Ci lasciammo alle
spalle la città. Dopo numerosi giri su vari cavalcavia e attraversando numerose
rotonde, abbandonammo anche il casello autostradale. Correvamo veloci, sempre
più veloci mentre ci abituavamo alla nuova strada.
I campi vicini
svanivano in una macchia, anzi in una strisciata di colori tutti sbiaditi. In
lontananza tutti gli alberi e le cascine ci osservavano immobili, senza nemmeno
agitarsi troppo per il nostro passaggio.
Finalmente eravamo
anche noi in autostrada, la velocità acquisita ora sembrava non aver più
bisogno del mio intervento: la macchina si guidava da sola, e si muoveva
elegantemente, più veloce del vento.
Lui mi sedeva a
fianco, un po' scomodo - credo - perché continuava a muoversi come se nessuna
posizione riuscisse a soddisfarlo. Prima di entrare in macchina si era tolto il
giubbotto e la felpa, rimanendo in maglietta a maniche corte: le sue braccia
bianche erano allungate da un lato sulla cornice del finestrino, dall'altra sul
bracciolo - tanto comodo per appoggiare il gomito quando si scala la marcia!
La musica era affidata
alla casualità della radio: si passava da una canzone recente, carina, a
qualcosa di una decina anni prima, terrificante, a qualcosa degli anni settanta
o ottanta, decisamente emozionante, per poi rigettarsi nella contemporaneità,
con qualche hit di musica tutta uguale, che forse vale poco, ma che aiuta e che
fa passare, in fondo, ore assolutamente piacevoli.
In autostrada c'erano
davvero poche automobili.
Si placò un poco,
appoggiato al finestrino. Guardava fuori e ammirava le montagne a nord, colpite
tutte dai raggi del sole cadente, baciate da quel calore vitale, loro, supremo
simbolo di freddo e gelo.
«Se vuoi puoi
attaccare il telefono e sentire la tua musica» gli proposi, sempre fissando la
lunga striscia di asfalto che si svolgeva davanti a me e che a poco a poco
vedevo inghiottita sotto la mia auto.
«Dov'è il cavo?»
«Dovrebbe essere nel
cassettino …»
Frugò per qualche
secondo, spostando fogli e fogliettini, ritrovando un paio d'occhiali da sole
smarrito da chissà quanti secoli.
«E questi?» chiese
rigirandoseli tra le mani, sorridendo nel constatare la loro forma tutta
particolare: i suoi occhi osservavano carpendo ogni singolo particolare,
analizzando ogni millimetro di quell'occhiale, forse immaginandoseli indosso a
qualcuno, forse proprio a me!
«Erano di mia sorella:
probabilmente non sa nemmeno più di avere avuto degli occhiali simili!»
«Sono … - il suo
sorriso quasi si volse a un riso - … particolari!»
Una delle risate più
gustose della mia vita: quegli occhiali non erano 'particolari', né tantomeno
carini, ma erano forse la più brutta opera che l'uomo avesse mai fatto uscire
dalle sue mani!
Mi controllai il più
possibile per cercare di non essere motivo di incidenti, ma le nostre risate
coprirono la musica della radio, si fusero in un divertimento comune e
condiviso: non potevo voltarmi a guardarlo, ma sapevo che la sua mano sinistra
era ora sulla sua coscia, quella destra sul petto, gli occhi li sapevo chiusi,
anzi serrati, strizzati come perché non uscissero dalle loro orbite, la bocca
spalancata, a cercare aria per alimentare come fosse fuoco quella sua grassa
risata.
Intanto la macchina
proseguiva, continuava la sua corsa che la portava sempre più vicina ai piedi
delle montagne.
Le risate si spensero
a poco a poco, con la dignità di ognuno di noi di nuovo ristabilita.
Ma ecco che invece che
riprendere a cercare il cavetto per la musica, ancora lui continuava ad
osservare quegli occhiali 'particolari', tenendoseli in mano.
«Posso dirti
qualcosa?» intravidi con la coda dell'occhio che ora fissava la strada, oltre
il parabrezza, capii che 'qualcosa' voleva dire qualcosa di importante,
qualcosa di serio.
«Sai bene che puoi
dirmi tutto» fingevo un'allegria che in realtà non avevo, cercavo di non dare a
vedere di aver percepito la sua serietà.
«Mi ha fatto piacere
che tu mi abbia invitato: noi non ci conosciamo poi tanto in effetti,
nonostante ormai tutte le giornate passate assieme. So che non dovrei dirtelo
probabilmente, ma sono anche contento che gli altri non abbiano potuto venire
alla fine: sono felice di poter passare un finesettimana con te, senza nessun
altro, a parlare, a divertirsi, a ridere, a sparlare - so, nel mio intimo, che
sorrise quando disse questa cosa - a cucinare insieme e a riposarci … sono
davvero felice. Insomma … cioè … grazie dell'invito e … »
«Anche io sono
contento di rimanere un po' da solo con te alla fine: mi dispiace per gli
altri, ma non perché non ci sono loro allora noi non possiamo rilassarci e
divertirci!»
« … e ti voglio bene!»
Non mi aveva
ascoltato. Mentre parlavo io aveva cercato le forze per dirmi tre stupide
parole. Le più dolci, innocenti, affettuose che udii mai in vita mia.
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