Sentii che si muoveva
di là, trafficava con non so cosa. Io ero andato a prendergli dell'acqua in
cucina perché come ogni buon padrone di casa mi ero subito preoccupato, appena
aveva varcato la soglia di casa, di chiedergli se volesse qualcosa, se avesse sete
oppure se fosse a posto così. Mi aveva risposto con semplicità, mentre tentava
di disincastrarsi dalla sua stessa giacca a vento. La mano gli era rimasta
imbrogliata nella manica e quando mi ero avvinato per aiutarlo eravamo tutti e
due scoppiati a ridere: sembrava un tonno intrappolato in una rete, tutto
agitato a scuotersi per liberarsi, ignorando il fatto che più si muoveva più si
incasinava.
Disincastrato da
quella trappola mortale lo accompagnai in salotto, quello piccolino dove
teniamo il televisore grande, lì lo avevo lasciato perché si ambientasse - la
casa gliel'avrei mostrata dopo - mentre andavo a prendergli un bicchiere.
Riempii il bicchiere
con la bottiglia presa dal frigo. Non era troppo fredda.
In casa non c'era
nessuno e di là aveva smesso di muoversi.
Era in piedi davanti
alla libreria, con il muso verso i libri e gli alcolici nella vetrina, le mani
in tasca nei pantaloni della tuta, in maglietta, una di quelle con una bella
stampa enorme, larga sul suo torace sottile, il bacino spinto in avanti, il
peso spostato sulle punte dei piedi.
«Tieni» dissi
porgendogli il bicchiere. L'acqua scendeva giù lungo il collo, in un modo
strano, la vedevo scendere attraverso la sua pelle sottile, liscia e luminosa.
Quello schiocco di
lingua, quella soddisfazione data dalla freschezza dell'acqua: ricordo ancora
adesso il dorso della mano passato in fretta sulle labbra umide.
«Grazie! Figa la
casa!» quanto ho invidiavo quel sorriso giovane e sereno, di vera gratitudine e
semplicità.
«Se vuoi ti faccio
vedere il resto!» proposi un po' imbarazzato (non sapevo cosa dire!).
Gli presentai il
salotto e la cucina, indicai dove portavano le scale che scendevano dabbasso,
lo precedetti su per i gradini fino alle stanze delle mie sorelle e dei miei:
la mia camera la lasciai per ultima.
«E questa è camera
mia: scusa per il disordine!»
«Ma che figata! E
questo quadro?»
«È un regalo di mia
sorella: una sua amica è pittrice e le ha chiesto se mi faceva la copia di un
Gauguin; è tra i miei preferiti, Gauguin»
«Figo, figo … e il
balcone?»
Lo feci accomodare
fuori, all'aria del tardo pomeriggio, mentre nel cielo si abbassava il sole,
accompagnato da grandi nuvoloni che parevano circondare la città
risparmiandola. La luce arancione che attraversava l'aria faceva un effetto sul
suo viso: come fosse di un materiale prezioso in grado di impreziosirsi ancora
di più se sfiorato dalla luce del sole, la sua pelle, bella e liscia,
scintillava, non più biancastra, ma colorata di sole al tramonto.
Gli occhi scrutavano
oltre i giardini delle case lì attorno e guardava verso la luce calante, mentre
a oriente saliva quella coltre di azzurro via via più scuro, via via più blu.
«A volte mi metto qui
a non far nulla: si sta benissimo» provai a dire.
Lui, giovane, mi
ignorò, preso a studiare ogni cosa a sentirsi grande, a godere di quell'aria
leggera della sera vicina, un'aria delicata, un brezza dolce che si insinua
sotto i vestiti e li gonfia un pochino, ti carezza la pelle e ti fa venire la
pelle d'oca, ti fa venire brividi piacevoli, brividi che non abbandoneresti per
nulla al mondo …
Muoveva la testa piano
e di qua e di là, io lo osservavo attentamente, godendo di ogni attimo,
cercando di fissare il ricordo indelebile di ogni singolo dettaglio.
Ora mi accorgevo che
il suo ciuffo biondo sembrava qualcosa di sovrannaturale, baciato da quella
luce che pare un'ombra, di quella luce di sera che sembra smarrirsi e che forse
non si ricorda se è lei stessa un'ombra o è lei che le crea.
Non persi un secondo:
guardandolo da fianco, io un poco più arretrato rispetto a lui, scrutai ogni
cosa, mi dipinsi in mente, quasi lo incisi nella carne viva, il modo con cui
dondolava un poco con le mani nelle tasche; fotografai quel mento piccolo e
lanciato in alto, senza paura di ciò che c'è fuori, con audacia fresca, con
quel vigore palpabile, quella forza che attraversa le membra dei coraggiosi,
dei 'pronti' … in lui vedevo quello che io non ero forse mai stato, riconoscevo
quella persona che tante e tante volte avrei voluto riconoscere nello specchio
la mattina, ma che mi era sempre sfuggita: lui era la persona che avrei voluto essere.
Si girò di scatto,
davvero non me l'aspettavo.
Era tutto serio,
sempre con il petto alto, le mani in tasca, agile sui piedi. Mi fissò per
qualche secondo e poi …
E poi mi sorrise: non
so cosa ci fosse in quel sorriso, non so cosa potesse suscitarmi dentro, so
solo che quel sorriso, ogni qualvolta io lo vidi, mi sconvolse e mi incantò;
rimanevo a osservare quel volto felice e semplice, sincero.
«Casa tua è
bellissima!» mi disse. Ringraziai e rientrammo ad aspettare che arrivassero gli
altri per il film.
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