martedì 18 agosto 2015

LA MORTE DI FIDIA, riscritto

Un corpo rinsecchito dagli anni, e debole. I muscoli ormai seccati sulle ossa; fibre fragilissime, quasi paglia, stirate lungo le sue braccia tremolanti. Abbandonato a se stesso, sdraiato per terra, giaceva, quel pover'uomo, come morto. La stanzetta era buia, stretta e stranamente alta. Vicino al soffitto, con il profilo incerto, s'apriva una piccola finestrella che s'apriva sulla notte ancora addormentata. Per terra s'ammucchiava qua e là una montagnola di segatura ch'era stata sparsa chissà quando. Il pavimento mandava un leggero, ma penetrante, odore di urina. Il corpo pareva un cadavere condannato a marcire: sdraiato sulla schiena, lasciava che l'aria pesante di quella misera cameretta gli sfiorasse la fronte attraversata da decine di rughe profonde e stanche; la pelle era scura, bruciata da troppo sole preso durante tante e tante giornate di fatica. Sotto il mento gli prudeva, di tanto in tanto, una vecchissima cicatrice che s'era procurato quando ancora lavorava con le proprie mani. Già, le sue mani: erano come foglie d'autunno, perse lungo il corpo, con le dita lunghe e rinsecchite, private di quella forza, di quel vigore d'un tempo. Quelle sue mani erano state per lui un miracolo, l'unica sua salvezza dalla fame e dalla povertà, tempo addietro, e ora erano così … In quella stanzetta, piccola, buia e silenziosa, giaceva solo il vecchio Fidia.
Quanto tempo mancava all'alba? Forse molto, forse molto poco: dalla finestra nessuno avrebbe potuto sbirciare l'orizzonte per ricercare il preludio di 'Aurora dalle dita di rosa', perché quell'apertura verso il mondo era troppo, troppo in alto. Ma a chi importava? A nessuno: Fidia rimaneva solo in quel luogo così isolato e dormiva. All'alba sarebbe giunto forse il momento di andarsene, finalmente, ma ancora non era sveglio e ancora non gl'importava quello che sarebbe venuto. Quella era la prima notte che dormiva: per nottate intere era riuscito a tormentarsi senza chiudere occhio, invece questa notte, inspiegabilmente, il sonno era calato sui suoi occhi e lo aveva costretto nel suo abbraccio. Questa notte dormiva, non di certo un sonno ristoratore e calmo, ma il suo corpo, stremato, munto fino al nocciolo di ogni goccia di linfa, non poteva nemmeno provare a muoversi. Questa notte dormiva, finalmente, e - caso strano - sognò.
Si sentiva nudo, eppure su di lui percepiva un leggerissimo velo trasparente che gli accarezzava il corpo; il suo corpo era tornato un uomo giovane, pieno di forza e vigore: i muscoli erano nuovamente guizzanti e pronti, solcati da vene ben definite, straordinariamente sensuali. Il petto gli si gonfiava senza alcun dolore, senza alcuna fitta pesante sotto lo sterno, e ad ogni respiro assaporava il gusto del mare che aveva davanti. Sì, perché dinnanzi a lui si stendeva, placido, un mare calmo e profumato, intento a riversare molto delicatamente piccolissime ondette con poca schiuma. Qua e là l'acqua dimenticava una conchiglia colorata, un granchietto arzillo. Di tanto in tanto un'onda un pochetto più grassa s'avvicinava ai piedi di quel giovane Fidia e allora egli si sentiva accolto nella morbida superficie sabbiosa. Si sentiva dannatamente sereno, di una serenità che nella sua vita non aveva mai conosciuto: più e più volte gli era capitato di fermarsi davanti al mare, ma mai aveva respirato il mare come in quel momento sognato. A ogni respiro accoglieva in sé dell'acqua salata, il petto si riempiva di quello strano profumo che odore non è. Fidia non poteva essere che felice, ma in un sogno, così come nella vita accade troppo spesso, quando uno è immerso in una simile gioia così straordinaria, è inevitabile che, per uno strano scherzo, per una curiosa e maledetta legge più antica del tempo, giunga rapidamente qualcosa a turbare tale gioia.
