colava sulla
sua morbida schiena chiara fino alle natiche nude; di nascosto osservavo i suoi
capelli crespi raccolti sulla nuca in maniera semplice, senza troppa
attenzione.
Jean-Léon Gérôme, Il bagno
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