FIORDALISO
Indossavo la mia
sciarpa preferita, morbida e calda, attentamente disposta di modo che nessun
pezzettino di pelle rimanesse scoperto. Era un mio vizio, una delle mie
passioni, quella sciarpa. Mi sentivo al sicuro, protetto non solo dal freddo, ma
da qualcos'altro, qualcosa di meno ovvio, qualcosa che non riesco a comprendere
interamente. Non c'era il sole, ma solo la sua bella luce diffusa attraverso
bianche nuvole uniformi. C'era odore di gelo, quel profumo di freddo avvolgente
e penetrante: ogni respiro significava accogliere nel petto un brandello di
quell'aria anestetica e spessa; ad ogni respiro il mio petto s'innalzava un
pochetto, inebriato dall'atmosfera pulita e semplice di quella giornata
d'inverno.
Durante la notte avevo
passato alcuni momenti d'insonnia, fermo nel mio lettino a guardare l'oscurità
con gli occhi spalancati, senza quasi sbattere le palpebre. Ricordavo la sua
pelle delicata e liscia, di fanciullo e aspettavo il giorno che stava
arrivando, quando, finalmente, avrei riveduto quel viso cui ero così devoto.
Ora attendevo in
silenzio, accoccolato nella mia sciarpa, e aspettavo trepidante di scorgerlo
arrivare da dietro l'angolo: attorno a me c'era un ragazzo che raccontava ad un
suo amico di cosa era successo tra lui e una certa Cristina; un po' più in là
una ragazza messaggiava rapidamente, intenta, penso io, a rispondere a decine e
decine di persone che la interpellavano ora per questo motivo ora per
quell'altro. Poi il resto del centro città era animato dalla solita fretta infreddolita
dell'inverno, tra uomini in completo che se ne ritornano dai loro uffici
sfoggiando la loro vita scintillante e tra ragazzini che non sono troppo
preoccupati per la scuola. Ma tutto questo era per me solo arredamento,
qualcosa che era stato disposto con attenzione da un fine intenditore, ma che
non rappresentava altro che suppellettili e basta. Io stavo aspettando, in uno
stato di tensione e insofferenza tremendo: in me cresceva il bisogno di lui e
man mano che passava il tempo mi sentivo come gonfiato da questa necessità
sempre più impellente. Lui s'avvicinava, lo sentivo, e pian piano sentivo che
la forza che riusciva ad esercitare su di me cresceva, e s'ingrandiva e
diventava sempre più violenta.
Sentivo nell'aria che
la sua aura perfetta era quasi tra le mie braccia. Sentivo che finalmente avrei
stretto quell'anima d'oro e luminosa: la sua purezza si sarebbe abbassata
presto dall'alto dei cieli dal quale proveniva, fino alle mie mani impure,
semplici mani di uomo disperato, misero e solo. Mi avrebbe, venendomi di nuovo
incontro, salvato, redento dalla mia orribile condizione di inetto e verme:
come Beatrice per Dante, mi avrebbe di nuovo portato quella sua luce perfetta
ed eccelsa, tutta pervasa di quel profumo così intenso, così straordinariamente
meraviglioso, che rimaneva sempre sulla mia pelle ogni volta che mi sfiorava.
Lui, candido e puro, sarebbe stata la mia salvezza: ogni volta che lo
incontravo comprendevo cosa si intende per "resuscitare dai morti",
poiché solo lui era in grado di rigenerarmi fin dalla più intima fibra del mio
corpo.
Era un magnete, per
me, come una grande calamita superpotente in grado di condizionare ogni mia
azione, ogni respiro, ogni volta che ci avvicinavamo.
E guardavo
quell'angolo, con il marciapiede che curvava verso la piazza in cui lo
attendevo. Un piede rapido si sarebbe
presto mostrato con la solita allegria, seguito, immediatamente, da un corpo
giovane e forte, slanciato e perfetto. Chi avrebbe detto che era bello? Nessuno,
forse, ma, nonostante ciò, egli era la perfezione più assoluta, e perfino gli
angeli nell'alto dei cieli lo avrebbero invidiato. In lui, infatti, c'era
qualcosa che non c'entrava con la bellezza che tutti noi immaginiamo comunemente, ma si nascondeva una
forza inspiegabilmente più potente della bellezza, più grandiosa.
Non osavo fare altro,
non distoglievo lo sguardo e non osservavo il telefono: l'attesa mi coinvolgeva
tutto, mi obbligava a fissare quell'angolo così banale, svoltato già tante e
tante volte. Ero in attesa di un miracolo, un miracolo che avrebbe illuminato
quella giornata e avrebbe donato una meravigliosa scossa al mio animo come
sempre intorpidito.
Ricordo che cercavo di
non battere gli occhi per continuare a osservare quel lembo di strada: ero
anche in grado di ignorare le macchine che passavano, scartavo il palo un po'
storto che vietava la sosta lungo il corso e mi concentravo solo su quello
straccio di angolo. Come nella notte di San Lorenzo, scrutavo quel cielo in attesa della mia stella cadente.
Smarrii completamente
la facoltà di pensiero, totalmente. Ero uno scemo, rimbecillito dal bisogno di
quell'apparizione, completamente intontito nel sognare la perfezione che stavo
per riabbracciare.
Sentii una voce da
dietro di me e qualcosa di sottilissimo e fresco che sfiorava la mia pelle del
collo: mannaggia a me non m'ero avvoltolato bene nella mia sciarpa! Beh, sentii
questo brivido e «Cucù!» sorrise una voce alle mie spalle.
Mi voltai e, già con
il sorriso, salutai la sua perfezione con un «Ciao!». Era arrivato da un'altra
strada.
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