martedì 1 marzo 2016

SKIN-TIGHT JEANS - terza parte

MARTEDÌ mattina - 2
Salirono la scala che portava allo spiazzo davanti all'ingresso, strette l'una all'altra, insieme ad altre persone che s'affrettavano in cerca di un riparo, in cerca di qualche compagno già arrivato. Qualcuno entrava in atrio per prendere un caffè, gli altri erano cacciati fuori dai bidelli che ripetevano, con la loro proverbiale gentilezza «Non è ancora suonata! Finché non suona non potete stare qui!».
Troppa gente s'affollava stretta stretta sotto la grande tettoia che precedeva l'atrio. Tra l'intreccio di gambe sgocciolavano gli ombrelli fradici e i jeans erano tutti chiazzati qua e là. Qualcuno tentava di penetrare quell'ammasso informe e assordante di voci facendosi avanti come una talpa, prendendo, senza troppa educazione, le spalle del tizio davanti e spostandole di lato per riuscire a passare. Uno cadeva sull'altro e tutto era accompagnato da un «Oh!», un «Ehi!», o un «Ma'checcazz'?!?!».
Adriana e Beatrice non provarono nemmeno ad addentrarsi in quella jungla: non era fondamentale raggiungere i propri compagni; per ora erano loro due e bastavano, non avevano bisogno di salutare qualcun altro, di parlare di idiozie o di scuola con altre persone. C'erano l'una per l'altra e all'una importava soltanto quello che diceva, pensava, faceva l'altra. Si sistemarono in un angolino un po' più in là, sotto il loro ombrellino, appoggiate ad un muro che non era stato infradiciato dalla pioggia.
Mancava qualche minuto, forse addirittura una decina, al suono della beneodiata campanella d'inizio.
La gente parlava e sbadigliava, tutti erano seccati da quella nuova giornata, iniziata già tremendamente grazie alla pioggia che li perseguitava da sabato mattina.
Alberto, poco più in là, ben protetto dalla tettoia sotto cui era arrivato grazie alle sue larghe spalle non troppo gentili, era con i suoi amici, con i cazzoni che ormai erano un po' una seconda famiglia di idioti con cui diceva, e a volte faceva, solo tante e tante scemate. Ridevano perché qualcuno aveva appena raccontato una propria, ennesima, figura di merda davanti a qualcuno. C'era qualcosa di pacifico in quella situazione: tutti erano sereni nella loro demenza, una demenza decisamente notevole, ma assolutamente piacevole; ridevano e scherzavano, che altro c'era da fare? La scuola era per loro un obbligo, certo, quindi che cosa potevano fare, oltre che insultare i professori e prenderli in giro? Erano soddisfatti, senza saperlo, di come riuscivano a superare ogni giorno, per quanto palloso.
Alberto sapeva di poter volere anche qualcosa di più, a volte, di quell'idiozia demenziale, ma aveva imparato che non era poi così male viver fa cazzone: troppe domande, troppi dubbi erano forse buoni per qualcuno che voleva scrivere libri, o magari per qualcuno che voleva fare conferenze per studenti annoiati costretti dai professori, ma per stare bene con il mondo, per inserirsi bene tra la gente, tra la maggior parte della gente, non si potevano avere troppi dubbi e troppe domande; bastava fare, fare quello che facevano tutti, magari non proprio tutte le scemate più assurde, ma assecondare quelle piccole cretinate, condividerle.
Smise di ridere con un grande sforzo: era proprio uno sfigato quell'altro! D'improvviso qualcuno lo urtò da dietro, per sbaglio, magari inciampando: non importava, la reazione doveva per forza essere quella aggressiva e irata; mancò poco che ringhiò contro chiunque ci fosse dietro di lui.
Ricomponendosi, tornando ad ascoltare altre idiozie, diede uno sguardo tutt'attorno, squadrando le ragazzine conciate in maniere improponibile, quelle che sembravano delle bambine appena uscite dalle elementari gestite dalle suore, oppure quel paio di ragazze sempre vestite come se dovessero presentarsi ad un provino per girare un film porno di scarsissima qualità. Quella di destra aveva decisamente un paio di tette meravigliose: sode e alte. "Chissà quanti voti di matematica s'è meritata con quelle!".
