MARTEDÌ sera
Perché si sentiva così? Cosa c'era nelle parole di
Alberto che l'aveva così tanto turbata? Come c'era riuscito quel deficiente a
farla sentire così … così … così! Non aveva detto nulla di sensato in realtà,
sapeva che di quello che quell'idiota aveva detto non c'era nulla che potesse
essere considerato seriamente. Eppure il suo cuore le doleva, dentro di sé
sentiva una sofferenza nuova, una nuova angoscia. Passavano i minuti e questo
dolore s'accresceva, senza bisogno di motivi esso s'ingrandiva dentro di lei e
sempre di più le pesava, le pesava come una grande, enorme e pesantissima
pietra posta sul petto: le sue costole pulsavano come se il corpo le si stesse
gonfiando oltre misura e premesse contro la gabbia toracica; il respiro le era
una fatica insopportabile e ogni volta che inspirava sentiva come una lama
scendere fin nello stomaco, incidere a poco a poco le sue viscere.
Nelle parole di Alberto non c'era verità, ma il suo
cuore sanguinava comunque, trafitto da quei pensieri così assurdi, e ora
Beatrice se ne stava lì, seduta sul pavimento della cucina, le luci di casa
spente, in silenzio, nella penombra della sera vicina.
Piangeva la povera ragazza, piangeva senza ragione
apparente, solo perché le lacrime pretendevano di uscire, la obbligavano a
sciogliersi in un pianto strozzato e faticoso, logorante. I singhiozzi
riempivano la casa deserta e rimbombavano dalla cucina fino nelle camere da
letto.
Come la casa era buia, attraversata qua e là da
qualche raggio dei lampioni della strada che riuscivano ad arrampicarsi fino a
quell'appartamento , così era buia la mente di Beatrice, persa a ricordare le
assurde parole che le erano state rivolte: gli occhi, cattivi, di Alberto le
erano davanti non appena chiudeva i suoi e riscopriva quell'espressione feroce
e schifata, quell'orrore e quella rabbia che dominavano sul volto del suo
coetaneo.
Piangeva e si disperava, accovacciata contro il
mobile, si stringeva le ginocchia al petto e con una mano ogni tanto si
asciugava il volto zuppo, trascinandola poi a scostare i capelli che le
cadevano sugli occhi. Ogni lacrima bruciava salata sulle guance e scivolava
lungo il collo perdendosi nella maglietta leggera. Faceva freddo in casa, ma il
suo corpo era bollente, scosso dai singhiozzi, agitato da quel pianto eterno
che continuava e continuava, ininterrotto.
Davanti ai suoi piedi, calzati in un paio di calde
calze turchesi, vibrava il telefono; lo schermo s'illuminava e apparivano i
riquadri luminosi mentre tutto il pavimento tremava. Beatrice non lo guardava,
non aveva le forze per prendere il telefono e scorrere i mille messaggi non
letti, lei piangeva e basta, lasciava che il suo corpo si agitasse contro il
pavimento, attraversata com'era dai singulti che non riusciva a spiegare.
Venivano i momenti in cui tentava di controllarsi,
di trattenere le lacrime e provare a riflettere, a comprendere perché mai
stesse piangendo, ma le lacrime erano più forti, erano troppo violente per lei
e allora di nuovo i suoi occhi si serravano nel pianto, le sue spalle si
stringevano nei singhiozzi.
Davvero quelle parole erano così importanti per il
suo cuore? Davvero quelle parole, che la mente sapeva venire dalla bocca e
dalla mente di uno stupido idiota, riuscivano ancora a ferire così gravemente
quel giovane cuore? Davvero lei era sconvolta solo per le parole di Alberto?
Che credesse anche lei a quelle parole?
Le lacrime col tempo finirono. Non finì la voglia
di piangere, la disperazione nel cuore non si estinse, ma ad un certo punto
dagli occhi non scesero più quelle gocce così salate e crudeli.
