domenica 8 febbraio 2015

LUI (3)

Sentii che si muoveva di là, trafficava con non so cosa. Io ero andato a prendergli dell'acqua in cucina perché come ogni buon padrone di casa mi ero subito preoccupato, appena aveva varcato la soglia di casa, di chiedergli se volesse qualcosa, se avesse sete oppure se fosse a posto così. Mi aveva risposto con semplicità, mentre tentava di disincastrarsi dalla sua stessa giacca a vento. La mano gli era rimasta imbrogliata nella manica e quando mi ero avvinato per aiutarlo eravamo tutti e due scoppiati a ridere: sembrava un tonno intrappolato in una rete, tutto agitato a scuotersi per liberarsi, ignorando il fatto che più si muoveva più si incasinava.
Disincastrato da quella trappola mortale lo accompagnai in salotto, quello piccolino dove teniamo il televisore grande, lì lo avevo lasciato perché si ambientasse - la casa gliel'avrei mostrata dopo - mentre andavo a prendergli un bicchiere.
Riempii il bicchiere con la bottiglia presa dal frigo. Non era troppo fredda.
In casa non c'era nessuno e di là aveva smesso di muoversi.
Era in piedi davanti alla libreria, con il muso verso i libri e gli alcolici nella vetrina, le mani in tasca nei pantaloni della tuta, in maglietta, una di quelle con una bella stampa enorme, larga sul suo torace sottile, il bacino spinto in avanti, il peso spostato sulle punte dei piedi.
«Tieni» dissi porgendogli il bicchiere. L'acqua scendeva giù lungo il collo, in un modo strano, la vedevo scendere attraverso la sua pelle sottile, liscia e luminosa.
Quello schiocco di lingua, quella soddisfazione data dalla freschezza dell'acqua: ricordo ancora adesso il dorso della mano passato in fretta sulle labbra umide.
«Grazie! Figa la casa!» quanto ho invidiavo quel sorriso giovane e sereno, di vera gratitudine e semplicità.
«Se vuoi ti faccio vedere il resto!» proposi un po' imbarazzato (non sapevo cosa dire!).
Gli presentai il salotto e la cucina, indicai dove portavano le scale che scendevano dabbasso, lo precedetti su per i gradini fino alle stanze delle mie sorelle e dei miei: la mia camera la lasciai per ultima.
«E questa è camera mia: scusa per il disordine!»
«Ma che figata! E questo quadro?»
«È un regalo di mia sorella: una sua amica è pittrice e le ha chiesto se mi faceva la copia di un Gauguin; è tra i miei preferiti, Gauguin»
«Figo, figo … e il balcone?»
Lo feci accomodare fuori, all'aria del tardo pomeriggio, mentre nel cielo si abbassava il sole, accompagnato da grandi nuvoloni che parevano circondare la città risparmiandola. La luce arancione che attraversava l'aria faceva un effetto sul suo viso: come fosse di un materiale prezioso in grado di impreziosirsi ancora di più se sfiorato dalla luce del sole, la sua pelle, bella e liscia, scintillava, non più biancastra, ma colorata di sole al tramonto.
Gli occhi scrutavano oltre i giardini delle case lì attorno e guardava verso la luce calante, mentre a oriente saliva quella coltre di azzurro via via più scuro, via via più blu.
«A volte mi metto qui a non far nulla: si sta benissimo» provai a dire.
Lui, giovane, mi ignorò, preso a studiare ogni cosa a sentirsi grande, a godere di quell'aria leggera della sera vicina, un'aria delicata, un brezza dolce che si insinua sotto i vestiti e li gonfia un pochino, ti carezza la pelle e ti fa venire la pelle d'oca, ti fa venire brividi piacevoli, brividi che non abbandoneresti per nulla al mondo …
Muoveva la testa piano e di qua e di là, io lo osservavo attentamente, godendo di ogni attimo, cercando di fissare il ricordo indelebile di ogni singolo dettaglio.
Ora mi accorgevo che il suo ciuffo biondo sembrava qualcosa di sovrannaturale, baciato da quella luce che pare un'ombra, di quella luce di sera che sembra smarrirsi e che forse non si ricorda se è lei stessa un'ombra o è lei che le crea.
Non persi un secondo: guardandolo da fianco, io un poco più arretrato rispetto a lui, scrutai ogni cosa, mi dipinsi in mente, quasi lo incisi nella carne viva, il modo con cui dondolava un poco con le mani nelle tasche; fotografai quel mento piccolo e lanciato in alto, senza paura di ciò che c'è fuori, con audacia fresca, con quel vigore palpabile, quella forza che attraversa le membra dei coraggiosi, dei 'pronti' … in lui vedevo quello che io non ero forse mai stato, riconoscevo quella persona che tante e tante volte avrei voluto riconoscere nello specchio la mattina, ma che mi era sempre sfuggita: lui era la persona che avrei voluto essere.
Si girò di scatto, davvero non me l'aspettavo.
Era tutto serio, sempre con il petto alto, le mani in tasca, agile sui piedi. Mi fissò per qualche secondo e poi …
E poi mi sorrise: non so cosa ci fosse in quel sorriso, non so cosa potesse suscitarmi dentro, so solo che quel sorriso, ogni qualvolta io lo vidi, mi sconvolse e mi incantò; rimanevo a osservare quel volto felice e semplice, sincero.

«Casa tua è bellissima!» mi disse. Ringraziai e rientrammo ad aspettare che arrivassero gli altri per il film.

Nessun commento:

Posta un commento