C'erano quei ragazzini sfigatini che tenevano i jeans sotto le ascelle, stretti da una cintura di cuoio che nemmeno i loro nonni avrebbero portato a quel modo! Un gruppo di strani era a parlare - ad Alberto sembrava davvero che avessero una lingua tutta loro, completamente incomprensibile a chiunque altro! - poco fuori dalla tettoia, ognuno sotto il proprio ombrello scuro, con quell'aria da complotto che s'erano creati tutt'attorno. Vicino al grande vaso pieno di sabbia per i mozziconi di sigaretta, poi, c'erano quelli che facevano i bravi fumatori: forse erano anche consapevoli che non avrebbero dovuto fumare e, siccome, nonostante tutto, non riuscivano a rinunciare alla loro dose di tabacco giornaliera, preferivano dar l'impressione di essere, comunque, beneducati e a modo, e quindi gettavano i mozziconi nella sabbia o addirittura - e questi erano quelli che forse di rimorsi ne aveva più di tutti! - li spegnevano nella sabbia e poi li gettavano nel cestino a qualche passo.
Più in là c'erano due ragazze sotto un ombrellino, appoggiate al muro.
Alberto non riusciva a sopportare: ogni volte che le vedeva ...
Gli altri quando le vedevano iniziavano a ridere e prendere in giro o, peggio, iniziavano a fantasticare su cosa facevano insieme quelle due quando erano sole, svestite. Lui no, lui non sopportava quelle due, le avrebbe volentieri cancellate con una gomma di due metri per un metro e mezzo, levandosele per sempre di torno.
Non sapeva perché, ma non poteva sopportarle, non riusciva  a trattenersi quando le vedeva insieme, anche quando non si baciavano, anche quando non si abbracciavano in quel modo che non dovrebbe essere il modo in cui due ragazze s'abbracciano … il solo vederle da lontano, anche quando erano sole, era una cosa fastidiosa, quasi dolorosa per lui. Non gli avevano fatto assolutamente niente, ma non poteva … no, non poteva rimanere lì mentre quelle due stavano laggiù insieme, come se niente fosse: ora si baciavano anche! No, non poteva star fermo e iniziò ad avanzare attraverso la gente che, al suo passare, s'apriva come il Mar Rosso, ben consapevole che Alberto aveva dei modi non esattamente delicati, nonostante difficilmente fosse manesco.
I suoi amici rimasero stupiti quando si videro questo qui partire verso chissà dove e lo seguirono.
Intanto Beatrice e Adriana si baciavano, un ultimo bacio prima di entrare in quel postaccio dove era meglio evitare certi comportamenti, soprattutto davanti a bidelle e professori. Quell'ultimo bacio era un po' un rito per loro, era come l'ultimo respiro prima di immergersi in una lunga apnea sottomarina, era l'unica carica che permetteva loro d'intraprendere con un po' meno abbattimento le ore noiose di lezione. Lì tutte e due si scambiavano tutte le loro passioni, in quelle labbra si sfioravano anche i loro giovanissimi cuori innamorati e a vicenda si donavano un po' di serenità: poca e fuggevolissima serenità, ma graditissima ad entrambe, perché entrambe sentivano fin troppo bene il peso di quel bacio dato davanti ad altri.
Adriana, delle due, era quella che potrebbe definirsi 'la più forte': delle due era lei quella che consolava di più l'altra; Beatrice era più delicata, più incerta e spaventata dal mondo, invece Adriana s'era stufata di chinare il capo e da qualche tempo s'era fatta battagliera … ma, nonostante, il suo vigore e la sua determinazione, aveva anche lei bisogno di quei baci, perché era da lì, dall'amore di quella ragazza che ora le stava così vicina che veniva tutto quel coraggio!
