Finalmente la
primavera ci aveva raggiunto, con quel suo caldo per nulla afoso, quel suo
profumo tutto particolare di fertilità, di vita: anche in città regnava un
odore grasso, di terra umida, di zolla fresca. I pochi prati e parchetti erano
tutti popolati di centinaia di piccole margheritine sorridenti, tutte strette
l'una accanto all'altra tanto che da lontano parevano una macchia di bianco
spalmata sul manto verde dell'erba.
Ancora ero obbligato
al mio quotidiano pellegrinaggio di espiazione fino a scuola, martire
consapevole di carnefici inconsapevoli. Nelle lunghe ore di lezione spesso
appoggiavo il capo su una mano e giravo lo sguardo, lo alzavo dal foglio e lo
portavo fuori, a frugare attraverso le fronde degli alberi laggiù, a osservare
la luce del giovane sole creare strani effetti sui tetti della città, sui
campanili in lontananza, sui terrazzini degli appartamenti del centro.
Tutto era dominato da
due colori: verde e giallo. Il verde vivo e lucente della vita, della foglia
fresca e piena di forze; il giallo stinto e luminoso della luce sopra ogni
oggetto, un giallo pallidissimo e quasi bianco.
Dopo le mie solite sei
ore di penitenza, quel giorno, mi fermai davanti all'ingresso, poco fuori dalla
porta, mentre centinaia di miei compari di tortura mi giravano attorno, ansiosi
di raggiungere casa, un piatto di pastasciutta o il fidanzato che è venuto per
fare una sorpresa (!).
Io non avevo fretta
quel giorno: le persone con cui solitamente tornavo a casa erano già andate via
perché erano uscite prima, a casa non mi aspettava nulla se non qualche avanzo
della sera prima, facile e rapido da scaldare al microonde. Con le cuffiette e
la mia musica rilassante che risuonava nella mia testa troppo vuota dopo tante
ore di ascolto distratto, mi fermai e attesi che l'aria mi avvolgesse e mi
comprendesse, che la puzza di chiuso, quel lezzo insopportabile mi lasciasse i
vestiti leggeri …
Quando mi mossi era
rimasta davvero poca gente e m'incamminai con calma, con serenità verso casa,
dimenticando la fretta che mi era solita, abbandonando la frenesia che troppo
spesso mi faceva arrivare a casa sudato e ancor più stanco.
Per strada qui e là
ricambiavo qualche saluto di qualche persona - della metà non ricordavo nemmeno
il nome! - sempre sorridendo, sempre ascoltando familiari parole, muovendo di
tanto in tanto le labbra come se stessi cantando proprio io.
Il cielo era azzurro e
limpido, pulito e sgombro di ogni nuvola, attraversato solo dai raggi caldi del
sole. Nell'aria c'era allegria e serenità, tutto mi parve allora più rilassato,
più tranquillo: le biciclette correvano rapide ma non frenetiche, gruppi di giovani
gridavano ma mi sembravano meno antipatici del solito, come se la loro naturale
aggressività fosse mitigata da quel tempo primaverile.
Camminavo e camminavo
lungo la mia strada quando alla solita panchina vidi una persona che non ero
abituato a vedere là: era seduto un po' storto verso la mia direzione, con le
gambe larghe e la schiena mollemente abbandonata sullo schienale un po' marcio.
In mano teneva il suo telefono ma non lo guardava: lo faceva girare e rigirare
tra le sue dita sottili, delicate. Il suo ciuffo era stranamente scuro,
protetto dal sole da un'alta chioma di un platano, ma sempre impeccabile,
spostato tutto da una parte.
Non aveva
un'espressione particolare, ma i suoi occhi erano vigili e attenti: osservava
tutta la gente che gli veniva incontro, in cerca di qualcosa, in cerca di
qualcuno, scrutando ogni volto e scartandolo sempre. Fu allora che mi accorsi
che mentre tutto il suo corpo era all'ombra, protetto dalle foglie degli alberi
li attorno, il suo collo lungo e sottile, bianco e liscio era baciato dal sole:
la luce, come un'amante appassionata, lo abbracciava e in quel punto annullava
ogni colore, lasciando che la sua pelle diventasse anch'essa pura luce.
Continuai camminare,
iniziando a sorridere e preparandomi a salutarlo.
Mi vide.
Sorrise e allora
rividi quel volto felice che mi aveva sempre attratto e che così teneramente
ricordavo, conservato nella mia memoria, anzi, in quella parte della mia
memoria in cui nascondevo le mie cose più care.
Si alzò e mi venne
incontro. Ci abbracciammo appena fummo vicino, di quegli abbracci che non
possono essere descritti, che non possono essere spiegati, che ti fanno
'staccare', di quelli a cui non importa nulla il fisico dell'altro, ma di
quelli che sono solo abbracci, in cui i corpi si toccano e sembrano non potersi
più staccare, legati, appiccicati.
Lui mi mise, come
sempre, le sue braccia magre attorno al collo e avvicinò la sua guancia alla
mia. Io più timido gli abbracciavo la schiena: mai avrei voluto staccarmene!
Sentivo la sua pelle
liscia, ancora 'bambina', sulla mia faccia e sentivo il fresco del suo corpo.
Mi diede un bacio
sulla guancia, sempre stringendomi il collo e sempre spensierato, sempre
allegro, sempre sereno.
Era venuto per
portarmi a casa, visto che lui quel giorno era stato a casa da scuola perché
c'erano solo ore buche. Ci incamminammo verso casa mia, l'uno vicino all'altro,
insieme sotto gli alberi del viale.
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