Allora Beatrice si ritrovò ancora scossa dai
singhiozzi, ancora sola in cucina, con il volto rosso e dolorante, attraversato
da mille rivoli. Da qualche tempo il telefono aveva smesso di scuotersi sul
pavimento.
Radunò tutte le sue forze, quelle poche che le
erano rimaste e s'incamminò verso il bagno, qui accese la luce e aprì l'acqua
fredda. Con le mani giunte si lavò la faccia pesta, lavò via quella sensazione
di sale, quell'appiccicaticcio che rimane dopo un pianto: l'acqua giungeva
sulle sue guance come manna, rinfrescava come rugiada e sembrava, per qualche
attimo, cancellare per sempre tutte quelle lacrime dalla memoria, affogandole
nel lavandino e trascinandole nelle tubature e nelle fogne. Ma anche quest'impressione
durava poco e subito dopo che si fu lavata si riscoprì fresca in volto, ma
straziata: nello specchio vedeva le sue guance rosse, i suoi occhi
esageratamente gonfi, rossi anch'essi, tremolanti e lucidi. Lungo il collo
qualche capello le si era appiccicato con l'acqua e formava uno strano disegno,
quasi una cicatrice tutta rovinata, tutta accartocciata sulla pelle.
Restò a lungo a osservare quel viso che non le
apparteneva, quell'estranea che non si sa da dove era uscita per rovinarla: era
lei che aveva pianto, era lei, quella dello specchio, che avevano colpito
quelle parole di Alberto. Ma anche Beatrice si sentiva diversa da qualche ora
prima. Se non si sentiva davvero lei ad aver pianto, sentiva tuttavia che il
suo cuore le si era come fermato, batteva solo perché il sangue non si fermasse
nelle vene, non batteva più per vivere.
Chiuse il rubinetto e spense la luce,
diligentemente, come le era stato insegnato nel rispetto della natura, perché
non si sprecasse nessuna delle risorse disponibili: non vi pensava nemmeno più,
erano diventati gesti incontrollati e inconsci.
Raggiunse di nuovo la cucina e, accesa la luce
sopra il tavolo, strappò un pezzo di carta dal bloc-notes del cassetto; prese
una penna e scrisse poche parole, parole di una ragazza comune, che non ha più
nulla da dire, che forse non è capace di dire più nulla.
Non ci mise molto. Quando finì la notte era
definitivamente arrivata e anche in strada la gente diminuiva, sempre meno
macchine correvano verso casa e a poco a poco il silenzio diventava il signore
di quella nuova parte del giorno.
Finito il suo lavoro, prese la penna e la ripose
esattamente dove l'aveva trovata, uscì dalla cucina e spense la luce.
Cosa pensava non lo sapeva, non poteva saperlo per
il semplice fatto che non pensava: nella sua mente si rincorrevano immagini a
caso, ognuna seguiva all'altra senza un nesso logico, ognuna riproponeva un
momento, un attimo del passato più recente.
Mentre camminava verso camera sua le si presentò
davanti il volto di Adriana, sorridente come sempre, felice, con quegli occhi
luminosi e allegri; le sue guance erano rosse per il freddo che aveva preso per
strada e il vento le aveva anche rotto un po' il labbro inferiore.
Arrivata a metà del corridoio la sua mente le
ricordò di quando aveva lasciato casa sua qualche giorno prima: era tutta
felice perché non avrebbe avuto nulla da fare a scuola visto che c'era
assemblea.
Davanti a camera sua svanì anche quest'immagine e
il suo cervello le offrì il volto di Alberto: rivide l'Alberto che aveva osservato
nell'aula magna, mentre parlava per la presentazione dei candidati; sorrideva
con quel suo sorriso ammaliatore - vomitevole! - e parlava con quel suo fare da
grande, da persona responsabile e capace.
Tutto questo non le muoveva nulla dentro, la lasciava
impassibile e indifferente: aveva gli occhi sbarrati mentre si muoveva
nell'oscurità della casa.
Svoltò in camera sua e accese la luce a basso
consumo che le avevano messo sul letto, quella che faceva tanta luce solo dopo
tanto tempo, che all'inizio, per quanto illumina male, sembra quasi una luce spenta nell'altra
spenta: inutile!
