- 26 dicembre 2015
Immancabilmente freddo, a dicembre. Sì, dicono che
fa più caldo, che non fa più freddo come una volta, ma di sicuro in città non
c'erano più di sei gradi. Non meno quattro, è vero, ma neanche un bel ventitré
tranquillo e sereno. La nebbia quella mattina era particolarissima. Di solito
quando alzo la tapparella mi ritrovo davanti una parete bianca, pesante,
uniforme. Quando è poca intravedo a malapena il garage, in fondo al giardino, e
l'albero di noci. Quel giorno, invece, c'era una nebbia rosa, qualcosa di
strano: la coltre solita era ammassata insensatamente verso il noce,
dimenticandosi di coprire anche i due pini nani vicino alle finestre della
sala. Il colore era diffuso, ma la solita luminosità che lanciava il sole dal
suo nascondiglio oltre la nebbia era scomparsa, e tutto appariva sbiadito,
slavato, spento. Era mattina e come ogni mattina dovetti fermarmi a guardare
fuori, perché prima di incominciare a correre c'è sempre quel momento in cui
devi prendere fiato, in cui riempi i polmoni per poi buttarti, e quando ti
tuffi sai che poi per un po' non potrai più prendere fiato. Io la mattina
prendo fiato per un tuffo: respiro il 'paesaggio' su cui si affaccia camera mia
e poi … Quel giorno rimasi più del solito, invaso da perplessità che non
comprendevo nemmeno. Qualcosa mi lasciava la bocca asciutta, il sapore di amaro
sul palato, l'insoddisfazione giù nella gola.
Mi voltai, finalmente, e mi accorsi di avere
freddo: il termosifone s'era acceso, ma ero stato fermo molto a lungo,
dormendo, e adesso ero a piedi scalzi su un pavimento quasi gelido. Saltellai
fino al letto e mi ci rilanciai sopra, per dar tregua ai miei piedini gelati.
Cercai di non muovere troppo il materasso e le coperte: dormiva ancora. Non
s'era mosso nemmeno quando avevo tirato su le coperte. Era tutto imbacuccato,
nascosto sotto il piumone, infreddolito forse, o magari immerso in un qualche
dolce sogno di carezze e coccole. Aveva la bocca un pochino aperta e respirava
piano, senza quasi fare rumore, fatta eccezione per un piccolo soffio che, ogni
tanto, era accompagnato da un sibilo detto sottovoce. Il suo solito naso!
Non occorreva la luce accesa, quindi mi allungai
verso il comodino, cercando di scavalcarlo, per prendere i miei calzini. Forse
lo sfiorai e lui, senza svegliarsi, ebbe un lievissimo tremito: affondò ancora
un pochino la fronte nel cuscino e poi si arrese di nuovo. Stava per
svegliarsi: qualcosa lo aveva turbato? C'era una minuscola ruga nuova sulla sua
fronte liscia.
Rimasi sul letto, infilandomi, piano, le calze.
Spostai di nuovo lo sguardo verso la finestra e osservai che la nebbia s'era un
po' spostata. Senza dire niente a nessuno aveva fatto qualche passo indietro,
sciogliendo l'abbraccio che la teneva stretta al tronco spoglio. Mentre la
guardavo non mi sembrava che si muovesse. Distolsi lo sguardo per qualche
secondo con l'intenzione di fare un esperimento. Di scatto riosservai la nuvola
rosata e ecco che era di nuovo arretrata. E adesso era immobile! Mi prendeva in
giro? Stavamo forse giocando? Una stranissima manche a un-due-tre-stella! cui
non avevo mai partecipato prima. Sorrisi: avevo avuto la mia dose di bellezza
mattutina contro le brutture di una corsa quotidiana.
Non giocai per molto tempo: quando le dita dei
piedi tornarono caldi infilai le pantofole e, senza far troppo rumore, me ne
uscii dalla camera chiudendomi dietro la porta. C'era silenzio nel resto della
casa. Mia sorella era già in cucina che aspettava che salisse il caffè. I miei
erano partiti per una settimana. Mi infilai in bagno per lavarmi la faccia. Aprii
l'acqua e scoprii con sorpresa che scendeva calda: stavolta era toccato a mia
sorella di attendere che l'acqua gelata nella notte tornasse a scorrere
tiepida. Mi sciacquai il viso e riscoprii quel piacere insensato di sentirsi
crollare di dosso la bellezza della notte. Sì, perché è bello dormire, ma è
altrettanto bello quando ti sei riposato e puoi prendere dell'acqua calda e
carezzarti gli occhi e le labbra, la fronte e le guance, quando una goccia
scivola dentro il colletto e bagna il pigiama da dentro.
Guardai nello specchio e riconobbi il solito
personaggio strano.
«Non potevi svegliarmi? Da quando sei alzato?» mi
chiese una voce sonnacchiosa da una fessura della porta.
«Buongiorno! Pensavo di lasciarti ancora un po' lì,
anche io adesso mi sarei rimesso a letto: non abbiamo granché da fare …»
sorrisi voltandomi verso di lui e spalancando la porta. Ovviamente era a piedi
nudi e con un occhio ancora chiuso dal sonno. I capelli erano un disastro,
tutti sconvolti in mille e mille rose diverse. Un braccio penzolava lungo il
corpo, l'altro lo teneva nei pantaloni del pigiama, cercando di non perderli
visto che l'elastico s'era lasciato andare ormai da tempo e rischiava ad ogni
passo di dimenticarseli per strada.
«Torniamo di là» gli dissi.
«Perché hai tirato su le tapparelle?»
«Beh, non abbiamo niente da fare ma sai che odio
stare a dormire!» rise, perché era vero: mi conosceva troppo bene.
«E allora cosa torniamo di là a fare?» mi chiese,
continuando a sorridere e ridacchiare insieme.
«Niente, ma almeno faremo niente insieme»
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