domenica 22 febbraio 2015

LUI (5)

Finalmente la primavera ci aveva raggiunto, con quel suo caldo per nulla afoso, quel suo profumo tutto particolare di fertilità, di vita: anche in città regnava un odore grasso, di terra umida, di zolla fresca. I pochi prati e parchetti erano tutti popolati di centinaia di piccole margheritine sorridenti, tutte strette l'una accanto all'altra tanto che da lontano parevano una macchia di bianco spalmata sul manto verde dell'erba.
Ancora ero obbligato al mio quotidiano pellegrinaggio di espiazione fino a scuola, martire consapevole di carnefici inconsapevoli. Nelle lunghe ore di lezione spesso appoggiavo il capo su una mano e giravo lo sguardo, lo alzavo dal foglio e lo portavo fuori, a frugare attraverso le fronde degli alberi laggiù, a osservare la luce del giovane sole creare strani effetti sui tetti della città, sui campanili in lontananza, sui terrazzini degli appartamenti del centro.
Tutto era dominato da due colori: verde e giallo. Il verde vivo e lucente della vita, della foglia fresca e piena di forze; il giallo stinto e luminoso della luce sopra ogni oggetto, un giallo pallidissimo e quasi bianco.
Dopo le mie solite sei ore di penitenza, quel giorno, mi fermai davanti all'ingresso, poco fuori dalla porta, mentre centinaia di miei compari di tortura mi giravano attorno, ansiosi di raggiungere casa, un piatto di pastasciutta o il fidanzato che è venuto per fare una sorpresa (!).
Io non avevo fretta quel giorno: le persone con cui solitamente tornavo a casa erano già andate via perché erano uscite prima, a casa non mi aspettava nulla se non qualche avanzo della sera prima, facile e rapido da scaldare al microonde. Con le cuffiette e la mia musica rilassante che risuonava nella mia testa troppo vuota dopo tante ore di ascolto distratto, mi fermai e attesi che l'aria mi avvolgesse e mi comprendesse, che la puzza di chiuso, quel lezzo insopportabile mi lasciasse i vestiti leggeri …
Quando mi mossi era rimasta davvero poca gente e m'incamminai con calma, con serenità verso casa, dimenticando la fretta che mi era solita, abbandonando la frenesia che troppo spesso mi faceva arrivare a casa sudato e ancor più stanco.
Per strada qui e là ricambiavo qualche saluto di qualche persona - della metà non ricordavo nemmeno il nome! - sempre sorridendo, sempre ascoltando familiari parole, muovendo di tanto in tanto le labbra come se stessi cantando proprio io.
Il cielo era azzurro e limpido, pulito e sgombro di ogni nuvola, attraversato solo dai raggi caldi del sole. Nell'aria c'era allegria e serenità, tutto mi parve allora più rilassato, più tranquillo: le biciclette correvano rapide ma non frenetiche, gruppi di giovani gridavano ma mi sembravano meno antipatici del solito, come se la loro naturale aggressività fosse mitigata da quel tempo primaverile.
Camminavo e camminavo lungo la mia strada quando alla solita panchina vidi una persona che non ero abituato a vedere là: era seduto un po' storto verso la mia direzione, con le gambe larghe e la schiena mollemente abbandonata sullo schienale un po' marcio. In mano teneva il suo telefono ma non lo guardava: lo faceva girare e rigirare tra le sue dita sottili, delicate. Il suo ciuffo era stranamente scuro, protetto dal sole da un'alta chioma di un platano, ma sempre impeccabile, spostato tutto da una parte.
Non aveva un'espressione particolare, ma i suoi occhi erano vigili e attenti: osservava tutta la gente che gli veniva incontro, in cerca di qualcosa, in cerca di qualcuno, scrutando ogni volto e scartandolo sempre. Fu allora che mi accorsi che mentre tutto il suo corpo era all'ombra, protetto dalle foglie degli alberi li attorno, il suo collo lungo e sottile, bianco e liscio era baciato dal sole: la luce, come un'amante appassionata, lo abbracciava e in quel punto annullava ogni colore, lasciando che la sua pelle diventasse anch'essa pura luce.
Continuai camminare, iniziando a sorridere e preparandomi a salutarlo.
Mi vide.
Sorrise e allora rividi quel volto felice che mi aveva sempre attratto e che così teneramente ricordavo, conservato nella mia memoria, anzi, in quella parte della mia memoria in cui nascondevo le mie cose più care.
Si alzò e mi venne incontro. Ci abbracciammo appena fummo vicino, di quegli abbracci che non possono essere descritti, che non possono essere spiegati, che ti fanno 'staccare', di quelli a cui non importa nulla il fisico dell'altro, ma di quelli che sono solo abbracci, in cui i corpi si toccano e sembrano non potersi più staccare, legati, appiccicati.
Lui mi mise, come sempre, le sue braccia magre attorno al collo e avvicinò la sua guancia alla mia. Io più timido gli abbracciavo la schiena: mai avrei voluto staccarmene!
Sentivo la sua pelle liscia, ancora 'bambina', sulla mia faccia e sentivo il fresco del suo corpo.
Mi diede un bacio sulla guancia, sempre stringendomi il collo e sempre spensierato, sempre allegro, sempre sereno.

Era venuto per portarmi a casa, visto che lui quel giorno era stato a casa da scuola perché c'erano solo ore buche. Ci incamminammo verso casa mia, l'uno vicino all'altro, insieme sotto gli alberi del viale.

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