MARTEDÌ mattina - 2
Salirono
la scala che portava allo spiazzo davanti all'ingresso, strette l'una
all'altra, insieme ad altre persone che s'affrettavano in cerca di un riparo,
in cerca di qualche compagno già arrivato. Qualcuno entrava in atrio per
prendere un caffè, gli altri erano cacciati fuori dai bidelli che ripetevano, con
la loro proverbiale gentilezza «Non è ancora suonata! Finché non suona non
potete stare qui!».
Troppa
gente s'affollava stretta stretta sotto la grande tettoia che precedeva
l'atrio. Tra l'intreccio di gambe sgocciolavano gli ombrelli fradici e i jeans
erano tutti chiazzati qua e là. Qualcuno tentava di penetrare quell'ammasso
informe e assordante di voci facendosi avanti come una talpa, prendendo, senza
troppa educazione, le spalle del tizio davanti e spostandole di lato per
riuscire a passare. Uno cadeva sull'altro e tutto era accompagnato da un «Oh!»,
un «Ehi!», o un «Ma'checcazz'?!?!».
Adriana e
Beatrice non provarono nemmeno ad addentrarsi in quella jungla: non era
fondamentale raggiungere i propri compagni; per ora erano loro due e bastavano,
non avevano bisogno di salutare qualcun altro, di parlare di idiozie o di
scuola con altre persone. C'erano l'una per l'altra e all'una importava
soltanto quello che diceva, pensava, faceva l'altra. Si sistemarono in un
angolino un po' più in là, sotto il loro ombrellino, appoggiate ad un muro che
non era stato infradiciato dalla pioggia.
Mancava
qualche minuto, forse addirittura una decina, al suono della beneodiata campanella d'inizio.
La gente
parlava e sbadigliava, tutti erano seccati da quella nuova giornata, iniziata
già tremendamente grazie alla pioggia che li perseguitava da sabato mattina.
Alberto,
poco più in là, ben protetto dalla tettoia sotto cui era arrivato grazie alle
sue larghe spalle non troppo gentili, era con i suoi amici, con i cazzoni che ormai
erano un po' una seconda famiglia di idioti con cui diceva, e a volte faceva,
solo tante e tante scemate. Ridevano perché qualcuno aveva appena raccontato
una propria, ennesima, figura di merda davanti a qualcuno. C'era qualcosa di
pacifico in quella situazione: tutti erano sereni nella loro demenza, una
demenza decisamente notevole, ma assolutamente piacevole; ridevano e
scherzavano, che altro c'era da fare? La scuola era per loro un obbligo, certo,
quindi che cosa potevano fare, oltre che insultare i professori e prenderli in
giro? Erano soddisfatti, senza saperlo, di come riuscivano a superare ogni
giorno, per quanto palloso.
Alberto
sapeva di poter volere anche qualcosa di più, a volte, di quell'idiozia
demenziale, ma aveva imparato che non era poi così male viver fa cazzone:
troppe domande, troppi dubbi erano forse buoni per qualcuno che voleva scrivere
libri, o magari per qualcuno che voleva fare conferenze per studenti annoiati
costretti dai professori, ma per stare bene con il mondo, per inserirsi bene
tra la gente, tra la maggior parte della gente, non si potevano avere troppi
dubbi e troppe domande; bastava fare, fare quello che facevano tutti, magari
non proprio tutte le scemate più assurde, ma assecondare quelle piccole
cretinate, condividerle.
Smise di
ridere con un grande sforzo: era proprio uno sfigato quell'altro! D'improvviso
qualcuno lo urtò da dietro, per sbaglio, magari inciampando: non importava, la
reazione doveva per forza essere quella aggressiva e irata; mancò poco che
ringhiò contro chiunque ci fosse dietro di lui.
Ricomponendosi,
tornando ad ascoltare altre idiozie, diede uno sguardo tutt'attorno, squadrando
le ragazzine conciate in maniere improponibile, quelle che sembravano delle
bambine appena uscite dalle elementari gestite dalle suore, oppure quel paio di
ragazze sempre vestite come se dovessero presentarsi ad un provino per girare
un film porno di scarsissima qualità. Quella di destra aveva decisamente un
paio di tette meravigliose: sode e alte. "Chissà quanti voti di matematica
s'è meritata con quelle!".
