martedì 8 settembre 2015

LUNGO LA STRADA 1/2

Nemmeno iniziavano a sciogliersi le luci flebili delle stelle. Il cielo era una volta tutta ricoperta da minuscoli schizzi di luce. La luna quella notte aveva scelto di non affacciarsi sul sonno degli uomini e il caldo abbraccio paterno del sole era ben lungi da avvolgere quell'angolo di mondo. Coperti sotto laceri mantellacci, i pastori cui toccava quella notte aspettavano la fine dell'oscurità. Nelle notti di luna nuova s'accendevano anche dei fuocherelli un po' più vivaci, per dimenticarsi dell'assenza di una, anche misera, falcetta luminosa. Non era nemmeno troppo difficile non addormentarsi: non faceva abbastanza freddo da dimenticare tutte le preoccupazioni del bestiame e della vita di ogni giorno, tuttavia faceva freddo! Un freddo fastidioso che mordeva, come tante piccole boccucce crudeli dai denti affilatissimi, le dita dei piedi, i quali piedi erano ovviamente mal avvolti in vecchi stracci, dentro  un paio di stivalacci abbandonati da chissà chi in un fosso.
Non c'era silenzio, ma non s'identificavano versi di animali, rumori di ruscello o di fronde smosse dal vento: un rumorio strano e costante, quasi un respiro grasso e profondo, nascosto da qualche parte oltre i verdi pascoli e le fitte foreste.
Nelle catapecchie, spesso isolate, abbandonate da sole in mezzo a un paio di prati o tra un campo e il bosco, quelli che erano rimasti in casa si godevano, si fa per dire, le ore di sonno: come tutte le sere era stato difficile addormentarsi, morsi, dentro, da un senso di fame pungente. Poi, però, le fatiche del giorno s'erano appollaiate con il loro notevole peso sulle palpebre dei poveracci e allora era iniziato un sonno senza sogni, un sonno di immobilità e assenza. Quel momento, quando tutti ci si ritrovava al buio nella stessa stanza, era uno di quelli che lasciava più perplessi; soprattutto aveva effetto sui più giovani, su quei bambini che presto avrebbero preteso di essere considerati grandi: la stanza, dove ormai si spegnevano le faville del focolare, lasciando il passo a piccole braci con cui la nonna la mattina avrebbe litigato per rianimare la fiamma, una stanza stracolma di persone di ogni età. Il respiro di tutti riempiva pian piano l'aria e scaldava l'ambiente. A poco a poco si veniva avvolti dalla propria stessa vita, mentre ogni russata riaccendeva un poco di quel calore; ma di tanto in tanto s'udiva un colpo di tosse, quasi che qualcuno si stesse strozzando. Era così, uno dei momenti più lieti - quel tepore tanto dolce! - svaniva, soffocato da se stesso. Ed erano i bambini, soprattutto loro, che s'addormentavano affascinati da questo fatto così strano: un pensiero quasi filosofico attraversava le menti di quei bifolchi di campagna e li lasciava tutti con l'amaro in bocca. Ci s'addormentava insoddisfatti.
A S. quella notte toccava stare con le bestie. Era estate e i campi ogni giorni si coloravano un po' di più sotto le carezze del sole, ma la notte era dannatamente umida e non si poteva non rimpiangere di vivere in un luogo così assurdamente freddo anche d'estate: ogni tanto un viandante era arrivato dalle loro parti e aveva raccontato che da lui, da dove era partito, d'estate era pressoché impossibile dormire con indosso più che un paio di calzoncini leggerissimi. Laggiù, diceva lui, d'estate faceva caldo come di giorno anche di notte, quasi che anche al buio il sole continuasse a soffocare con i propri raggi roventi. S. aveva più e più volte sognato come sarebbe stato vivere in quella terra del mistero, dove il sole continuava a scaldare anche dopo essere tramontato, e in particolar modo ci pensava quando toccava  a lui vegliare con gli animali: il solo immaginare una terra così calda lo teneva in vita contro quell'umidità gelata. Di fronte a lui svaniva l'oscurità cupa della sua terra, scompariva il piccolo fuocherello che ardeva ai suoi piedi e che a malapena illuminava il suo viso; tutto diventava una grande terra piatta, colorata dalle mille sfumature del grano e del granturco. Anche nella notte - immaginava - il calore del sole riusciva a far brillare un poco quelle coltivazioni tanto rigogliose. Immaginava di addormentarsi sotto il cielo cosparso di stelle senza nemmeno doversi preoccupare di coprire bene le dita dei piedi. Immaginava di sentire una formichina camminargli sul petto nudo, nudo! Era un mondo di meraviglie, un mondo lontano che spesso lo incantava con il suo fascino.