Attese in piedi sulla soglia che la lampadina
lavorasse, che la luce si facesse luminosa; a poco a poco una parte nuova della
camera veniva illuminata e a poco a poco Beatrice contemplava tutte le sue
cose, tutte quelle sciocchezze che aveva radunato: quel pupazzetto lo aveva
comprato solo perché era buffo, per un capriccio.
Quando finalmente tutto fu ricordato Beatrice si
mosse nella stanza, chiudendosi dietro la porta.
In quella stanza si era tante volte rifugiata dopo
una delle tante liti con suo padre, ci si era chiusa dentro con Adriana tante
altre; aveva pianto là dentro, aveva urlato, aveva riso, aveva scoperto
l'amore, aveva ascoltato musica, si era scatenata con il volume al massimo, si
era depressa ascoltando canzoni tristi; là dentro aveva fatto finta di studiare
tutte le volte che sua madre era in casa perché quel giorno non lavorava, aveva
dormito quasi tutte le notti da quando era in vita! Camera sua era forse il
luogo che le era più caro tra tutti quelli che aveva veduto: con la porta
aperta odiava quella casa che doveva condividere con quell'uomo sciocco e
ignorante e quella donna che si faceva tanto dolce, ma che non tentava nemmeno
di comprenderla; con la porta chiusa, invece, quel luogo le era più caro che il
suo stesso corpo: lì dimoravano i suoi ricordi, lì erano raccolti i suoi pochi,
miseri averi.
Ma non pensava a questo Beatrice, non si
abbandonava a sentimentalismi sciocchi e melensi: i suoi occhi, ancora lucidi,
scrutavano lontano, dietro ogni angolo, come alla ricerca di qualcosa di
nascosto.
Si muoveva senza ansia, con tranquillità, ma il suo
animo non era in pace: quella tranquillità, quella pacatezza non erano sintomi
di serenità, ma smascheravano un cuore ormai abbattuto, sconfitto, svuotato.
Finalmente ritrovò ciò che cercava: una piccola
busta di carta, una busta da lettere tutta spiegazzata, ripiegata quattro o
cinque volte e nascosta dietro un libro di quand'era bambina.
Sedette sul suo letto, il suo comodo e caldo letto,
stringendo in mano quel pezzo di carta. Pian piano la sua mente si faceva
leggera e dimenticava tutto quello che aveva sentito, tutto quello che aveva
pensato; i ricordi iniziarono a scomparire nell'oblio e ogni cosa scivolava verso
il nulla. Come una soffitta troppo piena di cianfrusaglie alla fine crolla
sulle belle stanze da letto che stanno sotto, così la sua memoria collassava su
se stessa, inghiottendo sé stessa in un vortice che annullava tutti i colori,
tutti i profumi, tutte le sensazioni.
In quel buco scomparivano anche gli ultimi giorni,
la voce di Alberto si affievoliva sommersa dal nulla, il viso amorevole di
Adriana affogava in quell'immensità di vuoto.
La lampadina ora era davvero accesa, illuminava con
la sua luce ecologica la stanza di una bambina, di una bambina che purtroppo
era cresciuta e aveva conosciuto un mondo strano che le aveva graffiato il
cuore: quel cuore, graffiato, aveva incominciato a perdere la sua linfa dalla
ferita e a poco a poco si era svuotato.
Prima che tutto il suo cuore fosse svuotato del
tutto, Beatrice si allungò sul letto e raggiunse il comodino: spense la luce.
Fu nel buio che riaccorsero i pensieri, tornarono
tutte le emozioni, tutte insieme, tutte violentemente tentarono di ripresentarsi
nel cuore di Beatrice, ma ormai il freddo la avvolgeva e a poco a poco il
freddo la anestetizzò, le anestetizzò anche questi pensieri ritornati, anche
queste emozione ritrovate. Non dovette nemmeno sforzarsi di non pensare.
… perché non è normale.
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