Fidia sollevò il capo, in sogno, e osservò un cielo che s'annuvolava in fretta: dov'erano stati solo azzurro e luce, ora precipitavano nuvole pesantissime e nere, nuvoloni di quelli che i contadini sperano in un'estate che si sta dimostrando troppo arida e secca. Da lontano, dove il mare era profondo e nero, iniziarono a correre onde sempre più aggressive, cavalloni via via più violenti. Presto s'alzarono meravigliosi e terrificanti muri di acqua scura, mentre dovunque iniziava a russare un vento possente e arrabbiato. Per salvarsi dalle acque che aggredivano con sempre maggior foga la riva, Fidia si ritirò in un punto più alto della spiaggia, allontanandosi intimorito dalle acque.
Un'enorme onda volle raccogliere in sé più acqua delle sue sorelle e allora la riva si prosciugò per qualche istante. Poi eccola, in una corsa folle e disperata, precipitarsi verso la costa, incontro a Fidia, completamente incapace di decisioni. Disperatamente, con quella disperazione che paralizza l'azione e il pensiero, osservò lontano, nella pancia di quel mostro liquido che s'avvicinava tra gli schizzi. Un uomo, un uomo come lui, vestito di un panno chiaro, con in mano una squadra e forse un compasso, o un filo a piombo. Era immobile e senza volto, quasi che attorno a lui non si stesse verificando un inferno di acqua. Pian piano l'onda iniziò a ripiegarsi su se stessa e a precipitare, inarrestabile. Lo schianto fu rumoroso e l'acqua si disperse fino ai piedi di Fidia, sfiorando le dita saldamente piantate nella duna. Quando l'acqua si ritirò verso la grande pancia del mare, Fidia scorse una scritta sul suolo: "Il mio nome è nessuno. La mia Patria tutti la conosceranno"
Un altro cavallone aveva iniziato la sua rabbiosa corsa contro la spiaggia e nuovamente Fidia riconobbe una figura, stavolta una donna. Una vecchia, quasi un cadavere in effetti; la pelle tirata e rinsecchita dal tempo inclemente. Un tempo, forse, era stata anche una donna bellissima, straordinariamente elegante e inspiegabilmente affascinante, magari anche avvolta da una strana aura di leggerezza; ora il suo corpo era decaduto, ma in lei resisteva una punta seducente di quella bellezza, quasi un lontanissimo profumo di quella grandezza che sicuramente l'era appartenuta. Ma nonostante quell'arcano richiamo di bello, le rughe, sulla pelle un po' scolorita, grigia, l'attraversavano come a fasci: sulla fronte creavano giochi particolari, strani disegnini tutti complessi e indecifrabili. Sul suo petto non trionfavano, gonfi e sani, i seni di una donna prosperosa: le mammelle le cadevano ormai svuotate. Quando l'onda si schiantò ai piedi di Fidia, questi lesse poche tristi parole: "Sono nuda, come pietra".
Gli schizzi, intanto, s'erano portati via quella figura così oscura e a poco a poco svaniva anche la scritta sulla sabbia. In alto mare si preparava una terza onda. Questa raccoglieva più acqua ancora delle sue sorelle, pareva decisa a superarle tutte con la sua forza e la sua maestà. Fidia sapeva di doversi aspettare che anche questa terza onda portasse nel suo grembo una di quelle stranissime figure, ma ciò che vide lo stupì in modo diverso da prima: nuovamente un uomo, ma stavolta vestito in maniera buffa, con un'espressione sul viso decisamente altezzosa e superba. Il mento, alto e affilato, pretendeva rispetto e adulazione e il suo sguardo sembrava obbligare chiunque a una devota reverenza. Sul mento di quest'antipatica figura si divertivano mille e mille riccioli di barba folta, tutta addobbata in una maniera particolare.
Stavolta, quando l'onda crollò su se stessa contro la spiaggia, nulla rimase scritto tra i granelli sottili.
Una quarta volta le acque si incresparono con violenza e una quarta volta dal mare si levò un enorme muro di acqua scura. Non emerse subito, da quella massa liquida, una figura chiara: un corpo di donna s'avvicinava, nell'acqua, e a poco a poco Fidia poté incontrare l'immagine di quell'essere. Portava un'acconciatura confusa ma non disordinata, estremamente stravagante: i suoi lunghi capelli neri erano accomodati in maniere folli, secondo un gusto assolutamente inconcepibile. Il suo visino, paffutello, sorrideva, soffocato da quell'accozzaglia di capelli intrecciati. Una lunga veste variopinta si scioglieva nell'acqua, perdendosi in mille e più sfumature, in mille e più forme: tutto quel popò di cose e colori era nauseante. "Sono inquieta - apparse lungo la spiaggia, una volta che l'onda fu precipitata a riva - e tutto esagera se stesso".
