domenica 8 marzo 2015

LUI (7)

Scendeva la prima neve, forse sarebbe stata anche l'ultima per quell'anno. In realtà proprio neve non era, ma era quella sorta di nevischio estremamente bagnato, e pare avere l'aspetto di fiocchi soffici, anche se in verità sono solo pezzettini di qualcosa di bagnato, qualcosa che non è propriamente una goccia, ma che nemmeno merita il nome di cristallo.
Sentii che la cuffia iniziava a inzupparsi sotto quella strana precipitazione e, mentre pedalavo veloce lungo il viale, cercavo di non badare alla sensazione di bagnato che a poco a poco aumentava di quel pezzo di sciarpa che mi copriva mento e bocca.
Controluce vedevo quell'infinità di acqua scendere con meno pesantezza della pioggia, con meno fretta. Quasi nessuno era in giro a quell'ora e i pochi coraggiosi erano di corsa, tutti bardati con giubbottoni pesanti e soffocanti.
Sopra di me dominava la sera d'inverno, buia fin dal pomeriggio, cupa e gelida.
Anche le mie mani, sotto i guanti sempre più zuppi, incominciarono a gelarmi a poco a poco: pedalata dopo pedalata iniziavo a sudare e allo stesso tempo il mio freddo cresceva, le mie dita perdevano attimo dopo attimo un poco della loro sensibilità.
Arrivai finalmente nella piazzetta illuminata di luci arancioni, mentre quel nevischio cadeva tutt'attorno. Il mio posto, quel lampione vicino alle strisce, era libero, ad aspettarmi - chi altro poteva andare in giro in bicicletta con quel tempo?
Scesi rapidamente e rapidamente fissai il lucchetto, il mio vecchio lucchetto arrugginito, che si apre solo se tenuto in una certa posizione e se si infilano le chiavi solo con una certa violenza. Chino sulla mia fedele compagna trafficai poco, abituato a quei gesti così familiari, e rialzandomi ritirai in tasca le chiavi, chiudendo subito il bottone.
Nell'aria ad ogni respiro fluttuava un fumo bianco e sottile, pronto a disperdersi in fretta nel gelo della notte: il mio fiato filtrava da sopra la sciarpa e mi sembrava come nebbia davanti agli occhi, una nebbia magica, che funziona a intermittenza, che appare per qualche attimo e che poi ritorna dopo un momento.
Respiravo affaticato: il mio corpo caldo, tutte le mie estremità ghiacciate.
Iniziai a girarmi attorno e a cercare nella piazzetta, rimanendo immobile, voltando qui e là la mia testa … gelata
Finalmente passarono le fatiche della pedalata, improvvisamente mi ritornarono in mente i motivi di quella mia corsa: gli avevo scritto che avevo bisogno di lui, che dovevo vederlo per quello che era successo quel giorno, che lo avrei visto lì, nella piazzetta, che non potevo non vederlo proprio allora, e non il giorno dopo, non la mattina che sarebbe venuta, no! Dovevo vederlo subito.
Mi voltai verso la bicicletta, come se non fossi sicuro di aver legato il lucchetto al palo.
Le lacrime iniziarono a salire, a premere contro le palpebre perché queste permettessero loro di scendere, di andare incontro a quelle piccole goccioline gelide che cadevano dal cielo, loro cugine. Strinsi forte i denti, mi morsicai il labbro per trattenermi e inspirai profondamente, come tutti quelli che credono che così si possa fermare un pianto imminente.
Ora tutta la mia vista era annebbiata, tutto era filtrato da un sottile strato di acqua salata che mi ricopriva l'occhio, che mi faceva vedere il mondo come attraverso una lente tutta ondulata.
Ancora mi voltai verso la piazza e ancora cercai in quella solitudine.
Camminava con le mani in tasca, il giubbotto troppo leggero tirato fin sopra il mento, scoperto solo il naso, quel suo naso tanto caro, tanto piccolo e delicato; in testa non aveva nulla, lasciava che il cielo gli bagnasse i capelli, lo infradiciasse per bene.
Lo vedevo tutto sfocato, come se tutta la sua forma fosse stata presa  e messa in una piscina: proprio come col cloro, le mie lacrime mi bruciavano negli occhi e mi impedivano di guardarlo come al solito, di godere di quel volto così amico, così giovane.
Alzò lo sguardo, solo un poco, abbastanza perché mi vedesse vicino al palo, illuminato dal cono arancione: liberò il suo mento dal colletto della giacca e mostrò quel suo sorriso sereno e festoso.
Scoppiai in lacrime e corsi verso la panchina sotto il ciliegio sterile.
Forse non capì subito, forse si sconvolse della mia reazione al suo saluto.
Mi raggiunse anche lui di corsa, preoccupato - magari - per quel mio comportamento.
Mi trovò chino, seduto sul bagnato con la testa tra le mani, con il naso gelato che gocciolava lacrime. Le mie mani erano gelate, le dita dei piedi le avvertivo come tizzoni ardenti di gelo polare.
Si sedette al mio fianco e mi prese le spalle tra le sue braccia, abbracciandomi, avvicinando il suo capo al mio, cercandomi con gli occhi, sussurrando quei famosi 'ehi', che tremano nella gola, che ti dicono che c'è qualcuno che davvero ci terrebbe ad esserti di aiuto …
«Ehi …»
Io piangevo, mi disperavo, i singhiozzi erano le mie uniche parole: tutto il mio corpo si agitava, scosso da ogni singhiozzo, ma le sue braccia mi tenevano vicino a lui, mi comprendevano, i suoi occhi mi cercavano, cercavano di capirmi.
La 'neve' cadeva mentre io piangevo, il mio naso si scaldò con le lacrime …

La 'neve' cadeva mentre io piangevo, lui mi stava vicino …

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