LA REGINA E SUO MARITO
racconto tratto da 'Testamento' - JD 00 Aa 345 (archivio personale)
Di notte Aldobrando se ne sedeva nel suo studiolo, circondato da
mille e mille libri, tutti accatastati gli uni sugli altri. Alla luce di un
piccolissimo moccolo di candela il povero Aldobrando sacrificava la sua vista
alla ricerca di un indizio che potesse aiutarlo in quella situazione
drammatica. Ormai andava avanti da mesi, troppi mesi; e in effetti i mesi erano
divenuti anni e anche questi s'erano assommati tra loro. Il tempo era passato e
Aldobrando era sempre più determinato ad abbandonare quella folle impresa: era
impossibile! Non c'era una soluzione, non poteva esistere un modo per risolvere
tutto quel macello. Cosa pretendeva da lui quell'altro folle? Lui era un
medico, certo, e anche il più stimato dei medici, per anni aveva studiato
qualsiasi patologia, qualsiasi morbo, ogni cosa! Ma tutto ciò era impossibile,
era al di là dei poteri di un medico. Nemmeno Dio avrebbe potuto fare qualcosa:
se non ci riusciva lui, Aldobrando, neanche Dio sarebbe riuscito! Però non
poteva desistere, se non altro, per
amore del suo collo e della sua preziosissima testa intelligente.
Fuori la notte si faceva sempre più pallida e presto l'alba
avrebbe violato le tenebre. Allora un servitore sarebbe giunto da Aldobrando e
gli avrebbe comunicato che il re lo aveva convocato. Lui avrebbe sbuffato
alzandosi dal suo seggiolone senza imbottiture, poi avrebbe raccattato qualche
fogliaccio a caso, riempito di chissà quasi sciocchezze, e avrebbe seguito il
servitore fino alla Sala Privata del re. Lì lo avrebbe accolto un grande
silenzio, interrotto solo dal crepitio delle fiamme nel grande camino.
Bussarono alla porta: dalla finestra sbirciava il primo flebile
raggio di sole. «Avanti!» sbraitò Aldobrando, senza muoversi da dov'era. Un
ragazzino impacciato e un po' gobbo s'affacciò nella stanzetta afosa e disse,
con una vocina acuta e stridula: «Mastro Medico! Sua Altezza Reale vi convoca
al Suo cospetto, immediatamente» Allora Aldobrando chinò il capo, rassegnato,
e, come dopo aver preso la rincorsa, l'alzò in piedi. Caricatosi di qualche
triste formula per i più inutili medicinali, si accodò al ragazzino e percorse
gli scuri corridoi del castello. Ancora, nella pancia della fortezza, non giungevano
i raggi luminosi del sole e solo ogni tanto appariva nell'oscurità una candela
incastonata nelle fredde pareti.
«è forse cambiato
qualcosa?» chiese a un certo punto Aldobrando, ben conscio di essere prossimo
alla Sala Privata «No, Maestro: la regina rimane come sempre, e Sua Altezza
anche stanotte ha dormito poco e in maniera estremamente agitata»«Il
Cancelliere?» «Ha vegliato per qualche ora con Sua Altezza, ma poi si è
ritirato. Quando Sua Altezza mi ha mandato a chiamarvi, il Cancelliere non era
ancora arrivato» Bene, pensò Aldobrando, almeno se non c'è lo stramaledetto
Cancelliere dei miei stivali posso pensare di tentare di far ragionare il mio
amatissimo re folle! è tutta
colpa sua, d'altronde, io lo so! E intanto arrivarono dinnanzi a una piccola
porticina illuminata da tre candele su un candelabro incassato in una nicchia a
lato. Dalla parte opposta vigilava un soldato armato di tutto punto. Il
ragazzino aprì la porta e nuovamente Aldobrando riscoprì la luce del sole:
dalle finestre su un lato della stanza entravano i raggi dell'aurora, ancora
pallidi e timidi, ma già capaci di splendere più di mille scintille nel camino.
Questo, a proposito, era caldo e crepitante, allegro. E solo l'allegria del
camino sopravviveva ancora, infatti il resto della stanza era avvolto da una
strana aura cupa, come se tutto fosse stato affumicato da una nube nera e
pesante. Al tavolo, al centro, era seduta una figura ricurva, magra magra,
piegata su se stessa e con le braccia lunghe, penzoloni verso il pavimento.
«Maestro?!» disse con fatica, quasi in un soffio, la figura al
tavolo «siete voi?» «Certamente, Vostra Grazia!» «Ditemi: ci sono novità?» ecco
la solita domanda, parte ormai di una routine quotidiana del quale il medico di
corte non ne poteva più. «Temo di no, Altezza Reale: ho sfogliato i miei libri
tutta la notte e ho trovato molto poco a proposito di questi sintomi» Tutto fu
avvolto da un nuovo, ancor più innaturale silenzio: anche il fuoco sembrava
essersi azzittito.
