giovedì 30 ottobre 2014

LA PIETA'

‘Adesso posso sedermi e ricordare, richiamare alla mente tutto quello che ho visto laggiù, in queste straordinarie settimane che mi è stato concesso trascorrere in un paese così particolare.
Oltre alla cultura dell’accoglienza e alle evidenti disparità di stili di vita c’è qualcosa d’altro che mi porto dietro: una ricordo intimo  e personale, assolutamente profondo, assolutamente spirituale.
Appena arrivammo, dopo aver cambiato la nostra moneta in quella locale, ci mettemmo in viaggio in pullman. Così ci sfilò davanti la straordinaria varietà di questa città (paradigma di tutto il resto del paese) mostrandoci le baracche di soli mattoni e cemento, le cisterne – caratteristiche – di plastica blu, gli altissimi grattacieli che sfidano i cieli e le leggi di gravità, le grandi strade lungo il mare costeggiate di alte palme che si scuotono al vento oceanico, e tutto il resto …
Non posso dire l’emozione di essere in mezzo a quel mondo così lontano dal nostro. Ma non è questo il ricordo intimo e spirituale …
Arrivammo in uno dei quartieri più ‘in’ , con alti condomini con portiere, con finestre oscurate  e vetri antiproiettile, con stucchi attorno agli infissi e fiori colorati sui davanzali.
Mentre ci trovavamo in coda lungo una di queste vie straordinariamente piene di ricchezza, oltre che di vita,  il mio occhio cadde su un gruppo informe appoggiato ad una vetrina luminosa: coperte e sacchi, scatoloni e cartone strappato, tutto ammassato apparentemente alla rinfusa.
Sembrava immondizia.
Ebbene immondizia non era, ovviamente.
A poco a poco il cumulo amorfo iniziò a muoversi, qui e là scivolavano pezzi di giornale e pubblicità di una telefonia.
D’improvviso una mano, un piede, una testa spuntarono da sotto quelle ‘macerie’, poi un’altra mano, un altro piede, un’altra mano, un altro piede, un’altra testa e infine due bambini furono finalmente liberi da quella sporcizia, con i capelli scompigliati per la dormita – pessima – che si erano concessi, o meglio, cui erano stati obbligati dalla fame. Un bambino aveva uno strano segno su una guancia, forse una cicatrice, forse una crosta di pizza che gli si era appiccicata.
Ricordo il colore dei piedi: neri, di un nero indescrivibile, di un nero che non ho mai visto, uno stato che mi è sconosciuto (che lo era prima d’allora) e che mi pareva chiaramente sporco!, ma in un modo a  me del tutto nuovo.
Ricordo che l’altro bambino tentò di alzarsi, tremante, ma, tremante, ricadde a fianco del suo compagno, appoggiando pesantemente la testa sulla sua spalla ossuta e nuda.
Poco dopo questa vista ripartimmo col nostro pullman per fermarci nuovamente pochi attimi dopo.
Un altro assurdo ammasso di immondizia, accumulata a mo’ di comodo giaciglio, che di comodo aveva poco e nulla, anzi, nulla assolutamente!
Non due bambini sepolti nella sporcizia, ma una donna seduta rassegnatamente fissando il vuoto, allungando i piedi per il largo marciapiede, ignorando se qualcuno per sbaglio le inciampava dentro.
In grembo teneva una scatola di quelle in cui si mettono sei bottiglie di vino in piedi, ma ormai tale scatola era consumata e i bordi alti erano piegati e consumati.
Solo dopo molto mi resi conto di cosa contenesse quella scatola: un bimbo.
Un piccolo.
Una creatura fragile e innocente.
Un bimbo.
Mi faceva strano quella pelle così delicata confrontata alla ruvida mano sporca della madre.
Mi sembrò un’immagine commovente, anche l’altra mi parse una scena da lacrime, eppure non piansi, non versai nemmeno la minima lacrima.

Semplicemente in me montò la rabbia.’

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