Doveva esserci una quinta onda, Fidia se lo sentiva e già aveva visto l'acqua ritirarsi verso l'orizzonte, ma stavolta non poté intravedere nessuna figura: l'onda s'avvicinò e quella che poi sarebbe forse stata un'altra immagine di donna lo abbracciò; si sentì annegare, preso da quel cavallone inaspettato e, agitandosi, il suo corpo riprese gli anni ch'aveva già vissuti. Aprì gli occhi e scorse sul soffitto un raggio di sole, flebile: il preludio dell'alba. Soddisfatto di aver finalmente visto la luce di quello che sentiva sarebbe stato il suo ultimo giorno, richiuse gli occhi, pronto a lasciarsi alle spalle le sue fatiche. Chissà che non s'augurasse di ritornare su quella spiaggia!
Ma la notte non gli concesse nuovamente il suo abbraccio e la morte non aveva ancora deciso a bussare alla porta di quella stanzetta stretta: Fidia riaprì gli occhi verso il soffitto e ormai erano molti i raggi di sole che s'affannavano a quella finestrella.
Mosse lo sguardo attorno e accanto si trovò la più meravigliosa opera d'arte che in tutti i suoi anni avesse mai plasmato: sua figlia.
In silenzio s'issò a sedere, appoggiando la sua schiena magra contro la parete: «Da quanto tempo sei qui, figlia mia?»
«Da molto, era appena l'alba»
«E perché mai non mi hai svegliato?»
«Dormivi, padre: non eri sereno, perché intuivo qualcosa di strano nel tuo sonno, ma dormivi e mi piaceva così tanto vederti finalmente sciolto dalle tue preoccupazioni»
«Ho sognato»
«Cos'hai sognato, padre mio?»
«Ho sognato l'amore della mia vita, l'ho sognato crescere e perdere il suo nome, l'ho visto invecchiare, ho visto l'amore mio perdersi in superbie e rimpianti, l'ho visto farsi elegante e farsi sciocco, l'ho visto farsi spirituale e l'ho visto arrogante, l'ho visto perfetto e l'ho visto sconosciuto … io sto morendo, figlia mia, e so che ciò che ho visto avverrà, so che diventerà tutto realtà ciò che io ho veduto in questo mio ultimo sogno, ma tu sappi una cosa, perché di tutto il sogno non credo di dover far parola a nessuno: tu sei mia figlia e, nonostante tutto ti ho amato anche più del mio primo amore, l'arte. Quando sarò nell'Ade veglierò su di te e su questo mio primo amore, l'arte: ho fiducia che tu saprai darmi soddisfazione anche quando le tre Moire avranno finalmente spezzato il mio filo; ho la consapevolezza che le maggiori preoccupazioni mi giungeranno da quel maledetto mio primo amore, il quale mi ha legato perennemente al suo giogo doloroso, eppure dolce! Tu non dovrai vivere ciò che vivrà l'amore mio, l'arte: lei subirà i potenti, si dovrà chinare a sempre nuovi signori e non sarà libera mai per tanto tempo; invero anche quando un giorno si crederà libera (di questo ne sono certo più di quanto sia certo che stamattina è sorto di nuovo il sole!), ma poi sarà ancora più schiava di quanto non lo fosse prima! Muoio, figlia mia: tu mi mancherai; l'arte sarà il mio tormento!»
Ella lo fissava con aria interrogativa: era forse un delirio?
«Figlia mia, quest'uomo, tuo padre non dovrà bere la cicuta della mia condanna: di' a tutti che mi dispiace d'aver rubato quell'oro. Il mio cuore è avido, umano … ti prego, fa' che tutti mi ricordino non per come sono morto, non per l'infamia ultima della mia vita, ma per essere stato fedele servitore, amante e sacerdote dell'arte»
«Padre - scoppiò in lacrime quella tenera fanciulla - io so che muori, so che non dovrai nemmeno ucciderti da te … ma so anche che morto tu, anche l'arte scenderà nell'Ade!»

«Non essere sciocca - fece Fidia con un sorriso paterno - io muoio: nonostante rinneghi se stessa, si muti, si trasformi, si penta e si rimpianga, l'arte vivrà! Sempre!»

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