Mi ritirai tardi
quella sera e ormai la casa dormiva tutta: le finestre dalla strada erano tutte
buie e mentre camminavo sotto il mio appartamento mi sentii un po’ triste al
pensiero che questa giornata fosse oramai giunta al termine. Silenziosamente
salii le scale illuminate a malapena da piccolissime lampade ad olio poste ad
ogni pianerottolo. La porta del mio appartamento si aprì con il consueto scatto
e dopo che l’ebbi chiusa dietro di me mi accolse la più totale oscurità
dell’ingresso. Nelle tenebre mi mossi sicuro verso il corridoio che portava
nelle stanze private. La porta che portava al corridoio era nascosta da una
pesante tenda di foggia orientale, secondo la mania che ha preso le nostre
classi agiate in questi tempi un po’ pazzerelli: il tessuto, pesante, cadeva
fino a terra dal soffitto e le decorazioni in rilievo erano ben chiare sotto
le mie dita. Scostai il panno e poggiai
la mia mano sulla sinuosa maniglia, fatta arrivare – per un capriccio
estremamente caro, purtroppo per il mio portafogli – direttamente dall’India!
Pensavo,
entrando in corridoio, che mi avrebbe atteso la stessa oscurità che mi ero
lasciato indietro, invece la coltre delle tenebre era violata da un lume in
lontananza, da un fascio sottile di luce che si intrometteva da dietro una
porta socchiusa. La luce proveniva dalla camera da letto.
“Che Teresa si
sia addormentata dimenticando di spegnere il lume del comodino?!” pensai mentre
mi incamminavo verso la stanza. Camminando badai di non urtare i bei tavolini
che erano arrivati da Giava e di non sfiorare nemmeno per un attimino gli
enormi vasi di una qualche dinastia – chissà quale! – cinese che erano arrivati
solo qualche settimana addietro. Il profumo che si spigionava dalle tende che
celavano le porte era violento, ma piacevole, un abbraccio tanto stretto, ma
assolutamente non fastidioso.
Giunsi
finalmente alla mia camera da letto e, senza entrare, strizzai l’occhio, che
ormai non era più abituato alla luce, e lo costrinsi a spiare attraverso quello
spiraglio.
Teresa non s’era
addormentata dimenticando il lume acceso, no!
Teresa era
sveglia nella stanza, si muoveva seduta sul letto, il corpo completamente nudo,
la pelle nuda abbracciata dalla luce che brillava sul tavolino a fianco del
letto; dava le spalle alla porta e le sue gambe erano allungate sulle morbide
sete e sulle pellicce di macaco che erano giunte dalle lontane terre del Sole.
La tenda del baldacchino, color turchese, scende morbida dall’alto sul letto e
lei ne ha preso un lembo e se lo trae sul polpaccio, con la stessa mano in cui
tiene un bellissimo ventaglio di piume di pavone che le piace tanto.
I suoi capelli,
che io amo così tanto quando sono sparsi sulle sue spalle e il loro profumo la
ammanta come un velo diafano, sono raccolti in una sorta di sciarpa di Persia,
fermata su una tempia con una di quelle belle spille di perle per le quali ha
tanto insistito ché le comprassi.
È nuda. La sua
pelle chiara è tutta per me, tutta baciata dalla luce tremolante, ma che,
fortunatamente, non lascia nulla all’immaginazione, che me la offre così, com’è
realmente.
Ma ecco che si
sta voltando e guarda verso la porta: mi ha visto.
Non disse nulla,
tacque e non sorrise nemmeno, rimase lì: sapeva che io ero dietro quella porta
socchiusa e stette ferma perché io la guardassi ancora, ancora, ANCORA!
Io rimasi a
lungo a contemplare quello spettacolo così straordinario. Lei continuava a
fissare la porta, voltata solo con il capo, e io le studiavo le dolci forme
della schiena, le morbide curve delle gambe, ecco! sì! nessuna parola
descriverebbe meglio questa immagine che mi si parò davanti: morbida, soffice …
Attesi ancora e
la rimirai, poi entrai da mia moglie.
Jean Auguste
Dominique Ingres, La Grande Odalisca
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