martedì 8 dicembre 2015

STREGA - prologo - parte 1

05 dicembre 2015 - ho rincontrato alcune sensazioni e ho iniziato - non potevo fare altro! Questo è solo l'abbozzo di ciò che sarà qualcosa di - spero - più completo. 

Oggi è forse troppo tardi, troppo tardi addirittura per uno come me, che sta sveglio la notte per ascoltare musica, ricordare, sognare! Ma oggi è davvero troppo tardi, talmente "troppo tardi" che è presto. Non posso fare a meno di fare così, stanotte: c'è un'aria strana, non mi avvolge il sonno, non riesco a chiudere gli occhi e rinunciare a guardare questa oscurità. Ho acceso la luce e speravo di reagire, di avere gli occhi pesanti e affaticati. No. Sono ancora sveglio.

PROLOGO
Un giorno una donna camminava lungo il sentiero che dal villaggio portava ai grandi campi che circondavano la città. Il boschetto era piccolo, in realtà, rispetto al resto, ma per questa giovane donna non c'era stato, fino a quel momento, null'altro che il suo bel villaggetto felice. Felice, oddio, neanche così tanto felice: la vita al villaggio era dura, estremamente dura. Certo, la vita è dura dovunque, ma proprio perché è dura dovunque, che senso ha dire che la vita fosse felice?! Era dura, la vita, e tutti vivevano la propria fatica quotidiana. Qualcuno aveva capito di poter sorridere anche nella fatica, qualcuno aveva trovato un proprio rifugio efficace contro questa vita grama, qualcun altro, poi, ci aveva rinunciato e s'era arreso all'odiosa condizione nella quale si trovava. Peccato.
La giovane donna, che era proprio una bella fanciulla, camminava leggera. Era scappata, corsa via dal villaggio in cerca di qualcosa che fosse radicalmente diverso da quello a cui era da sempre abituata. Basta, basta quelle otto case mezzo-isolate ognuna con il proprio orticello con poche foglie di cavolo, basta sentire i ratti della città sgattaiolare attraverso il bosco di notte verso quei piccoli granai di legno. Basta, basta quello schifo ridicolo. C'era bisogno di qualcosa che ... qualcosa che funzionasse sulla sua stranissima indole.
Sì, sì Virginia era decisamente una persona particolarissima, una creatura che in mezzo a tanti altri sarebbe sembrata un'anonima comparsa all'ennesima rappresentazione sacra, ma che, a un occhio attento, avrebbe rivelato una luce intensa negli occhi, giù nel profondo del proprio animo, là dove, in lei, ardeva un fuoco che, siccome non trovo altra parola, definirò 'profumato'. Era come se nel suo animo ardesse dell'incenso: un'anima rozza avrebbe veduto una ragazzetta caruccia, gentile ed educata, con un bel mento tondeggiante, una fronte non troppo larga, ma nemmeno gli occhi attaccati ai capelli, con un naso non finissimo, ma - grazie a Dio - non a patata, come quella che l'aveva messa al mondo; un'anima rozza, insomma, avrebbe visto poco. Qualcuno, invece, che, oltre al pane da mettere sotto i denti, avesse desiderato anche un tipo diverso di felicità, qualcosa di più ... di più profumato! ecco, una simile persona avrebbe, al contrario, riconosciuto una creatura misteriosa, "mitologica", lontana.
Non esistevano specchi al villaggio, nemmeno uno specchiettino dimenticato da una carrozza di passaggio. Solo l'acqua, qualche volta, restituiva delle immagini all'osservatore. Virginia lo aveva scoperto un giorno di primavera, qualche anno addietro, mentre portava un secchio allo zio, nell'orto. Si era trovata davanti una fanciulla che non aveva mai incontrata, persa, in lontananza, sotto la superficie dell'acqua. La scrutava, cercando di capire che cosa stesse succedendo, da dove arrivasse quella straniera. La sua mente ignorante ci aveva messo del tempo per comprendere chi fosse quella ragazzina al di là dell'acqua, nel secchio. Quando lo aveva capito, finalmente, s'era accorta di sentire