«Peccato!» Aldobrando non s'era accorto che in un angolo più scuro
della stanza s'era appostato un omuncolo basso e grassottello, vestito con
eleganza e ricchezza: il Cancelliere. Mannaggia, pensò il medico, ecco che c'è
di nuovo questo lurido infame! «Peccato davvero, mio carissimo amico - proseguì
l'ometto insopportabile, con una voce mielosa e ripugnante - Sembra quasi che
le vostre illustrissime doti si stiano rivelando assolutamente inefficaci, non
è così?» C'era più che malizia nelle sue parole; c'era una vera e propria
crudeltà oscena.
«Non è che le mie arti non siano all'altezza, Signor Cancelliere,
ma è che …» ma lo interruppe «No, no, no, mio caro amico, non vi dovete
scusare. Non ce n'è motivo. Sappiamo tutti troppo bene che a volte ci si
aspetta troppo da alcune persone …» In Aldobrando cresceva l'odio per
quell'essere odioso: ma come osava, quel verme! Non sa chi sono, si diceva, io
sono conosciuto in tutti i reami per la mia conoscenza e il mio sapere, e
questo ignobile gnomo osa parlare così?!
«Vi prego - disse, improvvisamente, con la sua voce ch'era un
sussurro, il re - vi prego, Maestro, ditemi che c'è qualcosa che non abbiamo
ancora tentato, ditemi che c'è ancora una speranza … vi prego» sembrava un
mendicante a digiuno da mesi e mesi, ormai privato di ogni vitalità, di ogni forza
d'animo: uno straccio sporco e consumato.
«Mi dispiace Vostra Maestà, ma non … non …» cosa poteva aggiungere
a quel 'non': avrebbe dovuto dar ragione a quel viscido del Cancelliere!
«Il fatto, mio unico sovrano - s'intromise il Cancelliere dannato
- è che il nostro Aldobrando le ha provate ormai tutte, ha messo alla prova
tutte le sue ricette e i suoi rimedi. Non ha altro da offrirci: è inutile
rivolgerci ancora a lui, Altezza Reale, poiché ormai … - e fece una pausa in
cui, nella penombra, sorrise crudelmente - perché ormai è inutile»«Questo è
troppo! - sbottò il medico - io non sono
inutile! Ma come vi permettete voi, lurido pezzente che non siete altro,
parassita, meschino, schifosa sanguisuga?! La verità è che siete stato voi, ne
sono certo, ne sono sicuro, non so come, non so in che modo assurdo, ma forse
avete chiesto aiuto del diavolo con cui, questo lo so, ve la intendete
benissimo. Siete stato voi, vile schifoso: avete fatto ammalare la regina di
una malattia nota solo al demonio così da strappare le forze al vostro stesso
re, carogna!, e così potete governare al suo posto: siete un verme, un verme,
un verme putrido e mefitico, dovreste morire, impiccagione, ecco cosa vi
meritereste, luridissimo maiale!!» Con quanta violenza sbraitò queste parole contro
il Cancelliere, il quale, pacifico, si godeva la scena: ormai il medico s'era
autocondannato con le sue stesse parole - anche il re lo avrebbe ritenuto un
folle.
Aldobrando fu fatto portare via mentre sbraitava: il re aveva
ordinato che fosse allontanato per sempre dal castello e che mai più sarebbe
stato riammesso nella capitale.
«Cosa facciamo, ora?» chiese, ancor più sconsolato, il re, sempre
immobile nella sua posa da straccio lercio.
«Altezza, mio Signore, cosa possiamo fare? Cercheremo un altro
medico, altri sapienti, li faremo arrivare da ogni parte della terra, da ogni
reame. Presenteremo loro il caso e cercheremo di rimediare a questa terribile
faccenda - parlava con voce gentile, ma sotto sotto qualcuno avrebbe percepito
l'affettazione di quell'espressione così eccessivamente preoccupata - Ma
intanto voi dovete riposare …»«Ma … ma …» balbettò il sovrano «Ma, niente,
Altezza: siete un grande re e vi preoccupate del vostro reame, però siete anche
un uomo, sebbene uno dei più grandi di sempre, e in quanto uomo avete bisogno
di riposare»«Grazie - disse con voce sincera il re, rivolgendosi con un sorriso
gentile al Cancelliere - menomale che ci siete voi, così attento ad
aiutarmi»«Non ringraziatemi, Altezza: vivo per servirvi»
Accompagnò il re alla porta dietro la quale lo attendeva un
valletto. Di lì il re andò a riposare, mentre il Cancelliere si incamminò verso
la Sala del Trono, dove si sarebbe seduto sul seggio posto poco sotto al trono
e avrebbe governato al posto dello sventurato sovrano.
Intanto, nella sua stanza, la regina dormiva e non sognava, poi si
svegliò e passò la giornata immobile, seduta alla finestra a guardare il
paesaggio senza riuscire a proferire una parola, senza riuscire a mutare
espressione del viso, senza riuscire a fare nulla.
Quando il re morì, qualche anno dopo, roso e divorato dalla
disperazione per non essere riuscito a guarire la moglie, la sua amatissima
sposa, i nobili del reame non poterono far altro che riconoscere al Cancelliere
il diritto di continuare a regnare, visto che lo aveva fatto così bene anche
quando non era lui il re.
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