domenica 15 marzo 2015

LUI (8)

Ci lasciammo alle spalle la città. Dopo numerosi giri su vari cavalcavia e attraversando numerose rotonde, abbandonammo anche il casello autostradale. Correvamo veloci, sempre più veloci mentre ci abituavamo alla nuova strada.
I campi vicini svanivano in una macchia, anzi in una strisciata di colori tutti sbiaditi. In lontananza tutti gli alberi e le cascine ci osservavano immobili, senza nemmeno agitarsi troppo per il nostro passaggio.
Finalmente eravamo anche noi in autostrada, la velocità acquisita ora sembrava non aver più bisogno del mio intervento: la macchina si guidava da sola, e si muoveva elegantemente, più veloce del vento.
Lui mi sedeva a fianco, un po' scomodo - credo - perché continuava a muoversi come se nessuna posizione riuscisse a soddisfarlo. Prima di entrare in macchina si era tolto il giubbotto e la felpa, rimanendo in maglietta a maniche corte: le sue braccia bianche erano allungate da un lato sulla cornice del finestrino, dall'altra sul bracciolo - tanto comodo per appoggiare il gomito quando si scala la marcia!
La musica era affidata alla casualità della radio: si passava da una canzone recente, carina, a qualcosa di una decina anni prima, terrificante, a qualcosa degli anni settanta o ottanta, decisamente emozionante, per poi rigettarsi nella contemporaneità, con qualche hit di musica tutta uguale, che forse vale poco, ma che aiuta e che fa passare, in fondo, ore assolutamente piacevoli.
In autostrada c'erano davvero poche automobili.
Si placò un poco, appoggiato al finestrino. Guardava fuori e ammirava le montagne a nord, colpite tutte dai raggi del sole cadente, baciate da quel calore vitale, loro, supremo simbolo di freddo e gelo.
«Se vuoi puoi attaccare il telefono e sentire la tua musica» gli proposi, sempre fissando la lunga striscia di asfalto che si svolgeva davanti a me e che a poco a poco vedevo inghiottita sotto la mia auto.
«Dov'è il cavo?»
«Dovrebbe essere nel cassettino …»
Frugò per qualche secondo, spostando fogli e fogliettini, ritrovando un paio d'occhiali da sole smarrito da chissà quanti secoli.
«E questi?» chiese rigirandoseli tra le mani, sorridendo nel constatare la loro forma tutta particolare: i suoi occhi osservavano carpendo ogni singolo particolare, analizzando ogni millimetro di quell'occhiale, forse immaginandoseli indosso a qualcuno, forse proprio a me!
«Erano di mia sorella: probabilmente non sa nemmeno più di avere avuto degli occhiali simili!»
«Sono … - il suo sorriso quasi si volse a un riso - … particolari!»
Una delle risate più gustose della mia vita: quegli occhiali non erano 'particolari', né tantomeno carini, ma erano forse la più brutta opera che l'uomo avesse mai fatto uscire dalle sue mani!
Mi controllai il più possibile per cercare di non essere motivo di incidenti, ma le nostre risate coprirono la musica della radio, si fusero in un divertimento comune e condiviso: non potevo voltarmi a guardarlo, ma sapevo che la sua mano sinistra era ora sulla sua coscia, quella destra sul petto, gli occhi li sapevo chiusi, anzi serrati, strizzati come perché non uscissero dalle loro orbite, la bocca spalancata, a cercare aria per alimentare come fosse fuoco quella sua grassa risata.
Intanto la macchina proseguiva, continuava la sua corsa che la portava sempre più vicina ai piedi delle montagne.
Le risate si spensero a poco a poco, con la dignità di ognuno di noi di nuovo ristabilita.
Ma ecco che invece che riprendere a cercare il cavetto per la musica, ancora lui continuava ad osservare quegli occhiali 'particolari', tenendoseli in mano.
«Posso dirti qualcosa?» intravidi con la coda dell'occhio che ora fissava la strada, oltre il parabrezza, capii che 'qualcosa' voleva dire qualcosa di importante, qualcosa di serio.
«Sai bene che puoi dirmi tutto» fingevo un'allegria che in realtà non avevo, cercavo di non dare a vedere di aver percepito la sua serietà.
«Mi ha fatto piacere che tu mi abbia invitato: noi non ci conosciamo poi tanto in effetti, nonostante ormai tutte le giornate passate assieme. So che non dovrei dirtelo probabilmente, ma sono anche contento che gli altri non abbiano potuto venire alla fine: sono felice di poter passare un finesettimana con te, senza nessun altro, a parlare, a divertirsi, a ridere, a sparlare - so, nel mio intimo, che sorrise quando disse questa cosa - a cucinare insieme e a riposarci … sono davvero felice. Insomma … cioè … grazie dell'invito e … »
«Anche io sono contento di rimanere un po' da solo con te alla fine: mi dispiace per gli altri, ma non perché non ci sono loro allora noi non possiamo rilassarci e divertirci!»
« … e ti voglio bene!»

Non mi aveva ascoltato. Mentre parlavo io aveva cercato le forze per dirmi tre stupide parole. Le più dolci, innocenti, affettuose che udii mai in vita mia.

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