S. era un ragazzino intelligente, ma un bifolco, sveglio, ma un bifolco, sensibile, ma un bifolco. In lui scorrevano le stesse emozioni che un giorno qualche poeta aveva forse mirabilmente descritto in qualche poderoso volume rilegato, ma quel poveretto non avrebbe mai compreso le parole con cui chiamare ciò che si portava dentro: di fronte alla notte S. rimaneva estasiato per l'immensità di ciò che lo avvolgeva, addirittura dimenticava le vecchie lezioni del curato o della zia e si librava con il cuore alla stessa altezza dei più coraggiosi tra gli uccelli; ma tutto ciò che sentiva rimaneva rinchiuso, quasi segregato, nel suo petto da bambino, ancora troppo fragile e poco robusto. In certi momenti non avrebbe desiderato altro che urlare, gridare a squarciagola al mondo un'unica e tremenda 'AHHHHHHHHHHHHH': cos'altro avrebbe potuto strillare? 'AHHH' era l'unica cosa che riusciva a traboccare dal suo petto, scombussolato da chissà quale emozione, fino alla lingua, sempre così maledettamente paralizzata dall'ignoranza.
Così le sue nottate di veglia passavano nel silenzio del piccolo fuocherello davanti ai suoi piedi, in attesa che finalmente il sole osasse ritornare a sbirciare su quel pezzettino di mondo.
Il giorno che attendeva quella notte era una domenica: la nonna e la mamma lo avrebbero costretto ad andare al villaggio in chiesa. Bisognava rendere grazie per tutti i doni del Signore. Non gli avrebbero concesso nemmeno un po' di tregua, dopo una notte all'aperto: solo il babbo e Giordano (il fratello più grande) sarebbero stati risparmiati dal pellegrinaggio fino alla chiesetta. Loro dovevano preoccuparsi delle bestie. Sua sorella Irene sarebbe stata contentissima, come tutte le domeniche, di quel piccolo viaggetto rituale: per lei andare in chiesa era come il miglior gioco ch'esistesse, non perché la divertisse, ma perché era una di quelle pochissime cose che la rendevano felice. Sua sorella era una di quelle che s'entusiasmano, come se fossero inebriate da un'ispirazione divina, ogniqualvolta s'inizino le orazioni della sera. S. aveva sempre ammirato l'eleganza e la devozione con cui sua sorella si faceva il segno di croce: se fino a poco prima aveva riso e scherzato, nel momento stesso in cui pensava di doversi segnare, iniziava ad acquisire una consapevolezza insolita per una bambinetta di otto anni. In lei non c'era alcuna affettazione, non recitava con volgarità la sua parte di devota figlioletta. Sembrava davvero essere soddisfatta solo da quella vita spirituale ripetitiva e abitudinaria. S. non avrebbe mai potuto dimenticare quella volta che l'aveva vista sfuggire di nascosto al controllo severo della mamma e l'aveva seguita fino a un angolino nascosto dell'orto, dove lei, tutta attenta a esser sola, aveva tirato fuori, da una crepa particolarmente profonda nel muretto, un minuscolo rosario fatto con tanti piccoli pezzetti di sughero rubato dagli scarti del nonno. Se l'era costruito da sé, sacrificando un pezzetto di spago della sua 'cintura' e dopo una lunga ricerca del legnetto a forma di croce perfetto. Nessuno, tuttora, sapeva dell'esistenza di quel rosario segreto, nascosto nel muricciolo dell'orto, oltre la fila di cavoli. Per la comunione il curato le aveva anche regalato un rosario vero e proprio, proveniente dalla bottega di un artigiano in città; ma Irene, quando non le gravava sulla coscienza un compito datole dalla madre, scappava silenziosamente dalla casa e recitava le suppliche alla Madonna stringendo in mano quel suo rosario di sughero e spago. Il rosario 'ufficiale', quello donatole dal curato, Irene lo esibiva solo di domenica, quando la casa veniva abbandonata da tutti - tranne che dal nonno, troppo malconcio per muovere un'unghia.
