sabato 14 febbraio 2015

MORBIDA

Mi ritirai tardi quella sera e ormai la casa dormiva tutta: le finestre dalla strada erano tutte buie e mentre camminavo sotto il mio appartamento mi sentii un po’ triste al pensiero che questa giornata fosse oramai giunta al termine. Silenziosamente salii le scale illuminate a malapena da piccolissime lampade ad olio poste ad ogni pianerottolo. La porta del mio appartamento si aprì con il consueto scatto e dopo che l’ebbi chiusa dietro di me mi accolse la più totale oscurità dell’ingresso. Nelle tenebre mi mossi sicuro verso il corridoio che portava nelle stanze private. La porta che portava al corridoio era nascosta da una pesante tenda di foggia orientale, secondo la mania che ha preso le nostre classi agiate in questi tempi un po’ pazzerelli: il tessuto, pesante, cadeva fino a terra dal soffitto e le decorazioni in rilievo erano ben chiare sotto le  mie dita. Scostai il panno e poggiai la mia mano sulla sinuosa maniglia, fatta arrivare – per un capriccio estremamente caro, purtroppo per il mio portafogli – direttamente dall’India!
Pensavo, entrando in corridoio, che mi avrebbe atteso la stessa oscurità che mi ero lasciato indietro, invece la coltre delle tenebre era violata da un lume in lontananza, da un fascio sottile di luce che si intrometteva da dietro una porta socchiusa. La luce proveniva dalla camera da letto.
“Che Teresa si sia addormentata dimenticando di spegnere il lume del comodino?!” pensai mentre mi incamminavo verso la stanza. Camminando badai di non urtare i bei tavolini che erano arrivati da Giava e di non sfiorare nemmeno per un attimino gli enormi vasi di una qualche dinastia – chissà quale! – cinese che erano arrivati solo qualche settimana addietro. Il profumo che si spigionava dalle tende che celavano le porte era violento, ma piacevole, un abbraccio tanto stretto, ma assolutamente non fastidioso.
Giunsi finalmente alla mia camera da letto e, senza entrare, strizzai l’occhio, che ormai non era più abituato alla luce, e lo costrinsi a spiare attraverso quello spiraglio.
Teresa non s’era addormentata dimenticando il lume acceso, no!
Teresa era sveglia nella stanza, si muoveva seduta sul letto, il corpo completamente nudo, la pelle nuda abbracciata dalla luce che brillava sul tavolino a fianco del letto; dava le spalle alla porta e le sue gambe erano allungate sulle morbide sete e sulle pellicce di macaco che erano giunte dalle lontane terre del Sole. La tenda del baldacchino, color turchese, scende morbida dall’alto sul letto e lei ne ha preso un lembo e se lo trae sul polpaccio, con la stessa mano in cui tiene un bellissimo ventaglio di piume di pavone che le piace tanto.
I suoi capelli, che io amo così tanto quando sono sparsi sulle sue spalle e il loro profumo la ammanta come un velo diafano, sono raccolti in una sorta di sciarpa di Persia, fermata su una tempia con una di quelle belle spille di perle per le quali ha tanto insistito ché le comprassi.
È nuda. La sua pelle chiara è tutta per me, tutta baciata dalla luce tremolante, ma che, fortunatamente, non lascia nulla all’immaginazione, che me la offre così, com’è realmente.
Ma ecco che si sta voltando e guarda verso la porta: mi ha visto.
Non disse nulla, tacque e non sorrise nemmeno, rimase lì: sapeva che io ero dietro quella porta socchiusa e stette ferma perché io la guardassi ancora, ancora, ANCORA!
Io rimasi a lungo a contemplare quello spettacolo così straordinario. Lei continuava a fissare la porta, voltata solo con il capo, e io le studiavo le dolci forme della schiena, le morbide curve delle gambe, ecco! sì! nessuna parola descriverebbe meglio questa immagine che mi si parò davanti: morbida, soffice …
Attesi ancora e la rimirai, poi entrai da mia moglie.

Jean Auguste Dominique Ingres, La Grande Odalisca

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