Scendeva la prima neve,
forse sarebbe stata anche l'ultima per quell'anno. In realtà proprio neve non
era, ma era quella sorta di nevischio estremamente bagnato, e pare avere
l'aspetto di fiocchi soffici, anche se in verità sono solo pezzettini di
qualcosa di bagnato, qualcosa che non è propriamente una goccia, ma che nemmeno
merita il nome di cristallo.
Sentii che la cuffia
iniziava a inzupparsi sotto quella strana precipitazione e, mentre pedalavo
veloce lungo il viale, cercavo di non badare alla sensazione di bagnato che a
poco a poco aumentava di quel pezzo di sciarpa che mi copriva mento e bocca.
Controluce vedevo
quell'infinità di acqua scendere con meno pesantezza della pioggia, con meno
fretta. Quasi nessuno era in giro a quell'ora e i pochi coraggiosi erano di
corsa, tutti bardati con giubbottoni pesanti e soffocanti.
Sopra di me dominava
la sera d'inverno, buia fin dal pomeriggio, cupa e gelida.
Anche le mie mani,
sotto i guanti sempre più zuppi, incominciarono a gelarmi a poco a poco:
pedalata dopo pedalata iniziavo a sudare e allo stesso tempo il mio freddo
cresceva, le mie dita perdevano attimo dopo attimo un poco della loro
sensibilità.
Arrivai finalmente
nella piazzetta illuminata di luci arancioni, mentre quel nevischio cadeva
tutt'attorno. Il mio posto, quel lampione vicino alle strisce, era libero, ad
aspettarmi - chi altro poteva andare in giro in bicicletta con quel tempo?
Scesi rapidamente e
rapidamente fissai il lucchetto, il mio vecchio lucchetto arrugginito, che si
apre solo se tenuto in una certa posizione e se si infilano le chiavi solo con
una certa violenza. Chino sulla mia fedele compagna trafficai poco, abituato a
quei gesti così familiari, e rialzandomi ritirai in tasca le chiavi, chiudendo
subito il bottone.
Nell'aria ad ogni respiro
fluttuava un fumo bianco e sottile, pronto a disperdersi in fretta nel gelo
della notte: il mio fiato filtrava da sopra la sciarpa e mi sembrava come
nebbia davanti agli occhi, una nebbia magica, che funziona a intermittenza, che
appare per qualche attimo e che poi ritorna dopo un momento.
Respiravo affaticato:
il mio corpo caldo, tutte le mie estremità ghiacciate.
Iniziai a girarmi
attorno e a cercare nella piazzetta, rimanendo immobile, voltando qui e là la
mia testa … gelata
Finalmente passarono
le fatiche della pedalata, improvvisamente mi ritornarono in mente i motivi di
quella mia corsa: gli avevo scritto che avevo bisogno di lui, che dovevo
vederlo per quello che era successo quel giorno, che lo avrei visto lì, nella
piazzetta, che non potevo non vederlo proprio allora, e non il giorno dopo, non
la mattina che sarebbe venuta, no! Dovevo vederlo subito.
Mi voltai verso la
bicicletta, come se non fossi sicuro di aver legato il lucchetto al palo.
Le lacrime iniziarono
a salire, a premere contro le palpebre perché queste permettessero loro di
scendere, di andare incontro a quelle piccole goccioline gelide che cadevano
dal cielo, loro cugine. Strinsi forte i denti, mi morsicai il labbro per
trattenermi e inspirai profondamente, come tutti quelli che credono che così si
possa fermare un pianto imminente.
Ora tutta la mia vista
era annebbiata, tutto era filtrato da un sottile strato di acqua salata che mi
ricopriva l'occhio, che mi faceva vedere il mondo come attraverso una lente
tutta ondulata.
Ancora mi voltai verso
la piazza e ancora cercai in quella solitudine.
Camminava con le mani
in tasca, il giubbotto troppo leggero tirato fin sopra il mento, scoperto solo
il naso, quel suo naso tanto caro, tanto piccolo e delicato; in testa non aveva
nulla, lasciava che il cielo gli bagnasse i capelli, lo infradiciasse per bene.
Lo vedevo tutto
sfocato, come se tutta la sua forma fosse stata presa e messa in una piscina: proprio come col cloro,
le mie lacrime mi bruciavano negli occhi e mi impedivano di guardarlo come al
solito, di godere di quel volto così amico, così giovane.
Alzò lo sguardo, solo
un poco, abbastanza perché mi vedesse vicino al palo, illuminato dal cono
arancione: liberò il suo mento dal colletto della giacca e mostrò quel suo
sorriso sereno e festoso.
Scoppiai in lacrime e
corsi verso la panchina sotto il ciliegio sterile.
Forse non capì subito,
forse si sconvolse della mia reazione al suo saluto.
Mi raggiunse anche lui
di corsa, preoccupato - magari - per quel mio comportamento.
Mi trovò chino, seduto
sul bagnato con la testa tra le mani, con il naso gelato che gocciolava
lacrime. Le mie mani erano gelate, le dita dei piedi le avvertivo come tizzoni
ardenti di gelo polare.
Si sedette al mio
fianco e mi prese le spalle tra le sue braccia, abbracciandomi, avvicinando il
suo capo al mio, cercandomi con gli occhi, sussurrando quei famosi 'ehi', che
tremano nella gola, che ti dicono che c'è qualcuno che davvero ci terrebbe ad
esserti di aiuto …
«Ehi …»
Io piangevo, mi
disperavo, i singhiozzi erano le mie uniche parole: tutto il mio corpo si
agitava, scosso da ogni singhiozzo, ma le sue braccia mi tenevano vicino a lui,
mi comprendevano, i suoi occhi mi cercavano, cercavano di capirmi.
La 'neve' cadeva
mentre io piangevo, il mio naso si scaldò con le lacrime …
La 'neve' cadeva
mentre io piangevo, lui mi stava vicino …
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