C'erano
quei ragazzini sfigatini che tenevano i jeans sotto le ascelle, stretti da una
cintura di cuoio che nemmeno i loro nonni avrebbero portato a quel modo! Un
gruppo di strani era a parlare - ad Alberto sembrava davvero che avessero una
lingua tutta loro, completamente incomprensibile a chiunque altro! - poco fuori
dalla tettoia, ognuno sotto il proprio ombrello scuro, con quell'aria da
complotto che s'erano creati tutt'attorno. Vicino al grande vaso pieno di
sabbia per i mozziconi di sigaretta, poi, c'erano quelli che facevano i bravi
fumatori: forse erano anche consapevoli che non avrebbero dovuto fumare e,
siccome, nonostante tutto, non riuscivano a rinunciare alla loro dose di
tabacco giornaliera, preferivano dar l'impressione di essere, comunque,
beneducati e a modo, e quindi gettavano i mozziconi nella sabbia o addirittura
- e questi erano quelli che forse di rimorsi ne aveva più di tutti! - li
spegnevano nella sabbia e poi li gettavano nel cestino a qualche passo.
Più in là
c'erano due ragazze sotto un ombrellino, appoggiate al muro.
Alberto
non riusciva a sopportare: ogni volte che le vedeva ...
Gli altri
quando le vedevano iniziavano a ridere e prendere in giro o, peggio, iniziavano
a fantasticare su cosa facevano insieme quelle due quando erano sole, svestite.
Lui no, lui non sopportava quelle due, le avrebbe volentieri cancellate con una
gomma di due metri per un metro e mezzo, levandosele per sempre di torno.
Non sapeva
perché, ma non poteva sopportarle, non riusciva
a trattenersi quando le vedeva insieme, anche quando non si baciavano,
anche quando non si abbracciavano in quel modo che non dovrebbe essere il modo
in cui due ragazze s'abbracciano … il solo vederle da lontano, anche quando
erano sole, era una cosa fastidiosa, quasi dolorosa per lui. Non gli avevano
fatto assolutamente niente, ma non poteva … no, non poteva rimanere lì mentre
quelle due stavano laggiù insieme, come se niente fosse: ora si baciavano
anche! No, non poteva star fermo e iniziò ad avanzare attraverso la gente che,
al suo passare, s'apriva come il Mar Rosso, ben consapevole che Alberto aveva
dei modi non esattamente delicati, nonostante difficilmente fosse manesco.
I suoi
amici rimasero stupiti quando si videro questo qui partire verso chissà dove e
lo seguirono.
Intanto
Beatrice e Adriana si baciavano, un ultimo bacio prima di entrare in quel
postaccio dove era meglio evitare certi comportamenti, soprattutto davanti a
bidelle e professori. Quell'ultimo bacio era un po' un rito per loro, era come
l'ultimo respiro prima di immergersi in una lunga apnea sottomarina, era
l'unica carica che permetteva loro d'intraprendere con un po' meno abbattimento
le ore noiose di lezione. Lì tutte e due si scambiavano tutte le loro passioni,
in quelle labbra si sfioravano anche i loro giovanissimi cuori innamorati e a
vicenda si donavano un po' di serenità: poca e fuggevolissima serenità, ma
graditissima ad entrambe, perché entrambe sentivano fin troppo bene il peso di
quel bacio dato davanti ad altri.
Adriana,
delle due, era quella che potrebbe definirsi 'la più forte': delle due era lei
quella che consolava di più l'altra; Beatrice era più delicata, più incerta e
spaventata dal mondo, invece Adriana s'era stufata di chinare il capo e da
qualche tempo s'era fatta battagliera … ma, nonostante, il suo vigore e la sua
determinazione, aveva anche lei bisogno di quei baci, perché era da lì,
dall'amore di quella ragazza che ora le stava così vicina che veniva tutto quel
coraggio!
