martedì 9 febbraio 2016

LA CITTA' DELLE FATE

a M.
"nello spazio e nel tempo d'un sogno
è racchiusa la nostra breve vita"

In una stanza si riassumeva pressappoco l'intera sua vita: tutto di lui era raccolto in pochi metri quadrati, nascosto in pile e mucchi disordinati. Nei cassetti s'affollavano i giorni lontani, sugli scaffali erano infilati ricordi dimenticati, nell'armadio s'era perso qualcosa, scivolato per sbaglio tra una scatola con le magliette per l'estate e una sacca con dentro i costumi per la piscina. Per niente una vita lunga, anzi, una vita ancora da vivere, ma era tutta concentrata, tutta compressa in quel misero spazio strapieno.
Daria gli aveva più volte detto che doveva assolutamente mettere in ordine, fare pulizia, eliminare qualcosa da tutto quel macello: allora Francesco disponeva un po' meglio qualche libro, piegava qualche maglietta e la riponeva nella cassettiera, alleggeriva qualche pila di fogli su cui aveva scarabocchiato nei momenti di noia e così poteva dire di aver fatto qualcosa. Non gli riusciva di addentrarsi troppo a fondo in quella pulizia, quasi che temesse di incontrare una foto, un oggettino, una moneta, un foglietto che gli suscitasse una sensazione sgradita. Preferiva sentirsi circondato dalla sua storia, da tutta quella sua breve esistenza, protetto in quel suo guscio ch'era fatto di ricordi e momenti, istanti accumulatisi l'uno sull'altro, l'uno dopo l'altro, l'uno con l'altro.
Daria aveva avuto spesso il desiderio di entrare nella stanza del figlio con un grande sacco e liberare la camera di tutto quel ciarpame che Francesco s'ostinava a conservare, ma poi si fermava sempre quando magari vedeva il figlio fermo davanti alla libreria con in mano un foglietto ricuperato da un libro che per caso s'era mosso dalla massa: scorgeva nei suoi occhi il piacere di perdersi in qualche assurdo vicolo della memoria, l'osservava quasi commossa mentre questi incontrava, dopo chissà quanto tempo, un'antica esperienza. D'altronde lo sapeva, Daria, che suo figlio era, in fondo, un po' un poeta, perso nel suo mondo di immagini immaginate e realtà intime. A volte se ne dimenticava e pensava a lui come ad un figlio qualsiasi, ma poi s'accorgeva che fin da piccolo quel bambino le era parso diverso: non era la sensazione di tutte le madri, quando pensano, a ragione, che il proprio pargolo sia unico, no, era più una sensazione di inadeguatezza, quasi che di fronte a lui si sentisse inferiore, inadatta al compito che le spettava in quanto madre. Più e più volte s'era tormentata per riuscire a levarsi quella sensazione orribile, ma niente, doveva sempre rinunciare a tentare perché si ritrovava davanti quegli occhi così grandi, pieni di intelligenza e di pensieri, straripanti di domande e promesse.
Crescendo Francesco non aveva perso tutta quella curiosità, e ancora, ogni tanto, sua madre lo guardava cercando di non dare a vedere il suo profondo e sincero imbarazzo di fronte al figlio; ora, però, il bambino s'era assopito nell'animo di Francesco e il suo sguardo aveva imparato a non opprimere chi incontrava nella vita con quella sua forza immaginosa e pungente. Solo chi lo aveva conosciuto da piccolo e aveva avuto la bontà di ascoltare cosa aveva da dire quel bambinetto serbava ancora l'impressione di quegli occhi, e, oltre a sua madre, ben pochi avevano auto il coraggio di prestare ascolto alle parole di Francesco.