Tutti, di domenica, venivano lavati, almeno grossolanamente, almeno per togliere via un po' della polvere accumulata nell'intera settimana di lavoro. Ci sarebbe stata la solita processione alla vasca con per gli animali e lì ci si sarebbe sciacquati il volto e le ascelle con l'acqua gelata. Gli uomini, quelli che l'avevano, avrebbero sfregato la barba con un po' più di foga; le donne, almeno le giovani ancora non sfiorate dal dono doloroso della maternità, avrebbero aspettato di rimanere tra di loro. Quello, forse, gli piaceva della domenica: più che la messa, più che la passeggiata senza fretta fino al villaggio, più che incontrare gente dal resto del circondario, amava la sensazione di trovarsi in rilassatezza e, contemporaneamente, in eccitazione. Non c'era l'ansia del lavoro, almeno per quella mattina, ma s'assisteva a momenti di insolita serenità, un brio per niente comune che si concentrava proprio attorno alla vasca per l'abbeveraggio delle bestie.
Ai suoi fratelli e ai suoi cugini piaceva di sicuro l'aria del villaggio, incontrare le figlie di qualche vicino, sbirciare sotto i grembiali delle due donnicciole che servivano alla locanda all'ingresso del paese. Certo, era divertente, era piacevole addirittura arrossire, qualche volta, quando qualche ragazza s'accorgeva d'essere oggetto di attenzioni non proprio convenienti; ma il momento migliore, per S., era quella vasca circondata da persone che si debbono preparare al meglio per qualcosa che continueranno sempre a non comprendere.
Ecco un altro di quei pensieri filosofici che attraversavano il petto di questo giovane nelle sue notti di veglia. Ma tutto ciò non si presentava nella sua mente come un ragionamento preciso e strutturato, bensì come quella meravigliosa sensazione, erano solo brividi e tremolii che gli scuotevano gl'intestini ogni domenica attorno alla vasca delle bestie.
Fu un attimo e le stelle lungo l'orizzonte s'annullarono all'arrivo dei primi, timidissimi raggi di sole. Avrebbe dovuto aspettare ancora del tempo prima di poter rientrare: fintanto che suo padre non fosse venuto a dargli il cambio, lui avrebbe dovuto rimanere là, ad aspettare che in casa ci si svegliasse. Ma, in fondo, a S. non dispiaceva nemmeno granché: l'alba era uno di quegli eventi che l'affascinavano di più. Il sole, che, finalmente, si concedeva, a poco a poco, allo sguardo di quell'angolino del mondo, era per lui un dono meraviglioso. Le colline si mostravano, allora, con timidezza. Emergevano i profili del villaggio e della chiesa; tra una valle e l'altra si vedeva, adesso, un fitto banco di nebbia impalpabile; lungo l'orizzonte s'allineavano una dopo l'altra le fasce di colore diverso, via via sempre più luminose. E quando il sole, con la sua sfera un po' schiacciata, stava per mostrarsi tutto bello paffuto, ecco che arrivava suo padre, col suo passo pesante e deciso, a dirgli che poteva finalmente rientrare.

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