Beatrice,
d'altra parte, non poteva più fare a meno di quei baci dati prima di una
mattinata in mezzo ad estranei: i suoi compagni le parevano giorno dopo giorno
più lontani, separati da lei da un sacco di giudizi detti sottovoce mentre lei
usciva dalla classe per andare in bagno al cambio dell'ora, sussurrati tra
amiche durante le interrogazioni, mentre lei si trovava relegata alla cattedra,
intenta a fingere d'interessarsi all'interruzione che aveva fatto il prof alla
sua risposta … Non la odiavano tutti, questo non lo pensava, ma dopo cinque
anni iniziava ad essere stufa, cominciava ad odiare quel dannato banco in terza
fila vicino alla finestra e al termosifone. Forse loro nemmeno se ne
accorgevano, non erano nemmeno consapevoli di quello che facevano e dicevano,
ma a lei tutto appariva fin troppo chiaro e ormai era satura, non riusciva più
a tollerare, a far finta di niente e passare sopra ad ogni cosa. Aveva passato
l'ultimo anno soprattutto - cioè da quando si era messa con Adriana - a
tapparsi gli orecchi e gli occhi per superare ogni giornata senza troppa rabbia
e la forza di ignorare tutto le veniva da quell'ultimo bacio dato prima della
campanella, prima di separarsi per andare ognuna nella propria aula.
Proprio
mentre si stavano separando s'accorsero entrambe che qualcuno le fissava, un
paio di passi più in là. Che cosa voleva? Era sempre il solito bastardo che
quando le fissava, senza espressione alcuna.
Alberto
fermo, immobile.
Adriana e
Beatrice lo avevano già conosciuto, non di persona, ma qualcuno aveva detto
loro certe cose che lui diceva: era peggio degli altri, quello là; tutti
scherzavano quando le vedevano, ridevano di loro, fantasticavano o le
guardavano con un po' di schifo; lui invece no, lui le guardava con uno sguardo
strano, in qualche modo terribile, che riusciva a mettere a disagio anche
Adriana - anche se cercava di nasconderlo a Beatrice.
Quello
sguardo era qualcosa di incomprensibile, quando c'era quell'espressione sul
volto di Alberto si preoccupavano anche i suoi amici cazzoni, dimenticando il
loro status di idioti menefreghisti. Il suo viso si faceva come annullato,
perdeva ogni espressione e le fissava: dentro gli rodeva uno schifo, un
rifiuto, ma anche un odio, che però non riusciva a dimostrare come chiunque
altro, lui si sentiva svuotato quando vedeva quell'orribile spettacolo.
La
campanella suonò e quel gregge di giovani iniziò ad entrare nella scuola,
scontrandosi sulle porte.
Alberto
rimaneva fermo e immobile.
Beatrice
sentiva dentro di lei crescere una nuova sensazione: non riusciva a sopportare
le facce di quelli che le guardavano ridendo, sogghignando e ora si ritrovava
davanti a quel tizio demente e ai suoi amici che fino a pochi secondi prima,
probabilmente, le stavano prendendo in giro con la loro proverbiale eleganza!
Che cosa cavolo voleva? Perché le guardava così? Non aveva nulla di meglio da
fare? Non doveva pensare alla prossima ragazza che si sarebbe fatto quel
pomeriggio? Non doveva discutere con qualche amico della leggendaria partita
che quattro cretini avevano giocato la sera prima in un campetto chissà dove?
Possibile che dovesse rompere proprio a loro?
Alberto le
guardava con quella sua aria vuota, inconsistente. Tutt'attorno la gente
diminuiva e le due ragazze erano immobilizzate appoggiate al muro.
«Che cazzo
guardi?!» sbottò alla fine Adriana, decisamente stufa di quel tricheco che le
fissava, ma ancor più seccata dalla strana sensazione che era in grado di
fargli provare.
«Non
parlare così, troia! - intervenne uno dei cretini, convinto, incoscientemente,
di poter evitare, con quel fare così gentile, di dover iniziare certe
discussioni - Dai, Alb, entriamo e lasciamo perdere 'ste qua!»
«Sì ecco,
andatevene ch'è meglio!» rincarò Adriana.
«Oh, la
devi finire! - parlò, finalmente Alberto, con un tono che pretendeva di essere
'superiore' - Chi cazzo ti credi di essere? Non è che se tu non sei normale
allora puoi fare e dire quello che ti pare: cerca di stare calmina!»
Iniziò
così un'assurda discussione, condita e farcita da insulti: Alberto si
comportava come se fosse un grande saggi sicuro di tutto ciò che diceva, teneva
un tono basso e profondo, nonostante tutta la crudeltà che metteva in ogni
parola; Adriana non riusciva a trattenere il sangue nelle vene e dava libero
sfogo a tutta la sua rabbia; Beatrice rimaneva muta, vicina ad Adriana, incapace
di aprire bocca, incapace di muovere un muscolo, non spaventata, piuttosto …
annullata!
Intervenne
una bidella: «Cosa fate qui?: è ora di entrare!»
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