Con il tempo, quindi, Francesco s'era accorto di quel suo particolarissimo 'potere': aveva incontrato altri che avevano simili 'doti', ma, da attento osservatore, aveva notato che molti di loro sfruttavano quella loro forza per controllare, quasi ricattare chi c'era vicino. Ciò lo aveva profondamente colpito. Non indignato, perché in effetti s'era reso ben conto che non era un male, talvolta, riuscire ad evitare molte questioni grazie a certe 'tecniche'; ma quando aveva compreso quanto davvero potesse con quella sua capacità, con quel suo continuo indugiare in pensieri e dubbi, allora aveva deciso che non era bene permettere che tutto accadesse senza controllo, che non era giusto che tutti dovessero conoscerlo come un diverso cui bisogna, in qualsiasi modo accada, riconoscere un riguardo particolare. Così s'era assicurato un po' di viver lieto, un po' di persone che poteva considerare sue amiche, così aveva potuto vivere in mezzo alla gente, incontrare realtà differenti, aprirsi all'esperienza di vivere anche la propria vita, e non solo tutte quelle vite narrate nei libri o sognate nei giochi di un bambino solo con se stesso in una camera.
E solo aprendosi al mondo, solo 'controllando quel suo potere' era riuscito a iniziare a ricordare, finalmente in grado di accumulare emozioni sue, vissute proprio sulla sua pelle, sensazioni genuinamente provate in attimi vissuti.
Ma tanto cresceva il varco aperto sul mondo, altrettanto cresceva lo spazio occupato dai momenti di isolamento, quei momenti in cui si chiudeva in sé, con sé e con tutte quelle persone che avevano deciso tempo prima di lasciare ai posteri un qualche pensiero nascosto in qualche libro. Se da un lato la 'mondanità' lo inghiottiva sempre di più, ora che i diciott'anni lo avevano reso un giovane studente liceale, tutto preso nei suoi studi e costretto all'incontro di tante e tante persone, dall'altro lato quella stanzetta, chiusa dalla porta con un poster di Gauguin appeso, lo richiamava sempre più spesso, lo costringeva a momenti sempre più intensi di solitudine, lontano dalle voci e dal cianciare della gente.
Non odiava affatto la gente. Ma troppe volte si sentiva asfissiato da tutte quelle persone, non perché lo soffocassero con le loro parole, o perché lo assillassero con le loro preoccupazioni, ma perché tutti quegli incontri lo danneggiavano, gli scavavano dentro un vuoto sempre più grande: ogni incontro significava una storia che si raccontava, perché ogni persona, in fondo, portava con sé - Francesco se l'immaginava così - sulle proprie spalle una sorta di sacco di patate dalle dimensioni enormi, alto fino al cielo, tutto bitorzoluto; in quella iuta tutti i momenti si muovevano come pesci nella rete e, muovendosi, aggravavano ancora di più il peso che opprimeva il povero tapino. Tutto ciò lo urtava, non riusciva a non provare a prendersi qualcuna di quelle 'patate', magari una di quelle che più si muoveva con agitazione e foga, nel proprio sacco, così da alleggerire l'altro misero nel suo cammino. Ma tutto questo, si capisce, è deleterio, e ormai sulle spalle di Francesco gravavano troppe storie, troppi frammenti che non riusciva a placare in alcun modo. S'era fatto l'idea, però, che la solitudine e il silenzio lo aiutassero in una certa, strana, maniera, quasi che quel suo sacco fosse come un bambino, che quando è con altri discoli è anch'egli discolo, ma che quando è solo, preso in disparte, in una stanza silenziosa, lontano dai rumori del gioco frenetico, è un angioletto che si muove con tutta l'innocenza che si possa immaginare, e pare una creatura celeste per la semplicità con cui fa qualsiasi cosa.
Quindi si rintanava tra quelle quattro mura e, in silenzio, lasciava che tutto si calmasse, rallentasse. Prendeva un nuovo o un vecchio libro e riempiva la sua testa di nuovi pensieri e rinnovate emozioni che, però, non s'aggiungevano al peso delle fatiche altrui: ciò che gli veniva dai libri era qualcosa di suo soltanto che, stranamente, non gli pesava affatto.
