È davvero un bene che
tutti noi ci si disponga all'ascolto di quello che coloro che sono venuti prima
di noi hanno avuto da dire, mio caro Dario, e non credere che lo dica per
l'abitudine in cui sono cresciuto, perché ho sentito giorno dopo giorno
ripetermi che dovevo comprendere le mie radici per crescere, che dovevo essere
ben saldo sul mio passato per ergermi verso il futuro con più temerità;
piuttosto, all'inizio, odiavo l'idea di dovermi affidare a qualcuno, detestavo
il pensiero di dover seguire delle tracce già percorse, di dovermi fermare e
osservare ciò che mi aveva preceduto. In me v'era quella veemenza giovanile,
quella foga che tutto spazza via e pensa che tutto debba soccombere al mio
passaggio, che ogni cosa, ogni persona sia obbligata a chinare il capo e
baciare la terra che ho calpestata e spazzarmi quella che il mio piede non ha
ancora sfiorata. C'era questa pretesa di superiorità e perfezione, come se io,
solo, nuovo avessi capito tutto e tutti gli altri fossero degli sciocchi illusi
e folli, cretini che non avevano capito assolutamente nulla di ciò ch'era in
realtà.
Rifiutavo, dunque,
quegli insegnamenti e deridevo tutti, convinto di potermi muovere da solo, di
poter affrontare ogni cosa al meglio senza necessità di sostegno alcuno.
Sentivo in me la forza, il vigore, la prepotenza del mio corpo giovane e agile,
mi sentivo potente!
Inciampai un giorno di
ormai sette anni fa, sette anni che, per una vita di ventenne com'è la mia,
sono quasi metà della vita stessa. Ero borioso e superbo, tronfio e supponente
ero in grado di contestare ogni cosa, ero capace di opporre ad ogni
affermazione la sua più perfetta negazione, negazione inattaccabile e
incrollabile: ogni discussione era un tutti contro di me, o, meglio, un me
contro tutti. Amavo discutere, lo scontro, quello violento che scalda il
sangue, e le facce diventavano rosse, le tempie pulsanti. Ma fu dopo una di
queste discussioni che inciampai, scivolai lungo disteso, il muso sbattuto per
terra e tutto attorno a me si stinse: non ricordo più di cosa stessi
discutendo, ma ricordo che mi mancarono le parole, mi rimase secca la bocca e
osservai il mio interlocutore, il mio avversario, muto lo fissavo.
Tutta la mia foga,
tutti i miei ragionamenti ben architettati, giocati su una logica contorta ma
coerente, tutto crollò come un castello di carte su un tavolo su cui poggia i
suoi paffuti gomiti un bambinello di otto o nove anni. E le parole ch'avevo
imparato, i bei tempi verbali giustamente coniugati, le mie frasi correttamente
costruite rimasero schemi vuoti, intelaiature che non sapevano di che
riempirsi, non trovavano di che nutrirsi … sperimentai allora la mia mancanza
di radici, mi ritrovai solo, senza nessuno che potesse corrermi in aiuto, senza
un protagonista di un romanzo cui ispirarmi, senza una scena di una commedia
cui rifarmi, senza un aforisma da ricordare … m'accorsi d'essere solo con le
mie parole, di non avere nessuno che potesse parlare al mio fianco, di non
avere nessuno su cui contare in una discussione con altri.
Sentii ch'ero
abbandonato, che mi ero abbandonato da me, che non avevo nulla.
Dovevo trovare un'àncora
cui aggrapparmi e cercare così di non sprofondare nella miseria,
nell'immobilità della mancanza di parola e di pensiero. Ma dove iniziare? Dove
trovare un qualcuno da ascoltare? Ancora in me sopravviveva un poco di quella
superbia che mi impediva di affidarmi ai consigli degli altri, durava un
briciolo di quell'arroganza che per la mia prima fanciullezza, per i miei anni
di bambino presuntuoso mi aveva animato … e quest'arroganza m'aveva procurato
anche complimenti, poiché risultavo un bambino sveglio e intelligente, molto
molto perspicace e anche, forse, un po' troppo; ma ora questo rimasuglio m'era
d'ostacolo: sentivo la necessità di affidarmi a qualcuno, ma questo qualcuno
doveva essermi estraneo e lontano, doveva appartenere a un altro mondo, a
un'altra, più lontana epoca … percepivo che questo qualcuno lo dovevo ricercare
nei libri perché riconoscevo nei volumi quella distanza che andavo cercando,
perché nei libri intravedevo un'àncora che non m'avrebbe obbligato - così
pensavo allora, povero me! ero solo un illuso, Dario, uno stupido illuso,
perché davvero anche, forse soprattutto i libri ti obbligano ad un servizio
perenne, ad una schiavitù piacevole e
straordinaria, ma non altro che una schiavitù, una sottomissione totale e
assoluta! - ad un giogo opprimente, un'àncora capace di salvarmi, ma senza che
questo salvamento mi costringesse ad un servizio di perenne riconoscimento.
Dunque riconobbi la
possibilità che si celava nei libri, in quelle pile infinite di pagine
stampate, accuratamente incollate assieme. Riconoscevo che la mano di quegli
uomini mi si protendeva attraverso caratteri
neri per darmi un aiuto …
Accettai di affidarmi
ai maestri del passato, accettai di concedere che qualcuno mi guidasse da un
tempo lontano: ma a chi mi potevo affidare, al fianco di chi potevo scegliere
di camminare?
Quando ci si decide a
cambiare vita, ci si sente una determinazione dentro che va oltre ad ogni altra
sensazione che sia mai stata provata, eppure ci sono davvero troppe scelte, c'è
una quantità immensa di vie che uno può scegliere, e allora quella
determinazione pare strozzata violentemente, troncata di netto; sei prostrato e
non hai le forze, senti la voglia, forte, di alzarti e proseguire, eppure
nulla, sei immobile …
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