dentro di lei qualcosa, una specie di domanda. A parole potremmo provare a descrivere così quella sensazione: "Ma è così che mi vedono?". Una domanda, ripeto, una domanda, una domanda che potrebbe sembrare banale, una domanda che a me personalmente sembra una sciocchezza, ma che ho scoperto essere più di una semplice domanda. Ebbene, da quel giorno, da quella volta in cui aveva incontrato la propria immagine nel secchio, altre volte aveva controllato che nell'acqua quel viso tornasse a visitarla, almeno ogni tanto. S'era scoperta a piacersi, a studiarsi e a giudicarsi: le piaceva come alcuni suoi riccioli le coprivano un poco le orecchie piccoline; in un giorno particolarmente fortunato aveva intravisto delle piccole macchioline sottili sottili sulle sue guance e sul naso e, illuminata come da un fulmine nella notte buia, era scoppiata a ridere! Le lentiggini! Come le stavano bene le lentiggini, mica come a quel diavolo di Riccardo! A volte, però, l'acqua nel secchio la deludeva, la prendeva in giro e si divertiva così - lei lo sapeva: c'erano volte in cui la sua faccia sembrava inspiegabilmente cicciottella, altre in cui il suo mento le ricordava la pala che lo zio utilizzava per risistemare gli argini del fosso dietro casa. In questi momenti Virginia distoglieva con impeto lo sguardo e cercava di dimenticarsi della propria immagine. Si gettava sull'attività del momento e ci si immergeva. Aggiungeva all'ultima immagine che aveva ricevuto dal secchio i ricordi del proprio viso, ricordi che aveva altre volte costruito. Col tempo, però, man mano che si ritrovava a faccia a faccia con se stessa, quella strana domanda che l'aveva sfiorata quella prima volta si radicò sempre più nella semplice testolina di Virginia. Giorno dopo giorno la domanda si ripresentava e interrogava la ragazzetta. Pretendeva, ormai, una risposta: non era più un semplice interrogativo, ma una richiesta straziata di risposta. "è davvero così che mi vede il resto del mondo?!". E questo grido rimaneva dentro, nel suo intimo, rimbombando con la propria eco nel petto di Virginia. In lei accrescevano sentimenti contrastanti: non sapeva se gioire di essere veduta in quel modo, o se vergognarsi del proprio aspetto. Virginia aveva iniziato ad essere una sciocca ragazzina vezzosa, di quelle che passano le giornate a curarsi per essere le più incensate dalla gente attorno? No. Non era una di questa razza: il suo profumo, quel fuoco d'incenso che le ardeva nel petto la spingeva a riproporsi quella domanda alla ricerca disperata di una risposta che andasse al di là della forma. Qualcosa non la convinceva, qualcosa le diceva che non poteva essere che nessuno sapesse darle una risposta. Ma era andata a chiedere aiuto a qualcuno? No, non aveva osato. Il suo cuore le diceva di tenersi per sé tutte quelle questioni, quelle faccende insensate che nessuno avrebbe compreso. Scoprì presto di aver altre domande: "Ma cosa mi cambia a volte? Perché a volte non sono come mi ricordavo? Ricordavo? Ma perché ricordavo una certa cosa? Be', mamma diceva che il ricordo è qualcosa che ci portiamo dentro, qualcosa che è stato tempo addietro e che conserviamo. Ma perché conserviamo alcuni ricordi orribili? Aspetta! Perché adesso mi vedo così tonda? Sembro una ruota di un carro. Eppure non ero così, ieri"

Parole di una fanciulla, parole semplici e senza pretese, parole straordinariamente sentite, però, da quel cervellino frenetico che ormai si addormentava chiedendosi che cosa stesse pensando quel dannatissimo ragnetto che, ben presto, si sarebbe rimesso all'opera per ricostruire, come ogni notte, quel filo sopra la sua coperta, così che la mattina lei, come sempre, vi si incastrasse infastidendosi non poco!

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