Ormai era una ricerca continua dell'equilibrio perfetto in quella sua esistenza di ritiro e bagni di folla: stava ben attento che ogni incontro pieno di vita fosse subito riparato da un periodo di pace e silenzio, solitudine e isolamento. Non contava nient'altro che questo: la ricerca dell'equilibrio. Bastava che qualcosa, qualche piccola, minuscola, insignificante virgola fosse di troppo da una parte, non compensata dall'altra, e si scatenava la tragedia. A volte era una tragedia evidente, con un'esplosione manifesta in quella che molti avrebbero definito follia, ma che, per gentilezza, i più chiamavano stranezza; a volte, e forse questi momenti erano i peggiori, l'esplosione rimaneva celata al mondo, avveniva dentro e solo dentro, senza che nemmeno una piccola scintilla fuoriuscisse da lui: il tormento era allora molto più insopportabile perché tutto si concentrava nei limiti del suo cuoricino, che lui percepiva come vicino a infrangersi in mille bricioline finissime, come la sabbia di una spiaggia lontana talmente sottile da scivolare via.
In questi momenti nemmeno i libri aiutavano, nemmeno la musica, nemmeno l'arte. Solo il tempo, solo il passare delle ore tristi e dolorose riusciva a fare qualcosa.
E Francesco era proprio in una di queste ore straziate. Chino su se stesso, seduto sul suo letto con le mani sulle ginocchia ossute. Non osava muoversi per paura che qualsiasi movimento lo avrebbe costretto a piangere: sentiva le lacrime smaniose di crollare sulla sua pelle stanca. Il sole illuminava un parallelogramma di pavimento poco lontano dal suo piede sinistro e Francesco era quasi tentato di allungarsi fino a scaldarsi almeno quel piede. Ma non cedeva alla sua tentazione. Era troppo concentrato su come non crollare. La mattina l'aveva passata tutta in compagnia, tutta insieme a tanta e tanta gente sorridente, con voci squillanti e ben sveglie. Aveva sorriso e riso, s'era molto divertito anche lui, contento di conoscere persone nuove, incontrare tante giovani vittime che pensavano di scegliere il liceo classico dopo le medie. Ovviamente aveva scherzato con i suoi compagni, prima che arrivassero le famiglie, sul fatto di sconsigliare a tutti di iscriversi in un luogo simile, ma poi, altrettanto ovviamente, tutti avevano svolto il loro compito di buoni pubblicitari, tentando di raccontare solo le parti belle - purtroppo ben poche - di quel percorso tra Latino e Greco.
Ma dopo una mattinata simile ora era prosciugato, ogni forza lo aveva abbandonato e lo aveva lasciato lì, un corpo inabile a qualsiasi cosa, incapace anche di respirare: ogni volta che inspirava, sentiva come tante palline scivolargli lungo la gola, costringendolo a boccheggiare alla ricerca di altra aria, nuova aria, aria un po' meno crudele. Gli occhi sbarrati, intenti a non guardare nulla, erano gli occhi di una persona sconvolta, gli occhi di quelle persone che scoprono una verità straordinaria e impossibile che li lascia esterrefatti, muti, immobili. Dietro a quello sguardo, però, sussultavano tante gocce salate, pronte a precipitare in pianti disperati e straziati. Non pensava. In tutto questo Francesco non pensava, era semplicemente incantato, rapito in quella condizione così particolare. Non riusciva a pensare, ma, in fondo, non aveva neppure senso pensare: a cosa avrebbe potuto pensare? Su cosa avrebbe dovuto concentrarsi? Lui non s'accorgeva nemmeno di crollare in momenti simili: accadevano, e basta. Mentre gioiva con la gente, incontrava le loro storie e ascoltava le loro vite dimenticava cosa avrebbe significato quello che stava facendo, non ricordava che ogni parola di quegli istanti sarebbe 'ritornata', trasformata in un minuto da passare in quello stato orribile di solitudine e disperazione. Poi tornava a casa, c'era quel momento di silenzio ed ecco che precipitava in questa condizione, incapace di continuare a esistere. Solo dopo del tempo, solo dopo che la 'pena' era stata scontata, si ricordava cosa aveva provocato in lui quelle sensazioni, cosa lo aveva costretto a quegli attimi di dolore.