Beatrice, d'altra parte, non poteva più fare a meno di quei baci dati prima di una mattinata in mezzo ad estranei: i suoi compagni le parevano giorno dopo giorno più lontani, separati da lei da un sacco di giudizi detti sottovoce mentre lei usciva dalla classe per andare in bagno al cambio dell'ora, sussurrati tra amiche durante le interrogazioni, mentre lei si trovava relegata alla cattedra, intenta a fingere d'interessarsi all'interruzione che aveva fatto il prof alla sua risposta … Non la odiavano tutti, questo non lo pensava, ma dopo cinque anni iniziava ad essere stufa, cominciava ad odiare quel dannato banco in terza fila vicino alla finestra e al termosifone. Forse loro nemmeno se ne accorgevano, non erano nemmeno consapevoli di quello che facevano e dicevano, ma a lei tutto appariva fin troppo chiaro e ormai era satura, non riusciva più a tollerare, a far finta di niente e passare sopra ad ogni cosa. Aveva passato l'ultimo anno soprattutto - cioè da quando si era messa con Adriana - a tapparsi gli orecchi e gli occhi per superare ogni giornata senza troppa rabbia e la forza di ignorare tutto le veniva da quell'ultimo bacio dato prima della campanella, prima di separarsi per andare ognuna nella propria aula.
Proprio mentre si stavano separando s'accorsero entrambe che qualcuno le fissava, un paio di passi più in là. Che cosa voleva? Era sempre il solito bastardo che quando le fissava, senza espressione alcuna.
Alberto fermo, immobile.
Adriana e Beatrice lo avevano già conosciuto, non di persona, ma qualcuno aveva detto loro certe cose che lui diceva: era peggio degli altri, quello là; tutti scherzavano quando le vedevano, ridevano di loro, fantasticavano o le guardavano con un po' di schifo; lui invece no, lui le guardava con uno sguardo strano, in qualche modo terribile, che riusciva a mettere a disagio anche Adriana - anche se cercava di nasconderlo a Beatrice.
Quello sguardo era qualcosa di incomprensibile, quando c'era quell'espressione sul volto di Alberto si preoccupavano anche i suoi amici cazzoni, dimenticando il loro status di idioti menefreghisti. Il suo viso si faceva come annullato, perdeva ogni espressione e le fissava: dentro gli rodeva uno schifo, un rifiuto, ma anche un odio, che però non riusciva a dimostrare come chiunque altro, lui si sentiva svuotato quando vedeva quell'orribile spettacolo.
La campanella suonò e quel gregge di giovani iniziò ad entrare nella scuola, scontrandosi sulle porte.
Alberto rimaneva fermo e immobile.
Beatrice sentiva dentro di lei crescere una nuova sensazione: non riusciva a sopportare le facce di quelli che le guardavano ridendo, sogghignando e ora si ritrovava davanti a quel tizio demente e ai suoi amici che fino a pochi secondi prima, probabilmente, le stavano prendendo in giro con la loro proverbiale eleganza! Che cosa cavolo voleva? Perché le guardava così? Non aveva nulla di meglio da fare? Non doveva pensare alla prossima ragazza che si sarebbe fatto quel pomeriggio? Non doveva discutere con qualche amico della leggendaria partita che quattro cretini avevano giocato la sera prima in un campetto chissà dove? Possibile che dovesse rompere proprio a loro?
Alberto le guardava con quella sua aria vuota, inconsistente. Tutt'attorno la gente diminuiva e le due ragazze erano immobilizzate appoggiate al muro.
«Che cazzo guardi?!» sbottò alla fine Adriana, decisamente stufa di quel tricheco che le fissava, ma ancor più seccata dalla strana sensazione che era in grado di fargli provare.
«Non parlare così, troia! - intervenne uno dei cretini, convinto, incoscientemente, di poter evitare, con quel fare così gentile, di dover iniziare certe discussioni - Dai, Alb, entriamo e lasciamo perdere 'ste qua!»
«Sì ecco, andatevene ch'è meglio!» rincarò Adriana.
«Oh, la devi finire! - parlò, finalmente Alberto, con un tono che pretendeva di essere 'superiore' - Chi cazzo ti credi di essere? Non è che se tu non sei normale allora puoi fare e dire quello che ti pare: cerca di stare calmina!»
Iniziò così un'assurda discussione, condita e farcita da insulti: Alberto si comportava come se fosse un grande saggi sicuro di tutto ciò che diceva, teneva un tono basso e profondo, nonostante tutta la crudeltà che metteva in ogni parola; Adriana non riusciva a trattenere il sangue nelle vene e dava libero sfogo a tutta la sua rabbia; Beatrice rimaneva muta, vicina ad Adriana, incapace di aprire bocca, incapace di muovere un muscolo, non spaventata, piuttosto … annullata!

Intervenne una bidella: «Cosa fate qui?: è ora di entrare!»

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