giovedì 7 maggio 2015

CONSIDERAZIONI ATTORNO ALLA LETTURA

È davvero un bene che tutti noi ci si disponga all'ascolto di quello che coloro che sono venuti prima di noi hanno avuto da dire, mio caro Dario, e non credere che lo dica per l'abitudine in cui sono cresciuto, perché ho sentito giorno dopo giorno ripetermi che dovevo comprendere le mie radici per crescere, che dovevo essere ben saldo sul mio passato per ergermi verso il futuro con più temerità; piuttosto, all'inizio, odiavo l'idea di dovermi affidare a qualcuno, detestavo il pensiero di dover seguire delle tracce già percorse, di dovermi fermare e osservare ciò che mi aveva preceduto. In me v'era quella veemenza giovanile, quella foga che tutto spazza via e pensa che tutto debba soccombere al mio passaggio, che ogni cosa, ogni persona sia obbligata a chinare il capo e baciare la terra che ho calpestata e spazzarmi quella che il mio piede non ha ancora sfiorata. C'era questa pretesa di superiorità e perfezione, come se io, solo, nuovo avessi capito tutto e tutti gli altri fossero degli sciocchi illusi e folli, cretini che non avevano capito assolutamente nulla di ciò ch'era in realtà.
Rifiutavo, dunque, quegli insegnamenti e deridevo tutti, convinto di potermi muovere da solo, di poter affrontare ogni cosa al meglio senza necessità di sostegno alcuno. Sentivo in me la forza, il vigore, la prepotenza del mio corpo giovane e agile, mi sentivo potente!
Inciampai un giorno di ormai sette anni fa, sette anni che, per una vita di ventenne com'è la mia, sono quasi metà della vita stessa. Ero borioso e superbo, tronfio e supponente ero in grado di contestare ogni cosa, ero capace di opporre ad ogni affermazione la sua più perfetta negazione, negazione inattaccabile e incrollabile: ogni discussione era un tutti contro di me, o, meglio, un me contro tutti. Amavo discutere, lo scontro, quello violento che scalda il sangue, e le facce diventavano rosse, le tempie pulsanti. Ma fu dopo una di queste discussioni che inciampai, scivolai lungo disteso, il muso sbattuto per terra e tutto attorno a me si stinse: non ricordo più di cosa stessi discutendo, ma ricordo che mi mancarono le parole, mi rimase secca la bocca e osservai il mio interlocutore, il mio avversario, muto lo fissavo.
Tutta la mia foga, tutti i miei ragionamenti ben architettati, giocati su una logica contorta ma coerente, tutto crollò come un castello di carte su un tavolo su cui poggia i suoi paffuti gomiti un bambinello di otto o nove anni. E le parole ch'avevo imparato, i bei tempi verbali giustamente coniugati, le mie frasi correttamente costruite rimasero schemi vuoti, intelaiature che non sapevano di che riempirsi, non trovavano di che nutrirsi … sperimentai allora la mia mancanza di radici, mi ritrovai solo, senza nessuno che potesse corrermi in aiuto, senza un protagonista di un romanzo cui ispirarmi, senza una scena di una commedia cui rifarmi, senza un aforisma da ricordare … m'accorsi d'essere solo con le mie parole, di non avere nessuno che potesse parlare al mio fianco, di non avere nessuno su cui contare in una discussione con altri.
Sentii ch'ero abbandonato, che mi ero abbandonato da me, che non avevo nulla.
Dovevo trovare un'àncora cui aggrapparmi e cercare così di non sprofondare nella miseria, nell'immobilità della mancanza di parola e di pensiero. Ma dove iniziare? Dove trovare un qualcuno da ascoltare? Ancora in me sopravviveva un poco di quella superbia che mi impediva di affidarmi ai consigli degli altri, durava un briciolo di quell'arroganza che per la mia prima fanciullezza, per i miei anni di bambino presuntuoso mi aveva animato … e quest'arroganza m'aveva procurato anche complimenti, poiché risultavo un bambino sveglio e intelligente, molto molto perspicace e anche, forse, un po' troppo; ma ora questo rimasuglio m'era d'ostacolo: sentivo la necessità di affidarmi a qualcuno, ma questo qualcuno doveva essermi estraneo e lontano, doveva appartenere a un altro mondo, a un'altra, più lontana epoca … percepivo che questo qualcuno lo dovevo ricercare nei libri perché riconoscevo nei volumi quella distanza che andavo cercando, perché nei libri intravedevo un'àncora che non m'avrebbe obbligato - così pensavo allora, povero me! ero solo un illuso, Dario, uno stupido illuso, perché davvero anche, forse soprattutto i libri ti obbligano ad un servizio perenne, ad  una schiavitù piacevole e straordinaria, ma non altro che una schiavitù, una sottomissione totale e assoluta! - ad un giogo opprimente, un'àncora capace di salvarmi, ma senza che questo salvamento mi costringesse ad un servizio di perenne riconoscimento.
Dunque riconobbi la possibilità che si celava nei libri, in quelle pile infinite di pagine stampate, accuratamente incollate assieme. Riconoscevo che la mano di quegli uomini mi si protendeva attraverso caratteri  neri per darmi un aiuto …
Accettai di affidarmi ai maestri del passato, accettai di concedere che qualcuno mi guidasse da un tempo lontano: ma a chi mi potevo affidare, al fianco di chi potevo scegliere di camminare?

Quando ci si decide a cambiare vita, ci si sente una determinazione dentro che va oltre ad ogni altra sensazione che sia mai stata provata, eppure ci sono davvero troppe scelte, c'è una quantità immensa di vie che uno può scegliere, e allora quella determinazione pare strozzata violentemente, troncata di netto; sei prostrato e non hai le forze, senti la voglia, forte, di alzarti e proseguire, eppure nulla, sei immobile …

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