Per ora non pensava, immobile. Tutto attorno a lui continuava la sua esistenza, tutto attorno a lui fluiva con delicatezza, forse qualche crudeltà, l'atrocità dell'uomo colpiva oltre quelle quattro mura, ma lui non era nulla, anzi, era un vuoto.
Disperato, terribilmente disperato, ma senza alcunissima ragione, dunque ancor più terribilmente disperato.
Dall'alto lo guardavano due occhi, uno sguardo sensuale e morbido. Un corpo di donna mollemente adagiato su morbidi tessuti, nudo, fascinosamente sdraiato in una piccola riproduzione su una qualche rivista. Non gli importava: era insensibile alla bellezza, non poteva gioire, come avrebbe fatto altre volte, di fronte a quelle forme perfette, a quella delicatezza intrigante; non c'era nessuno a guardare quell'immagine, gli occhi di Francesco non avrebbero mai potuto alzarsi su quella bellezza: erano ciechi.
Squillò il telefono.
Chi poteva essere? Forse sua madre - di solito telefonava sempre a quell'ora del primo pomeriggio: un po' dopo che Francesco era rientrato, un po' prima che si mettesse a studiare dopo il pranzo (stavolta, tuttavia, Francesco non aveva affatto mangiato: tornato a casa s'era subito immobilizzato non appena aveva indossato i suoi vestiti di casa).
Doveva muoversi. Non poteva lasciar suonare il telefono a vuoto: nel caso fosse stata sua madre avrebbe probabilmente iniziato ad agitarsi, avrebbe iniziato a telefonare ai vicini, al nonno, alle zie, a tutti chiedendo notizie.
Fu un'impresa. Non appena si mosse di un millimetro, sentì il colpo rivoltarsi, nauseato da tutto, pronto a crollare su se stesso, soccombere sconfitto. S'obbligò alla ricerca del telefono che squillava riempiendo l'appartamento di trilli fastidiosi. Trovò il cordless sul comodino vicino all'ingresso, perso in mezzo a chiavi e volantini di qualche ristorante cinese o di un paio di pizzerie d'asporto.
«Pronto?» azzardò cercando di controllarsi, sedendosi contro lo stipite della porta del salotto.
«Ehi! Francesco» squillò la voce di sua madre dall'altro lato del telefono.
«Ciao» disse freddamente Francesco: le guance gli tremavano, le labbra gli tremavano, le palpebre gli tremavano. Tutto tremava e le sue labbra si mossero per abitudine, senza intenzione, impaurite.
«Il mio capo arriva tra poco:dovevo solo dirti che c'è del pollo in frigo, l'hai visto?»
«No»
«Non hai ancora mangiato?»
«No»
«Ma cos'hai? Stai bene? Stamattina è andata bene?»
«Sono stanco» e mentre diceva queste parole gli diventava sempre più difficile respirare: le lacrime pretendevano di crollare e rigargli il volto. Voleva piangere, non solo doveva, ma quasi ne aveva voglia, quasi avesse un atroce desiderio un po' perverso.
«Oggi pomeriggio rilassati un po'. Alla cena ci penso io. Ciao, mi raccomando!»
«Ciao» confermò, spento, a sua madre. Chiuse la chiamata e si lasciò scivolare lungo il pavimento del corridoio.
Ecco che iniziava quel momento tanto particolare: chiuse gli occhi e abbandonò tutti quei colori che lo circondavano, quel carosello di immagini vorticose. Inspirò profondamente e finalmente aveva davanti a lui solo l'oscurità.
Perché piangere? Che cosa lo spingeva a piangere in quei momenti? Insomma aveva riso, s'era divertito tutta la mattina, era stato un piacere, scherzare con i propri compagni, e adesso era così …
A volte aveva pensato che gravasse su di lui una qualche maledizione. Una strega, forse, gli aveva scagliato contro un certo incantesimo mostruoso, ma per quale ragione lo aveva fatto? Cosa aveva spinto quella megera a maledirlo in quel modo orribile? Quale cosa scontava con quella condizione?
Odiava quella sensazione: avrebbe preferito essere felice di essere felice con la gente, e invece no, perché qualsiasi cosa facesse nel mondo lo condannava a quelle lacrime.
Spesso aveva riempito pagine e pagine con interrogativi simili, tormentandosi alla ricerca di una qualche misera risposta. Non c'era, non c'era da nessuna parte quella stramaledettissima risposta: era condannato, non c'era nulla da fare per lui.
Nell'oscurità affiorò un'ombra. Un'ombra nel buio? Sì, un'ombra nel buio! Com'era possibile tutto ciò? Un'ombra, sì, un'ombra avanzava nell'oscurità: le lacrime erano adesso lontane e nell'oscurità di quegli occhi serrati non c'era spazio nemmeno per quelle solite lucettine (che potrei definire stroboscopiche!) scintillanti. In quella tenebra solo un'ombra, un volto che non ricordava di avere visto altrove, un volto che non conosceva, forse, ma che gli era familiare. Ma cosa vedeva? Non vedeva niente, in effetti; semplicemente sapeva che quello era un volto buono, che quella silhouette era uno sguardo gentile nella notte. Gentile? Sì, gentile.
A poco a poco scomparirono le domande.
Dopo un po' Francesco dimenticò anche l'ombra che era emersa nei suoi occhi serrati. Non c'era più niente: l'odio per quella sensazione terrificante, anche quello era scivolato via, e perché? Perché era evaporata la sensazione terrificante stessa! Se n'era andato tutto. Rimaneva solo lui.
Quello che si potrebbe definire "attacco" (di panico, o di qualsiasi altra cosa) era finito. Tutto finito. Le vertigini se n'erano andate e rimaneva solo un vaghissimo ricordo.
A poco a poco aprì gli occhi. Si sentì molto coraggioso. Era addirittura riuscito ad aprire gli occhi. Si sentiva la pelle attorno alle palpebre bruciare: sentiva sulla carne il rossore dell'irritazione, sentiva il rossore delle lacrime che si essiccavano all'aria. La fronte, che aveva stretto per cercare di non riaprire più gli occhi, gli dava fastidio. I denti li aveva stretti troppo forte e sentiva le gengive come perforate da mille chiodi. La mascella stretta era l'ennesimo dolore fisico di quel momento.
Quando ebbe aperto gli occhi scoprì di essere ancora in grado di respirare. Un filo di aria sbottò fuori dalle labbra strette e la bocca, impastata, ricominciò a liberarsi della troppa saliva, del troppo calore accumulati nel pianto.
Ritornavano, adesso, le domande: perché sentirsi così? Perché quell'insensato bisogno di piangere?
Con la forza che trovò sotto i polpacci - ce n'era ancora un po' laggiù - si tirò su in piedi e andò in camera sua; qui si sdraiò e guardò il soffitto. Ritrovò i ricordi di quando era bambino, di quando, addormentandosi, vedeva fluttuare sulla propria testa un mondo meraviglioso, fatto da creature leggere e profumate, simpatiche e gentili. Gentili? Sì, gentili. Quel mondo erano le sue fantasie, quelle fantasie che da tanto e tanto tempo si portava dietro, quelle fantasie che tanto amava e in cui continuava a rifugiarsi quando ce n'era bisogno.

Perché quell'insensato bisogno di piangere? Qui, nella città delle fate, Francesco non se lo chiedeva più, perché qui Francesco non piangeva.

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